Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Phobia di Wulf Dorn. Il volume è pubblicato in Italia da Corbaccio con un prezzo di copertina di 16,60 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Phobia: trama del libro
Londra, una notte di dicembre nel quartiere di Forest Hill. L’automobile del marito nel vialetto di casa. La chiave nella toppa. I passi che risuonano in corridoio. Rumori familiari per Sarah Bridgewater. Ma l’uomo che trova in cucina non è Stephen. Eppure indossa gli abiti di Stephen, ha la sua valigia, ed è arrivato fin lì con l’auto di Stephen. Sostiene di essere Stephen, e conosce delle cose che solo il marito di Sarah può conoscere. Per Sarah e per Harvey, il figlio di sei anni, incomincia un incubo atroce, anche perché lo sconosciuto scompare così come era apparso e nessuno crede alla sua esistenza, né la polizia è preoccupata del fatto che il marito risulti svanito nel nulla. Sarah sa che può contare solo su una persona: l’amico psichiatra Mark Behrend. Con il misterioso sconosciuto ha così inizio un duello psicologico, in cui ogni punto vinto o perso può significare riuscire a sopravvivere o venire brutalmente uccisi.
In ebook Phobia (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro.
Se non fosse stato per il ronzio smorzato del traffico sulla Coldharbour Lane per Brixton, avrebbe creduto di essere murato vivo nell’isolato.
Una tomba desolata.
Si asciugò le lacrime. Finalmente tutto quell’annaspare e ansimare era finito. Non era durato a lungo, uno, forse due minuti, ma gli erano sembrati comunque un’eternità. Quei movimenti febbrili e dettati dal panico nella stanza accanto, la lotta disperata per respirare.
Ma anche se ormai era tornata la calma, non provava alcun sollievo. Tese l’orecchio per sincerarsi che fosse davvero finito.
Poi annuì. Sì, non si sentiva più annaspare, e nemmeno ansimare, ma d’ora in avanti quei suoni lo avrebbero perseguitato nella sua testa… ancora a lungo, ne era certo. Gli avrebbero fatto visita in sogno, come tutti i demoni del suo passato.
Come la luce di quel mattino d’inizio estate riflessa sulle vetrine. E il sorriso di Amy. Gesù, com’era felice quel giorno! E poi l’espressione d’orrore dell’uomo, che…
Smettila! si disse, perentorio. Smettila subito! Capito?
Serrò i pugni. Voleva fuggire, ma ormai era troppo tardi. Perciò lottò contro il sentimento che gli opprimeva il petto e che gli mozzava il respiro, e inspirò profondamente.
Si allontanò dalla finestra, si avvicinò al tavolo accanto al lavandino nell’angolo della stanza che fungeva provvisoriamente da cucina e accese le due piastre elettriche.
Mentre riempiva la pentola d’acqua, evitò di guardarsi nello specchio sopra il lavandino. Non avrebbe retto al proprio sguardo. Men che meno quel giorno.
Com’era prevedibile, nella mensola c’erano solo tè da quattro soldi comprati al discount. Per fortuna, si era ricordato di portarsi una bustina di ottimo Earl Grey, aromatizzato al bergamotto, il suo preferito.
Mise la bustina nella tazza e aprì il frigo in cerca del latte. Ce n’era una bottiglia già aperta, sapeva d’acido. Perciò si infilò di nuovo la mano nella tasca della giacca e prese la scatoletta di latte in polvere che si era portato. Quindi guardò la porta aperta della stanza da letto.
Era il momento di andare da Jay, prima che l’acqua bollisse. Non poteva trattenersi ancora a lungo, non rientrava nelle sue abitudini, ma la tazza di tè era importante, molto importante.
Nonostante le resistenze interiori, si avvicinò alla porta. La stanza da letto era ancora più piccola della cucina. Anche qui, i pochi arredi sembravano presi direttamente dalla discarica o da un mercatino delle pulci. Magari a Camden Lock o a Portobello Road. Il vecchio regno di Jay. Aveva un debole per i mercatini delle pulci.
Il buon, vecchio Jay. Che gli aveva fatto?
La stanza era quasi interamente occupata da un letto matrimoniale all’antica e da un armadio a vista. Ancor prima di entrare, intravide le gambe sottili del morto.
Jay era appoggiato al telaio del letto, piegato in modo innaturale. Era scivolato giù dal materasso e sembrava che si fosse addormentato da seduto. Per fortuna aveva gli occhi chiusi, e il suo viso scarno, disseminato di peli ispidi e canuti, aveva un’espressione pacifica. Solo le mani contratte, il viso bluastro e la bava bianca che gli gocciolava dall’angolo della bocca smentivano l’impressione iniziale.
«Te l’avevo detto di sdraiarti» mormorò, togliendogli gli auricolari.
Afferrò il grosso telecomando del vecchissimo televisore Sanyo fissato alla parete ai piedi del letto. Dovette pigiare più d’una volta il tasto ormai consumato prima che il tubo catodico si spegnesse con un leggero sibilo, così come dovette fare svariati tentativi prima che il lettore dvd, altrettanto datato risputasse fuori il film che aveva portato a Jay.
