Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Le poche cose certe di Valentina Farinaccio. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori, con un prezzo di copertina di 17,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto).
Le poche cose certe: trama del libro
È da dieci anni che Arturo non sale su un tram. L’ultima volta che lo ha fatto era un giovane attore di belle speranze e andava a incontrare una ragazza perfetta e misteriosa, con il nome di un’isola, quella leggendaria di Platone: Atlantide. Ma il destino cancella il loro appuntamento e, da lì in poi, niente andrà come doveva andare. Oggi Arturo è un quarantenne tormentato da mille paure. Mentre attorno tutto si muove, lui resta fermo, immobile, come un divano rimasto con la plastica addosso in quelle stanze in cui non si entra per paura di sporcare. Quando sale sul tram 14, che da Porta Maggiore scandisce piano tutta la Prenestina, ha un cappellino in testa per nascondere i pensieri scomodi e nella pancia il peso rumoroso dei rimpianti. E mentre i binari scorrono lenti, in una Roma che si risveglia dall’inverno, e la gente sale e scende, ognuno con la sua storia complicata appesa al braccio come una ventiquattrore, Arturo, che nella sua vita sbagliata ha sempre aspettato troppo, fa i conti con il passato, cercando il coraggio di prenotare la sua fermata. Perché nel posto in cui sta andando c’è forse l’ultima possibilità di ricominciare daccapo, e di prendersi quel futuro bello da cui lui è sempre scappato.
Approfondimenti sul libro
Le poche cose certe è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 8,99.
Ritorno
Accende la sigaretta, e lo vede: il tram numero 14.
C’è tutta una matematica perfetta, a scandire:
che il cellulare squilla, appena entri nella doccia, la pizza arriva, quando esci a telefonare, il treno tarda, quella volta che non puoi tardare, e il tram passa, non ci sono dubbi, appena cominci a fumare.
A Porta Maggiore c’è il sole, e Arturo sale. Spegne la sigaretta, così nuova che gli pare un peccato, e sale.
Ha la stazza larga di chi può, allo stesso modo, proteggere e distruggere, la barba nera, un naso accecante, gli occhi sottili, un poco cinesi, e due denti che gli si accavallano appena, al centro della bocca. Nulla di pronunciato, solo un piccolo fuori programma che si nota quando ride bene, o quando sta per baciare sulle labbra, un secondo prima.
Gli tremano le mani, se ne accorge dall’impegno sproporzionato che deve metterci per infilare il biglietto nella macchinetta. Che da uno così il biglietto non te l’aspetti, mentre la cosa che più gli mette ansia è proprio quella di farsi trovare senza. Semmai dovesse capitargli, prima o poi, di dover rispondere a quella domanda sul sogno ricorrente, è questo, il suo: che sta sul tram senza biglietto e che, intravisto il controllore, riesce a scendere un attimo prima che arrivi il suo turno, salvandosi per un soffio dalla multa e dall’enorme figuraccia.
Arturo si siede dietro, come a scuola, come sugli autobus delle gite quando facevi parte del gruppo giusto. Perché la vita è tutta così, anche in questo senso matematica: che i più bravi siedono davanti, i più fighi dietro, mai nel centro. Come con l’inizio e la fine, quando il mezzo sono solo particolari tralasciabili.
E si siede in fondo, Arturo, nel culo rigido del tram. Per soddisfare quel piglio di sempre, di avere una massa di braccia, odori, capelli, di fronte. Mette la mano in tasca, per prendere il telefono, per passare il tempo. Lo fa in automatico, ma tuffando le dita nel vuoto si ricorda che no, non può.
E allora si tocca la visiera, è il suo gesto tipico, il suo gesto isterico. La sposta di mezzo centimetro in su, con due dita, poi la fa scendere di nuovo, la rimette come stava. E il tram è ancora fermo, a Porta Maggiore: con la roulotte di quello che da mille anni fa i panini zozzi, lì, a qualche metro, e tutta la gente che corre, sale, guarda, puzza, non oblitera, oblitera, cerca un posto, troppo tardi, non lo trova. Arturo scruta, uno per uno, i passeggeri, comincia a sentirsi in colpa per essersi seduto; a pensare che quella signora forse dovrebbe stare dove sta lui, ma che non è poi così vecchia, che anzi potrebbe offendersi, se glielo proponesse. E non ci sono donne incinte, guarda bene, non ne vede. A parte quella, quella che ha la pancia, ma che potrebbe essere solo grassa, che potrebbe offendersi, pure lei. Si tiene il suo posto, Arturo. E fuori, intanto, Roma ha il colore dell’inizio di febbraio. Quel colore freddo, ma trasparente, del peggio che è passato.
2
Andata
Dell’ultima volta che ha preso il tram, ricorda il rumore crudele del genere umano. Era salito all’altezza di Tor de’ Schiavi, lungo la Prenestina. Gennaio era così agli sgoccioli che febbraio pareva di toccarlo col naso. Era una sera buia, convinta, e sembrava che il mondo intero non avesse altro da fare se non arrivare prima possibile a Porta Maggiore, per quell’appuntamento importantissimo.
Una cosa tipo: fermi voi, pompieri, carabinieri, finanzieri. E statevene a casa pure voi, ristoratori, farmacisti, dj delle discoteche. Fermi tutti, per piacere, perché a noi, a me e a lei che ci dobbiamo incontrare, serve solo l’autista di questo tram, che mi accompagni dove devo, e una sala da tè aperta fino a tardi, in cui io possa, con una mano riscaldata dalla tazza, circumnavigarle la schiena. Avevano appuntamento alle 19.00, alla fermata. Solo a immaginarlo, quel momento, Arturo si sentiva in un film di Truffaut. Erano gli anni in cui ci si davano gli appuntamenti, ancora.
