Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Pista nera di Antonio Manzini. Il romanzo è pubblicato in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Pista nera: trama del libro
Un vicequestore nato e cresciuto a Trastevere, che odia lo sci, le montagne, la neve e il freddo viene trasferito ad Aosta. Rocco Schiavone ha combinato qualcosa di grosso per meritare un esilio come questo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. È violento, sarcastico nel senso più romanesco di esserlo, saccente, infedele, maleducato con le donne, cinico con tutto e chiunque, e odia il suo lavoro. Però ha talento. Il ritrovamento del corpo di Leone Miccichè su una pista da sci nei pressi di Champoluc, dopo che un gatto delle nevi lo ha travolto, fa capire subito a Schiavone che non si tratta di un incidente, ma di un omicidio. Infatti nell’esofago del cadavere viene trovato un fazzoletto rosso sporco di sangue. Per il vicequestore cominciano le indagini in quel paesino di montagna, dove tutti si conoscono e dove tutti sono imparentati. Ad aiutarlo nelle indagini c’è l’ispettore Italo Pierron, che in quelle montagne c’è nato.
Approfondimenti sul libro
In ebook Pista nera (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro.
Gli impianti di risalita erano fermi e gli chalet in quota avevano spento le luci. Si sentiva solo il brontolio dei motori dei gatti che andavano su e giù per risistemare il fondo delle piste da sci scavate tra boschi e rocce sulle costole delle montagne.
L’indomani sarebbe cominciato il week-end e la stazione sciistica di Champoluc si sarebbe riempita di turisti pronti a mordere la neve con le lamine. Andava fatto un lavoro certosino.
Ad Amedeo Gunelli era toccata la pista più lunga. La Ostafa. Un chilometro di lunghezza per una sessantina di metri di larghezza. La pista principale di Champoluc, quella che serviva ai maestri di sci con gli allievi alle prime armi come agli sciatori esperti per provare la superconduzione. Era quella che richiedeva più lavoro, che perdeva il manto nevoso già all’ora di pranzo. Infatti era scoperta in più punti. Sassi e terra, soprattutto al centro, la deturpavano.
Amedeo aveva cominciato dall’alto. Faceva questo lavoro da soli tre mesi. Non era difficile. Bastava ricordarsi i comandi del bestione cingolato e la calma. Quella era la cosa più importante. Calma e nessuna fretta.
Aveva infilato le cuffiette dell’iPod con i successi di Ligabue e s’era acceso la canna che gli aveva regalato Luigi Bionaz, il capo dei gattisti, il suo amico più caro. Era grazie a lui se Amedeo aveva un lavoro e portava mille euro al mese a casa. Sul sedile accanto aveva appoggiato la borraccetta con la grappa e il walkie-talkie. Tutto era pronto per le ore di fatica.
Amedeo recuperava la neve dai bordi, la spalmava sui punti più scoperti, la trinciava con la fresa mentre i pettini la appiattivano rendendo la pista una tavola da biliardo. Era bravo Amedeo, solo che stare lì da solo non gli piaceva. Spesso si pensa che la gente di montagna ami la vita solitaria e un po’ forastica. Niente di più falso. O almeno, niente di più falso per Amedeo. A lui piacevano le luci, il casino, la gente e chiacchierare fino all’alba.
«Una vita da medianoooo» cantava a squarciagola per tenersi compagnia. La sua voce rimbombava sui finestrini di plexiglas mentre concentrava lo sguardo sulla neve che sotto i raggi lunari stava diventando sempre più azzurra. Se avesse alzato gli occhi avrebbe visto uno spettacolo da togliere il fiato. Il cielo in alto era blu scuro, come le profondità marine. Intorno alle creste dei monti invece, era arancione. Gli ultimi raggi sbiechi del sole coloravano i ghiacciai eterni di viola e le pance delle nuvole di grigio metallico. Su tutto dominavano imponenti i fianchi scuri delle Alpi. Amedeo si fece un goccio di grappa e buttò l’occhio a valle. Un presepe di strade, casette e lucine. Uno spettacolo da sogno per chi non ci fosse nato in mezzo a quelle valli. Per lui un diorama squallido e desolante.