Aveva selezionato per lui parecchie immagini idilliache di prati estivi, paesaggi montani, boschi e fiumi, accompagnate dal sottofondo musicale del Mattino di Edvard Grieg e della Primavera di Vivaldi. E poiché sapeva che ormai da tempo gli altoparlanti della tv non funzionavano molto bene, aveva dato a Jay i propri auricolari.
Jay amava la musica classica e lui aveva voluto che percorresse la via per l’aldilà con qualcosa di bello.
Anche se le immagini sul vecchio monitor viravano leggermente al violetto, Jay aveva apprezzato il filmato. Perlomeno, all’inizio aveva sorriso.
Poi però era andato tutto storto. A quanto pare la dose iniettata era scarsa. Doveva essersi sbagliato, del resto era la sua prima volta.
Invece di addormentarsi tranquillo, poco dopo Jay venne scosso da forti convulsioni. Di colpo il sorriso era sparito e aveva preso a tremare. Con occhi sgranati si era afferrato la gola, cercando disperatamente di respirare.
«Stenditi» gli aveva gridato. «Stenditi un attimo!»
Ma Jay non poteva sentirlo per via degli auricolari. Aveva cercato di strapparseli, ma non ce l’aveva fatta, era troppo impegnato a respirare. Aggrappato al collo della camicia di flanella, aveva iniziato ad agitare scompostamente le gambe. Aveva scagliato in aria le pantofole logore, e con le calze di lana aveva grattato il tappeto di velluto, come se volesse scavare un buco nel pavimento.
A quella vista lui era indietreggiato: dapprima era rimasto a osservarlo perplesso, poi la scena era diventata insostenibile. Non sopportava quel suo annaspare. Quell’ansimare che sembrava quasi un piagnucolio. L’espressione negli occhi di Jay, il panico, la paura…
Quanta paura abbiamo di lasciarci andare.
Si era coperto gli occhi con le mani ed era scappato via.
Aveva atteso in cucina, lo sguardo fisso sul muro fuori dalla finestra, e aveva pianto il suo unico amico, che stava morendo tra atroci dolori.
Ormai però era finito, il primo passo era compiuto.
Infilò il dvd e gli auricolari in un sacchetto di plastica, lo avrebbe buttato in un cassonetto qualche strada più in là. Si infilò nella tasca interna della giacca il kit per le iniezioni. Ne avrebbe avuto bisogno almeno un’altra volta.
Si chinò e rimise Jay sul letto. Anche se il corpo molle del vecchio pesava sessanta chili, sembrava un macigno.
«Mi spiace, amico» bisbigliò. «Non doveva andare così. Ormai però è fatta. Te la sei cercata.»
Con un sospiro andò nell’altra stanza, dove nel frattempo l’acqua bolliva. Riempì la tazza, gettò l’acqua avanzata nel lavandino e, prima di prendere la pentola con uno strofinaccio e di riporla nel ripiano sotto il tavolo, cancellò con cura le proprie impronte.
Poi tornò a guardare il muro oltre la finestra, sorseggiando il tè. Anche se aveva dovuto rinunciare al latte vero, gli sembrò di non aver mai bevuto un tè così buono.
Forse perché è l’ultimo, pensò.
In futuro non avrebbe più amato il tè. Avrebbe iniziato subito a bere caffè… preferibilmente una miscela arabica colombiana, nero e con poco zucchero. E questo era solo uno dei tanti particolari della sua metamorfosi.
Finito di bere, lavò la tazza, l’asciugò bene con il canovaccio di Jay e la ripose accanto alla pentola.
Il primo passo è fatto, si disse. Ormai era arrivato il momento di compiere il successivo.
Chiuse gli occhi per un attimo e si preparò a ciò che sarebbe successo. Ribadì a se stesso che il suo piano era giusto.
Non avrebbe fatto nulla di male, anzi. Quel che aveva in mente avrebbe cambiato il mondo. Non proprio nel complesso, ma un microcosmo. Ma non si dice, forse, che per fare grandi cose bisogna partire da quelle piccole?
Arrotolò il canovaccio e se lo infilò tra i denti. Poi si concentrò sul sapore umidiccio e stantio del tessuto.
Il cuore gli batteva all’impazzata, qualcosa dentro di lui sembrava volesse opporsi. Aveva paura, ma anche questo era un bene. Sarebbe stata la paura a dargli la spinta. Lo avrebbe motivato a non rinunciare, a completare la metamorfosi. Se voleva raggiungere l’obiettivo, doveva rinunciare a se stesso, a prescindere da quanto la cosa lo spaventasse.
Con questa consapevolezza strinse forte il canovaccio tra i denti e schiacciò i polpastrelli delle dita sulle piastre roventi.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore tedesco rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Wulf Dorn.
Qui potete trovare tutti i libri di Wulf Dorn in ordine di pubblicazione.
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