Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La pista di sabbia di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99 ed è il dodicesimo tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
La pista di sabbia: trama del libro
“Raprì l’occhi, si susì, annò alla finestra, spalancò le persiane. E la prima cosa che vitti fu un cavaddro, stinnicchiato di fianco supra la rina, immobile. La vestia era tutta ‘nsanguliata, gli avivano spaccato la testa con qualichi spranga di ferro, ma tutto il corpo portava i segni di una vastoniatura longa e feroci…” Il commissario ha appena il tempo di convocare i suoi uomini e il cavallo è sparito, rimane solo il segno del corpo sulla sabbia. Quello stesso giorno una donna “forestiera”, Rachele Estermann, denunzia al commissariato di Vigata il furto del suo cavallo mentre nelle scuderie di Saverio Lo Duca, uno degli uomini più ricchi della Sicilia, un altro purosangue è svanito nel nulla. Lo scenario della vicenda è il mondo delle corse clandestine, passatempo preferito di una certa aristocrazia terriera che scommette forte. È in quest’ambiente dorato che Montalbano deve indagare, perché, dopo il cavallo, viene trovato cadavere anche un custode delle scuderie. Fra maggiordomi in livrea, baroni e contesse Montalbano sta un po’ a disagio, mentre “ignoti” entrano una, due, tre volte nella casa di Marinella: non rubano niente ma mettono tutto sottosopra, sembrano cercare qualcosa; ma cosa?
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Da tempo gli accapitava ’sta specie di rifiuto dell’arrisbiglio, che non era per prolungare qualichi sogno piacevole che oramà gli capitava di fari sempri cchiù raramenti, no, era pura e semprici gana di restare ancora tanticchia dintra al pozzo scuro, profunno e càvudo del sonno, ammucciato propio in funno in funno, indove sarebbi stato impossibile che qualichiduno l’attrovasse.
Ma sapiva d’essiri irrimediabilmente vigliante. Allura, sempre con l’occhi ’nserrati, si misi ad ascutari il rumore del mare.
Quella matina era una rumorata leggia leggia, squasi un fruscio di foglie, che s’arripitiva sempri uguali, signo che la risacca nel sò avanti e narrè mantiniva un respiro tranquillo. Epperciò la jornata doviva essiri bona, senza vento.
Raprì l’occhi, taliò il ralogio. Le sette. Fici per susirisi e in quel momento gli tornò a mente che aviva fatto un sogno del quale arricordava sulo come delle immagini confuse e staccate tra loro. Una magnifica scusa per ritardare tanticchia la susuta. Si stinnicchiò novamenti e richiuì l’occhi, tentando di mettiri in sequenza quei fotogrammi sparpagliati.
La pirsona che gli stava allato in una speci di grannissima spianata erbosa era ’na fìmmina, ora capiva che era Livia ma non era Livia, in quanto aviva la facci di Livia, ma il corpo era troppo grosso, sformato da un paro di natiche tanto enormi che la fìmmina faticava a caminare.
Del resto macari lui si sintiva stanco come doppo ’na longa passiata, per quanto non s’arricordava da quanto tempo erano ’n camino.
Allura le spiò:
«Ci vuole molto?».
«Ti sei già stancato? Nemmeno un bambino si stancherebbe così presto! Siamo quasi arrivati».
La voci non era quella di Livia, era sgraziata e troppo acuta.
Ficiro ancora un centinaro di passi e s’attrovaro davanti a un cancello di ferro battuto, aperto. Oltre il cancello continuava lo spiazzo erboso.
Che ci stava a fari quel cancello se a perdita d’occhio non si vidiva né una strata né ’na casa? Lo voliva spiare alla fìmmina, ma non lo fici per non risintiri la sò voci.
L’assurdità di passari attraverso a un cancello che non sirviva a nenti e non portava a nisciun posto gli parse talmente riddicola che fici un passo di lato per aggirarlo.
«No!» gridò la fìmmina. «Che fai? Non è permesso! I signori si possono irritare!».
La voci fu accussì acuta che a momenti gli spirtusava i timpani. Ma di quali signori parlava? Comunque obbedì.
Appena passato il cancello, il paesaggio cangiò, addivintanno un campo di corse, un ippodromo con la pista. Ma non c’era manco uno spettatore, le tribune erano vacanti.
Allura s’addunò che aviva gli stivali con gli speroni al posto delle scarpe e che era vistuto priciso ’ntifico come un fantino. Sutta il vrazzo aviva macari un frustino. Matre santa, che volivano da lui? Mai, in vita sò, era acchianato supra a un cavaddro! O forse sì, quanno aviva deci anni e sò zio l’aviva portato in una campagna indove…
«Montami» disse la voci sgraziata.
Si voltò a taliare la fìmmina.
