Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di I pesci non chiudono gli occhi di Erri De Luca. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 8,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
I pesci non chiudono gli occhi: trama del libro
Il libro è ambientato presumibilmente in un’isola nei pressi di Napoli (la posizione esatta non viene mai specificata) e l’autore narra i suoi trascorsi di bambino di circa una decina d’anni. Quell’anno aveva incontrato una ragazza ed avevano cominciato a chiacchierare seduti sui gradini di una palafitta del bar. Da allora tre ragazzi invidiosi di Erri cominciano a perseguitarlo. Per difesa Erri decise di nascondere un riccio sotto la sabbia perché infilzasse uno dei tre ragazzi, cosa che puntualmente avviene. Dopo quell’episodio i tre ragazzi diventano sempre più agguerriti fino a massacrare Erri in spiaggia, costringendolo ad essere ricoverato in ospedale… “A dieci anni l’età si scrive per la prima volta con due cifre. È un salto in alto, in lungo e in largo, ma il corpo resta scarso di statura mentre la testa si precipita avanti. D’estate si concentra una fretta di crescere.Un uomo, cinquant’anni dopo, torna coi pensieri su una spiaggia dove gli accadde il necessario e pure l’abbondante. Le sue mani di allora, capaci di nuoto e non di difesa, imparano lo stupore del verbo mantenere, che è tenere per mano.”
Edito da Feltrinelli Editore nel 2012 • Pagine: 124 • Compra su Amazon
A dieci anni l'età si scrive per la prima volta con due cifre. È un salto in alto, in lungo e in largo, ma il corpo resta scarso di statura mentre la testa si precipita avanti. D'estate si concentra una fretta di crescere.Un uomo, cinquant'anni dopo, torna coi pensieri su una spiaggia dove gli accadde il necessario e pure l'abbondante. Le sue mani di allora, capaci di nuoto e non di difesa, imparano... → CONTINUA SU AMAZON
In ebook I pesci non chiudono gli occhi (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 4,99 euro.
Io sono la tua polvere.”
ITZIK MANGER
“Te lo dico una volta e già è troppo: sciacqua le mani a mare prima che metti il morso all’esca. Il pesce sente odore, scansa il boccone che viene da terra. E fai tale e quale a come vedi fare, senza aspettare uno che te lo dice. Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua.”
Scrivo in italiano le sue frasi e tutte insieme. Quando le diceva erano scogli staccati e molte onde in mezzo. Le scrivo in italiano, senza la sua voce a dirle nel dialetto sono spente.
Iniziava spesso con la “e”. A scuola insegnano che non si comincia un periodo con una congiunzione. Per lui la frase era la continuazione di un’altra detta un’ora, un giorno prima. Parlava poco, a spazi larghi di silenzio mentre sbrigava le faccende di una barca a pesca. Per lui si trattava di un solo discorso, che ogni tanto si staccava di bocca con la “e”, lettera che a scriverla disegna un nodo. Ho imparato dalla sua voce a iniziare frasi con la congiunzione.
Ci vedeva qualcosa di buono in me, bambino di città che d’estate veniva sopra l’isola. Scendevo alla spiaggia dei pescatori, stavo i pomeriggi a guardare le mosse delle barche. Con il permesso di mamma potevo andare su una di quelle, lunghe, coi remi grossi come alberi giovani. A bordo facevo quasi niente, il pescatore si faceva aiutare in qualche mossa e mi aveva insegnato a muovere i remi, grandi il doppio di me, stando in piedi e spingendo il mio peso su di loro a braccia tese e in croce. Pianissimo la barca si spostava e poi andava. Quel risultato mi faceva grande. Al pescatore serviva in qualche momento la mia piccola forza ai remi. Non mi faceva accostare agli ami, alle lunghe lenze col piombo di profondità. Erano attrezzi di lavoro e stavano male in mano ai bambini. In terraferma, a Napoli, invece stavano eccome i ferri e le ore di lavoro sui bambini.
Mi faceva gettare l’ancora. Avevo raggiunto i dieci anni, un groviglio d’infanzia ammutolita. Dieci anni era traguardo solenne, per la prima volta si scriveva l’età con doppia cifra. L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato delle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori. Tenevo dieci anni. Per dire l’età, il verbo tenere è più preciso. Stavo in un corpo imbozzolato e solo la testa cercava di forzarlo.
Finite le scuole elementari con un anno di anticipo, in quell’estate ero già uscito dalla prima media. Era ammessa finalmente la penna a sfera, tolto il grembiule nero, niente più calamaio, pennino e carta assorbente, detta carta zuca in dialetto, carta succhia.
Ero cambiato in testa e mi sembrava in peggio. Nell’età in cui i bambini hanno smesso di piangere, invece cominciavo. L’infanzia era stata una guerra, intorno i bambini morivano più dei vecchi. Niente del loro tempo era un giocattolo, anche se lo giocavano accaniti. A me era risparmiato, però dovevo meritarmi il tempo.
Me ne stavo rinchiuso nell’infanzia, per balia asciutta avevo la stanzetta dove dormivo sotto i castelli di libri di mio padre. Salivano da terra sul soffitto, erano torri, cavalli e fanti di una scacchiera messa in verticale. Di notte entravano nei sogni le polveri di carta. Nell’infanzia ai piedi dei libri, gli occhi non conoscevano le lacrime. Facevo il soldatino, il giorno era turno di su e giù nel poco spazio della sentinella.
All’arrivo dei dieci anni il cambiamento, la bastionata dei libri non bastò più a isolare. Dalla città arrivarono tutt’insieme le grida, le miserie, le ferocie all’assalto delle orecchie. C’erano anche prima, però tenute a bada. A dieci fu collegato il nervo tra il dolore di fuori e le mie fibre. Piangevo e mi vergognavo peggio che pisciare a letto. Una canzone, i trilli di un canarino accecato per cavare di gola più limpida la nota del richiamo, una prepotenza nel vicolo: salivano i fremiti di lacrime e di collera, spingevano fino al vomito. Un vecchio si soffiava il naso, si stringeva i panni addosso sbirciando in alto in cerca di spiraglio, un cane con la coda tra le zampe inseguito dal sasso di un bambino: una dissenteria degli occhi mi faceva scappare in gabinetto.
Pure il grido strozzato del venditore d’aglio mi scuoteva il petto. Gli usciva a stento sotto le altre voci. Ma come, non faceva ridere il richiamo che invitava a consumarlo: “Accussì nun facite ’e vierm’”, così non fate i vermi? No, nella sua voce diventava un espediente disperato. Piangevo con l’asciugamano sulla bocca. Rimedio per smettere era guardarmi allo specchio: la mia faccia scomposta dalla smorfia mi disgustava al punto di fermarmi. Se capitava a scuola, dovevo fingere un dolore allo stomaco e chiedere di andare al gabinetto. Lì ci potevo stare…
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Erri De Luca.
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