Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La piramide di fango di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99 ed è il ventiduesimo tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
La piramide di fango: trama del libro
“Si sono aperte le cateratte del cielo. I tuoni erompono con fragore. Nel generale ottenebramento, e sotto la pioggia implacabile, tutto si impantana e smotta. Il fango monta e dilaga: è una coltre di spento grigiore sulle lesioni e sulle frane. La brutalità della natura si vendica della politica dei governi corrotti, che non si curano del rispetto geologico; e assicurano appalti e franchigie alle società di comodo e alle mafie degli speculatori. A Vigàta dominano le sfumature opache e le tonalità brune delle ombre che si allungano sull’accavallato disordine dei paesaggi desolati; sui lunari cimiteri di scabre rocce, di cretti smorti, e di relitti metallici che sembrano ossificati. Questa sgangherata sintassi di crepature e derive ha oscuri presagi. E si configura come il rovescio tragico dell’allegra selvatichezza vernacolare di Catarella, che inventa richiami fonici ed equivalenze tra ‘fango’ e ‘sangue’; e con le confuse lettere del suo alfabeto costruisce topografie che inducono all’errore. Del resto, macchiate di sangue sono le ferite fangose del paesaggio; e l’errore è consustanziale al labirinto illusionistico dentro il quale i clan mafiosi vorrebbero sospingere il commissario Montalbano per fuorviarlo, e convincerlo che il delitto sul quale sta indagando è d’onore e non di mafia. La vicenda ha tratti sfuggenti, persino elusivi…” (Salvatore Silvano Nigro)
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Era chiossà di ’na simanata che chioviva a retini stise, senza un minuto di ’nterruzioni. Si erano raprute le cataratti e parivano ’ntinzionate a non chiuirisi cchiù.
Non sulamenti chioviva a Vigàta, ma supra a tutta l’Italia. Al nord c’erano stati straripamenti e allagamenti che avivano fatto danni ’ncalcolabili e da ’na poco di paìsi l’abitanti erano stati fatti sfollari. Ma macari nel sud non si sgherzava, sciumare che parivano morte da secoli erano tornate ’n vita armate da ’na speci di gana di rivincita e si erano scatinate distruggenno case e tirreni coltivati.
La sira avanti, ’n tilevisioni, il commissario aviva sintuto a ’no scinziato diri che tutta l’Italia era a rischio di un gigantisco disastro geologico pirchì non c’era mai stato un governo che si fusse seriamenti occupato del mantenimento del territorio.
’Nzumma, era come se il propietario di ’na casa non si fusse mai dato il pinsero di fari arriparari il tetto romputo o le fondamenta lesionate. E po’ s’ammaravigliava e si lamintiava se un jorno la casa finiva per crollarigli ’n testa.
«Forsi è la giusta fini che nni meritamo» aviva commintato amaro Montalbano.
Addrumò la luci, taliò il ralogio. Le sei e cinco. Troppo presto per susirisi.
Si nni ristò a occhi ’nsirrati, ascutanno lo scruscio del mari. Che, carmo o arraggiato che fusse, gli dava sempri piaciri. Tutto ’nzemmula accapì che non chioviva cchiù. Scinnì dal letto, annò a rapriri la persiana.
Quel trono era stato come la bumma che veni sparata alla fini di un joco di foco, propio a significarinni la conclusioni. ’Nfatti non cadiva cchiù acqua di celo e le nuvole che avanzavano da livanti erano liggere e bianchizze e a brevi avrebbiro sostituito quelle nìvure e pisanti. Tornò a corcarisi, tranquillato.
Non sarebbi stata ’na jornata tinta, di quelle che lo mittivano d’umori malo. S’arricordò d’essirisi arrisbigliato mentri che stava facenno un sogno.
Caminava dintra a ’na gallaria nello scuro fitto e il lumi a pitroglio che tiniva nella mano dritta faciva picca luci. Sapiva che a un passo darrè a lui arrancava ’n omo che accanosciva ma del quali non sapiva il nomi. A un certo punto l’omo aviva ditto:
«Non ce la fazzo a reggiri il tò passo, staio pirdenno troppo sangue dalla firuta».
E lui aviva arrispunnuto:
«Cchiù lenti d’accussì non è cosa, la gallaria può crollari da un momento all’autro».