Non era cchiù fìmmina, ma squasi un cavaddro. Si era mittuta a quattro zampe, ma gli zoccoli alle mano e ai pedi erano chiaramente finti, fatti d’osso, tant’è vero che li tiniva ’nfilati ai pedi come se erano pantofole.
Aviva sella e briglie.
«Montami, dai» arripitì.
Lui montò e quella partì al galoppo che parse un furgarone. Putupum, putupum putupum…
«Ferma! Ferma!».
Ma quella si misi a curriri cchiù forte. A un certo momento s’attrovò caduto ’n terra, col pedi mancino ’mpigliato nella staffa e la cavaddra che nitriva, no, arridiva arridiva arridiva… Po’ la cavaddra-fìmmina di colpo sgonocchiò supra le zampe anteriori con un nitrito e lui ’mprovisamente libero, sinni scappò.
Non arriniscì ad arricordarisi altro, manco sforzannosi. Raprì l’occhi, si susì, annò alla finestra, spalancò le persiane.
E la prima cosa che vitti fu un cavaddro, stinnicchiato di fianco supra la rina, immobile.
Per un momento strammò. Pinsò di stari continuanno a sognare. Po’ accapì che la vestia supra la rina era reale. Ma come mai quel cavaddro era vinuto a moriri davanti alla sò casa? Sicuramente, quanno era caduto, doviva aviri fatto un debole nitrito, bastevole a fargli inventare, nel sonno, il sogno della fìmmina-cavaddro.
Si sporgì dalla finestra per vidiri meglio. Non c’era anima criata, il piscatore che ogni matina dai paraggi si partiva con la varcuzza era oramà un puntino nìvuro al largo. Supra la parte dura della rina, quella cchiù vicina al mare, gli zoccoli del cavaddro avivano lassato ’na serie d’impronte delle quali non si vidiva il principio.
Era vinuto da lontano, il cavaddro.
S’infilò alla lesta i cazùna e ’na cammisa, raprì la porta-finestra e dalla verandina scinnì nella spiaggia.
Quanno fu vicino all’armàlo e lo taliò, vinni assugliato da una botta di raggia incontenibile.
«Bastardi!».
La vestia era tutta ’nsanguliata, gli avivano spaccato la testa con qualichi spranga di ferro, ma tutto il corpo portava i segni di una vastoniatura longa e feroci, qua e là c’erano profunne ferite aperte, pezzi di carne che pinnuliavano. Era chiaro che a un certo momento il cavaddro, martoriato come s’attrovava, era arrinisciuto lo stisso a scappari e si era mittuto a curriri alla disperata fino a quanno non ce l’aviva fatta cchiù.
Era accussì arraggiato e sdignato che se avesse avuto tra le mano uno di quelli che avivano ammazzato il cavaddro, gli avrebbe fatto fari la stissa fine. Si misi a seguire le orme.
Ogni tanto s’interrompivano e al loro posto supra la rina c’erano i segni che la povira vestia era sgonocchiata, inginocchiandosi con le zampe di davanti.
Caminò per squasi tri quarti d’ora e finalmenti arrivò nel loco indove avivano massacrato il cavaddro.
La superficie della rina qui, per il violento trippistio che c’era stato, aviva formato come ’na speci di pista da circo ed era segnata da orme di scarpe che si sovrapponevano e dai segni degli zoccoli. Sparsi torno torno c’erano macari ’na corda longa e spezzata, quella con la quale avivano tinuto la vestia, e tri spranghe di ferro macchiate di sangue asciucato. Accomenzò a contare le impronte delle scarpe e non fu ’na cosa facile. Arrivò alla conclusione che ad ammazzare il cavaddro erano state massimo quattro pirsone. Ma altre dù avivano presenziato allo spettacolo stannosene ferme ai bordi della pista e ogni tanto fumannosi qualichi sicaretta.
Tornò narrè, trasì ’n casa e chiamò il commissariato.
«Pronti? Questo è il…».
«Catarella, Montalbano sono».
«Ah dottori! Vossia è? Che fu, dottori?».
«C’è il dottor Augello?».
«Ancora manchevole è».
«Se c’è Fazio, fammici parlare».
«Subitissimo, dottori».
Non passò manco un minuto.
«Dottore, mi dica».
«Senti, Fazio, vieni subito qui da me a Marinella, e, se ci sono, portati Gallo e Galluzzo».
«C’è cosa?».
«Sì».
Lassò aperta la porta di casa e si fici ’na longa passiata a ripa di mari. La barbara ammazzatina di quella povira vestia gli aviva fatto nasciri ’na raggia surda e violenta. Tornò vicino al cavaddro. S’acculò per taliarlo cchiù da vicino. L’avivano sprangato macari supra la panza, forsi mentre la vestia s’impennava. Po’ s’addunò che uno dei ferri era praticamente staccato dallo zoccolo. Si mise a panza ’n terra, allungò un vrazzo e lo toccò. Era tinuto sulo da un chiovo che per mità era nisciuto fora dallo zoccolo. Fazio, Gallo e Galluzzo arrivarono in quel momento, s’affacciarono dalla verandina, vittiro al commissario, scinnero supra la spiaggia. Taliaro il cavaddro e non ficiro dimanne.