«Certe notti la radio che passa Nil Jàng sembra avere capito chi seiiiii…».
Aveva finito il muro iniziale. Girò il gatto per scendere verso il secondo troncone e si trovò davanti a un tratto di pista nera. Faceva paura. Una distesa di ghiaccio e neve che non se ne vedeva la fine.
Solo chi lavorava da anni e manovrava il gatto come un triciclo si avventurava ad attraversare quella serpentina a precipizio che immetteva sulla diramazione. E quel punto lì comunque non si batteva. Lo si lasciava così. Troppo stretto. A mettere male i cingoli rischiavi di capovolgerti, e quel bestione ti sarebbe ricaduto addosso con tutte le sue tonnellate. Ci pensavano gli sciatori passando e ripassando a sistemare la neve. Una volta sola al mese ci si andava con le pale, quando la situazione era drammatica e i massi ghiacciati che si formavano andavano assolutamente appiattiti. Altrimenti su quei blocchi e sulle lastre, crociati e menischi saltavano che era una bellezza.
Il walkie-talkie appoggiato sul sedile occhieggiava. Qualcuno lo stava chiamando. Amedeo si tolse gli auricolari e afferrò la radio. «Sono Amedeo».
L’aggeggio scrocchiò, poi dalle scariche spuntò la voce del capo, Luigi: «Amedeo, dove sei?».
«Sono proprio davanti al muro in alto».
«Basta così. Scendi a valle e fatti il pezzo sotto, al paese. Lassù ci penso io».
«Grazie Luigi».
«Ascolta» aggiunse Luigi «ricordati che per andare giù al paese devi fare la scorciatoia».
«La stradina dici?».
«Sì, quella che parte dal Crest, così non passi sulla pista che sta facendo Berardo. Passa sulla scorciatoia, capito?».
«Ricevuto. Grazie!».
«Macché grazie! Mi devi un bianco prima di cena!».
Amedeo sorrise: «Promesso!».
Si rimise l’auricolare, ingranò la marcia più bassa e lasciò il pendio.
«Balliamo un fandango… ohhhh» riprese a cantare.
Nel cielo le nuvole s’erano addensate all’improvviso e avevano coperto la luna. Sempre così, in montagna basta un attimo e il tempo cambia alla velocità del vento d’altura. Amedeo lo sapeva. Le previsioni per il fine settimana erano pessime.
I fari potenti del gatto illuminavano la pista e la massa di tronchi di abeti e larici sul bordo. Fra le braccia scure degli alberi si intravedevano ancora le luci di Champoluc.
«Balliamo sul mondoooo ohh».
Doveva passare davanti alla scuola di sci e ai garage dei gatti per poi scendere verso il paese e ricominciare a battere la pista dal fondo.
Buttò il filtro bruciacchiato della canna dal finestrino. In quel momento i fari di un altro gatto lo abbagliarono. Si mise la mano davanti agli occhi. Il mezzo che risaliva in senso contrario si avvicinò. Era Berardo, un suo collega.
«Oè, ma sei scemo? Mi hai accecato!».
«Eh eh…» ridacchiava l’idiota.
«Senti, su ci pensa Luigi. Io vado giù a farmi la fine della pista, al paese».
«Ricevuto» rispose Berardo che aveva già il naso rosso, «stasera ci prendiamo un bianchetto da Mario e Michael?».
«Lo devo offrire a Luigi, mi tocca comunque. Vado giù all’arrivo!» urlò Amedeo.
«Fai la stradina del Crest che la pista su l’ho già fatta!».
«Tranquillo, passo per la scorciatoia! A dopo!».