Doppo tanticchia, che il sciato dell’omo appresso si faciva sempri cchiù pisanti e affannuso, aviva sintuto un lamintio e la rumorata di un corpo che cadiva ’n terra. Si era votato, era tornato narrè. L’omo era stinnicchiato affacciabocconi, da ’n mezzo alle scapole spuntava il manico di un grosso cuteddro da cucina. Si era subito fatto pirsuaso che il povirazzo era morto. E in quel priciso momento una potenti vintata aviva astutato il lumi e subito appresso la gallaria era crollata con un rombo da tirrimoto.
Il sogno era un papocchio arrisultanti da un eccesso di purpiteddri a strascinasali e da ’na notizia sintuta ’n tilevisioni che parlava di un cintinaro di morti dintra a ’na minera ’n Cina.
Ma l’omo col coltello ’n mezzo alle scapole da indove proveniva?
Si sforzò d’arricordari, po’ addecidì che la cosa non aviva nisciuna ’mportanza.
Adascio adascio, si lassò risprofunnari nel sonno.
Po’ squillò il tilefono. Taliò il ralogio, aviva dormuto appena ’na decina di minuti.
Malo signo, se lo chiamavano a quell’ora del matino.
Si susì, annò ad arrispunniri.
«Pronto?».
«Birtì?».
«Non sono…».
«Tutto s’allagò, Birtì!».
«Guardi che…».
«Birtì, nella dispenza, unni c’erano cento formi di cacio frisco, ci stanno dù metri d’acqua!».
«Senta…».
«E non ti dico il magazzino, Birtì».
«Cazzo! Mi vuole stare a sentire?» ululò il commissario che parse un lupo.
«Ma non è…».
«No, non sono Birtino! È da mezz’ora che tento di dirglielo. Ha sbagliato numero!».
«E allura se non è Birtino con chi staio parlanno?».
«Con suo fratello gemello!».
Sbattì la cornetta, tornò a corcarisi santianno. E un attimo appresso il tilefono risquillò. Satò dal letto ruggenno come un lione, agguantò la cornetta e facenno ’na vociata da pazzo dissi:
«Vaffanculo tu, Birtino e le cento formi di cacio frisco!».
Riattaccò e staccò la spina. Ma gli era venuta ’na tali botta di nirbùso che per farisilla passari l’unica era ’na bella doccia.
Ci si stava addiriggenno quanno sintì ’na musichetta stramma viniri da qualichi parti della càmmara di letto.
E che era? Po’ accapì che era la soniria del sò cellulari che viniva usato raramenti. Arrispunnì.
Era Fazio.
«Che c’è?» spiò sgarbato.
«Mi scusi, dottore, ho provato a chiamarla sul fisso, ma mi ha risposto uno che… devo avere sbagliato numero».
Era Fazio quello che aveva mannato affa.
«Hai sbagliato di sicuro perché io avevo staccato la spina».
Dissi la farfantaria con voci autoritaria e sicura.
«Infatti. Ecco perché la sto disturbando sul cellulare. C’è un morto ammazzato».
E come ti sbagli?
«Indove?».
«’N contrada Pizzutello».
Mai sintuta muntuari.
«Unn’è?».
«Troppo complicato, dottore. Le ho appena mannato la machina con Gallo. Io ci staio arrivanno. Ah, si mittissi li stivali, pari che quel posto è ’na speci di pantano».
«Vabbene. A tra poco».
Astutò il cellulari, riattaccò la spina del telefono di casa, ebbe il tempo d’arrivare in bagno che lo sintì squillare. Se circavano ancora Birtino, si sarebbi fatto dari l’indirizzo e sarebbi annato a spararili a tutti. Macari ai caci frischi.
«Dottori, che fici, l’arrisbigliai?» spiò ansioso Catarella.
«No, sugno vigliante da un pezzo. Dimmi».
«Dottori, ci voliva fari l’avviso che la machina di servizio di Gallo non vosi partiri e che non ci stanno autre machine in tutto il pacco machine in disponibilità di disposizioni in quanto che sono indisponibili essenno inamovibili».
«Che significa?».
«Che puro esse sunno scas sate».
«E allura?».
«E allura Fazio mi ha dato l’ordinazioni che vegno io a pigliarla con la mè machina».
Ahi. Catarella non era propiamenti un asso del volanti. Ma non aviva da scegliri.
«Ma tu lo sai indove sta il morto?».