Sulo Fazio commentò:
«Ce n’è genti fitusa al munno!».
«Gallo, ce la fai a portare la macchina fino a qua e poi farla caminare a ripa di mare?» spiò Montalbano.
Gallo fici un surriseddro di superiorità.
«E che ci vuole dottore?».
«Galluzzo, vai con lui. Dovete seguire le orme del cavaddro. Vi addunerete senza possibilità di dubbio indove hanno fatto la mattanza. Ci sono spranghe di ferro, cicche, e forse altre cose. Vedete voi. Raccogliete tutto con quatela, voglio far rilevare le impronte digitali, il Dna, tutto quello che ci abbisogna per capire chi erano ’sti farabutti».
«E poi che facciamo? Li denunziamo alla protezione animali?» spiò Fazio mentre i dù si partivano.
«Pirchì, tu pensi che questa facenna finisce qua?».
«No, non lo penso. Ho solo voluto dire ’na battuta».
«A mia non mi pare ’na cosa da ridirci. Pirchì l’hanno fatto?».
Fazio fici la facci dubitativa.
«Dottore, può essere uno sfregio al proprietario».
«Può essere. E basta accussì?».
«Nonsi. C’è ’na cosa cchiù probabile. Avevo inteso dire…».
«Che cosa?».
«Che da qualichi tempo a Vigàta fanno corse clandestine».
«Tu pensi perciò che l’ammazzatina del cavaddro possa essiri la conseguenza di qualichi cosa capitata in quell’ambiente?».
«E che può essiri di diverso? Non dobbiamo fare altro che aspettare la conseguenza della conseguenza che di sicuro ci sarà».
«Ma forsi se arrinisciamo a prevenirla, la conseguenza, è meglio, no?» disse Montalbano.
«Sarebbe meglio, certo, ma sarà difficile».
«Beh, cominciamo col dire che prima d’ammazzarlo il cavaddro devono averlo arrubbato».
«Dottore, vuole babbiare? Nisciuno verrà a fare la denunzia dell’arrubbatina del cavaddro. Sarebbe come venire da noi e dire: io sono uno degli organizzatori delle corse clandestine».
«È un affare grosso?».
«Parlano di milioni e milioni di euri di scommisse».
«E cu c’è darrè?».
«Fanno il nome di Michilino Prestia».
«E chi è?».
«Un cinquantino fissa, dottore. Che fino all’anno passato faciva il contabile in una imprisa di costruzione».
«Ma questa non mi pari cosa di contabili fissa».
«Certo, dottore. E infatti Prestia è un prestanome».
«Di chi?».
«Non si sa».
«Dovresti cercare di saperlo».
«Cercherò».
Trasuti in casa, Fazio annò in cucina a priparari il cafè e Montalbano chiamò il comune per avvertire che nella pilaja di Marinella c’era la carcassa di un cavaddro.
«È suo il cavallo?».
«No».
«Parliamoci chiaro, egregio signore».
«Perché, come sto parlando? Scuro?».
«No, è che certuni dicono che la bestia morta non è di loro proprietà per non pagare la tariffa di rimozione».
«Le ho detto che non è mio».
«Crediamoci. Sa di chi è?».
«No».
«Crediamoci. Sa di che è morto?».
Montalbano si tirò il paro e lo sparo e addecidì di non contare nenti all’impiegato.
«Non lo so, ho visto la carcassa dalla mia finestra».
«Quindi non ha assistito alla morte».
«Evidentemente».
«Crediamoci» disse l’impiegato.
E a questo punto si misi a canticchiare «Tu che a Dio spiegasti l’ali».
Canto funebre per il cavallo? Gentile omaggio dell’amministrazione comunale come partecipazione al lutto?
«Beh?» fici Montalbano.
«Stavo riflettendo» disse l’impiegato.
«E che c’è da riflettere?».
«A chi compete il prelevamento della carcassa».
«Non compete a voi?».
«Competerebbe a noi se si tratta di un articolo 11, ma se invece si tratta di un articolo 23 compete all’ufficio provinciale d’igiene».
«Senta, dato che sino ad ora mi ha sempre creduto, continui a credermi, la prego. Le assicuro che o ve la portate via entro un quarto d’ora o io vi…».
«Ma chi è lei, scusi?».
«Il commissario Montalbano sono».
Il tono dell’impiegato cangiò di colpo.
«È un articolo 11, sicuramente, commissario».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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