Berardo proseguì per la sua strada. Amedeo invece come da ordini ricevuti svoltò per il Crest. Che era un piccolo agglomerato di baite sopra le piste. Quasi tutte disabitate a parte un rifugio e un paio di villette di genovesi che amavano lo sci più della loro città. Da lì attraverso i boschi sarebbe rispuntato sulla scorciatoia che lo avrebbe riportato 800 metri più in basso. Avrebbe dato una pettinata all’arrivo della pista giù al paese e poi finalmente il bianchetto e le chiacchiere e due risate con gli inglesi già ubriachi. Attraversò le poche luci del villaggio. Se lo lasciò alle spalle. La stradina che serviva per il passaggio dei gatti era chiara e leggibile.
«Ti brucerai, piccola stella senza cielo…».
Cominciò a scendere lento su quella carraia che solo d’estate veniva usata dai 4×4 per arrivare al villaggio del Crest. I fari montati sul tetto illuminavano la scorciatoia a giorno. La possibilità di uscire fuori era prossima allo zero.
«Ti brucerai…».
Nessun problema. I cingoli tenevano alla perfezione. Solo la cabina si era inclinata come una giostra del Luna Park. Ma era pure divertente.
«Ti bruceraiiii».
Poi la fresa batté su qualcosa di duro e il gatto sobbalzò sui cingoli. Amedeo si girò per vedere cosa avesse colpito il mezzo. Una roccia o terra. Dal lunotto posteriore le luci illuminavano la neve smossa del sentiero.
Qualcosa però non andava, se ne accorse subito, proprio al centro della stradina.
Una chiazza sporca lunga almeno un paio di metri.
Frenò.
Si tolse l’iPod, spense il motore e scese a controllare.
Silenzio.
Gli scarponi affondavano nella neve. Al centro della stradina c’era una macchia.
«Cristo, cos’è?».
Si incamminò. Man mano che si avvicinava la chiazza in mezzo alla scorciatoia cambiava colore. Prima nera, ora violacea. Il vento fischiava appena tra gli aghi degli abeti e spargeva piume tutt’intorno.
Bianche, piccole e leggere.
Una gallina? Ho preso una gallina!? pensò Amedeo.
Continuava ad avanzare nella neve alta sprofondando di una decina di centimetri ad ogni passo. Le piume sulla neve si alzavano in piccoli vortici. Ora la macchia era diventata marrone.
Che cazzo ho preso? Un animale?
Ma non l’aveva visto? Con quei sette fari alogeni? E poi col rumore sarebbe scappato.
Stava quasi per metterci gli scarponi sopra, quando finalmente la vide per quello che era: una chiazza di sangue rosso, amalgamato al manto candido della neve. Era enorme e a meno che non avesse investito un pollaio intero, per una sola bestia tutto quel sangue era esagerato.
Aggirò la macchia fino ad arrivare al punto dove il rosso era più intenso, quasi lucido. Si abbassò, guardò meglio.
E vide.
Scappò di corsa, ma non riuscì a raggiungere il bosco. Vomitò direttamente sulla scorciatoia del Crest.
Una telefonata sul cellulare a quell’ora di sera era una rottura di coglioni, sicuro come una raccomandata di Equitalia. Il vicequestore Rocco Schiavone, classe 1966, era sdraiato sul letto e si guardava l’unghia del pollicione del piede destro. S’era annerita. Colpa del cassetto dello schedario che D’Intino gli aveva fatto cadere sbadatamente sull’alluce mentre cercava istericamente la richiesta di rilascio di un passaporto. Il dottor Schiavone odiava l’agente D’Intino. E quel pomeriggio, dopo l’ennesima cazzata fatta dal poliziotto, aveva promesso a se stesso e all’intera cittadinanza di Aosta che avrebbe fatto di tutto pur di mandare quel deficiente in qualche commissariato dell’entroterra lucano.
Il vicequestore allungò il braccio e afferrò il Nokia che non smetteva di suonare. Guardò il display. Il numero era quello della questura.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore romano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Antonio Manzini.
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