«Certissimo, dottori. E po’ per sicurizza mi porto macari il naviquatore parlante».
Era pronto per nesciri e si stava vivenno la terza cicaronata di cafè quanno sintì ’na gran botta ’mprovisa e violenta che viniva dalla porta di trasuta. Il suprassàvuto gli fici arrovisciari il cafè tanticchia supra al giubbotto e tanticchia supra agli stivali di gumma. Santianno, corrì a vidiri che era capitato.
Raprì e per picca non annò a sbattiri contro il musso dell’atomobili di Catarella.
«Volivi sfonnarimi la porta e trasirimi ’n casa con la machina?».
«Addimanno compressione e pirdonanza, dottori, ma essa sciddricò a scascione del fangue che attrovasi insupra la strata. Non fu corpanza mia ma della situazioni miterioallogica».
«Ingrana la marcia narrè e spostati tanticchia, masannò non pozzo nesciri fora».
Catarella eseguì, il motori s’arraggiò, e la machina non si spostò di un millimetro.
«Dottori, il fatto è che la strata veni di scinnuta e supra al fangue le rote non pigliano presa».
Va a sapiri pirchì, macari se non era per nenti il momento bono, gli vinni gana di corriggirlo.
«Catarè, ’n taliàno si dici fango e non fangue».
«Come voli vossia, dottori».
«E allura che facemo?».
«Dottori, se vossia nesci dalla verantina e io traso dalla medesima, nni scangiamo di posto».
«E che risultato otteniamo?».
«Che vossia guida e io ammutto».
L’argomento lo convincì. Si scangiaro di posto. E doppo deci minuti di prova e riprova, le roti ficiro presa. Catarella si ’ncarricò di annare a pedi a chiuiri la casa, quanno tornò si scangiaro di posto ’n’autra vota e finalmenti partero.
Doppo tanticchia, Catarella parlò:
«Dottori, me la spiega ’na cosa?».
«Dimmi».
«Pirchì ’n taliàno ’u sangu addiventa sangue e ’u fangu inveci arresta fango?».
«Catarè, pirchì il fango, essenno fango, è sempri fango in tutte le lingue del munno».
Il naviquatore parlante era da ’na mezzorata che parlava e Catarella era da ’na mezzorata che bidiva ossequioso, dicenno sissignori, ad ogni ’ndicazioni arricivuta, quanno Montalbano fici ’na dimanna:
«Ma non abbiamo passato ora ora l’ex casello di Montelusa Bassa?».
«Sissi, dottori».
«E ’sta contrada indov’è?».
«Ancora cchiù avanti dottori».
«Ma se già ccà semo ’n territorio montelusano, figurati se caminamo ancora ’n autro pezzo!».
«Certamenti, dottori, ccà tutto montelusano è».
«E che ce ne fotte a noi di un morto ’n territorio montelusano? Accosta e fermati. Po’ chiamami a Fazio al cellulari e passamillo».
Catarella eseguì.
«Fazio, me lo spieghi perché dobbiamo occuparici di un caso che non è di nostra pertinenza?».
«Chi lo disse?».
«Chi lo disse cosa?».
«Che non è di nostra competenza».
«Te lo dico io! Se il cadavere è stato ritrovato in territorio montelusano, a lumi di logica…».
«Ma contrada Pizzutello è nel nostro territorio, dottore! È proprio al confine con Sicudiana».
Gesù! E loro dù s’attrovavano esattamenti dalla parti opposta. Po’, nella testa di Montalbano, si fici luci.
«Aspetta un momento».
Taliò fisso a Catarella che ricambiò la taliata facennosi tanticchia guardigno.
«Mi dici ’n quali contrata mi stavi portanno?».
«In contrata Rizzutello, dottori».
«Catarè, la sai la diffirenza tra ’na pi e ’na erre?».
«Certamenti, dottori».
«Dicimilla come se fussero scritte a stampatello».
«A stampinello? Aspittasse che ci penso. Donqui. La erre avi la panza e ’na gammuzza, mentri che la pi avi sulo la panza».
«Bravo. Ma hai fatto confusione. Mi stai portanno in un posto con la gammuzza ’nveci di portarimi in un posto con la sula panza».
«Allura errori fici?».
«Errori facisti».
Catarella addivintò prima russo come un gallinaccio e subito appresso giarno come un catafero.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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