Quando si era capaci di dirsi con una settimana d’anticipo, anche due, il dove e l’ora. Senza annullare, ritardare, ritoccare. Che pare una magia straordinaria, il fatto di essersi visti, per così tanti anni, proprio là, a un’ora stabilita tutto quel tempo prima.
Perché gli imprevisti devono essere stati inventati insieme agli smartphone, non c’è altra spiegazione.
O forse è perché un tempo l’imprevisto era sempre una cosa grossa, mentre oggi è anche solo che stasera no, proprio non ci va.
Arturo era più magro di dieci anni, quella sera, quella volta del tram e di lei che lo aspettava.
«Le spiace se mi siedo?» gli aveva chiesto una signora sull’ottantina, garbata, gli orecchini di perle, molto stanca. Si era alzato di scatto, mortificato. Non aveva barba, allora, non portava il cappellino, ancora, le avrebbe voluto dire mi scusi, signora, avrei dovuto cederle il posto di mia iniziativa, ma sa, stavo pensando a lei, che ha gli occhi molto verdi, i capelli tutti scombinati e una cicatrice sul mento, di quella volta che era piccola e suo fratello le lanciò una cornice d’argento sulla faccia.
In silenzio, invece, le consegnò il posto.
In silenzio, sempre, si promise che lui non sarebbe mai stato vecchio, a Roma. Che se c’è una città in cui non si può vivere, da vecchi, quella è Roma, con quei chilometri di strisce pedonali da attraversare nel tempo risicato di un semaforo arancione; con quelle spalle frettolose che spintonano, calpestano, e le scale, le buche, le macchine sui marciapiedi, la velocità inafferrabile delle cose che devono andare a quel ritmo, pure se tu sei stanco e andresti calmo, che tanto nessuno ti corre dietro. E mentre il tram andava verso il Pigneto, Arturo sceglieva dove trasferirsi, verso i sessanta. Con lei, che intanto avrebbe tagliato i capelli e avrebbe deciso di non tingerli, che gli anni sono belli, da portare. E forse la Sicilia, forse l’Umbria, forse una qualche montagna del Trentino, ma intanto erano le 18.45 e fra quindici minuti avrebbero potuto decidere insieme, dove andare a stare, per sempre.
Perché quella volta, si era detto all’altezza di largo Preneste, quella volta voleva fare le cose per bene. L’aveva incrociata alla fine di uno spettacolo: lui a stringere mani, a dire grazie, grazie di cuore, lei aggrappata a un panino con salsiccia e broccoli. E da cosa si capisce, che quella non te la scoperai soltanto, ma che la porterai con te a guardare le storie dell’Appia Antica, un sabato pomeriggio, immaginando di vivere laggiù, in fondo a quei viali lunghi e costosissimi?
Facile: lei aveva approfittato dell’attimo esatto in cui i loro occhi si erano incontrati per dirgli che doveva cambiare mestiere.
Così, gli aveva detto: «Guarda, è chiaro che ti piace farlo, ma recitare no, non fa per te».
Arturo prese i suoi trentun anni fra un mese, la sua scuola di recitazione, le sue parti piccole in film grandi, le sue camicie mezze fuori e mezze dentro, i suoi monologhi a teatro, le sue bellissime fidanzate per quindici giorni a malapena, le sue finte foto rubate dai giornali di gossip, buttò tutto nel cesso e tirò l’acqua.
«È che immagino tu ci speri, in questo lavoro» continuò lei, «e allora forse è meglio che qualcuno sia schietto con te… Cioè: i tuoi genitori non ti diranno mai che non sei abbastanza bravo, la tua fidanzata non ne parliamo e così, se pure io perdo l’occasione di essere sincera con te, stasera, finisce che ti ritrovi a cinquant’anni senza uno straccio di credibilità. Dammi retta, io ti sto salvando la vita, oggi.»
Arturo parlava tre lingue, tirava coca appena poteva, era figlio unico, e cambiava più fidanzate che mutande. Trovò ugualmente utile guardare quella ragazza negli occhi, avvicinarsi a lei con due o tre passi curiosi e dirle: «Chi te l’ha fatta quella cicatrice sul mento?».
«Mio fratello, lanciandomi una cornice d’argento. Io volevo guardare una puntata di “Beverly Hills”, lui giocare a Super Mario. Io e mio fratello ce la siamo sbrigata a mazzate fino ai miei quindici anni, poi abbiamo cominciato a parlare.»
«Ok. E tu chi cazzo saresti per venire qua e dire le cose in faccia alla gente con tutta questa sincerità non richiesta?»
«Sono un’attrice, anche io, e ti stavo prendendo in giro. Volevo solo vedere come reagivi, scusa.»
«Scusa un cazzo.»
«Scusa un cazzo, giusto. Mi chiamo Atlantide, piacere… è un nome assurdo, lo so, ma hai presente la canzone di De Gregori, quella che parla della ragazza col viso che ricorda il crollo di una diga? Che poi ci sarebbe anche l’isola leggendaria, quella di Platone, vabbè, niente, i miei genitori fumavano erba, la sera.»
«Dice anche quella cosa straziante, De Gregori, in quel pezzo. Dice che la perdona per averla tradita. Ogni volta che la sento piango, come un fesso. Piacere, Arturo: la canzone col nome un giorno qualcuno me la scriverà, spero, ma intanto anche io ho la mia isola, non so se hai presente. Passo la vita a dire il mio nome e poi a rispondere sì, come quello della Morante.»
Eccoli: Arturo e Atlantide, una sera di tanti anni fa. Che se c’è una cosa certa, nella vita, è che fra un’isola e l’altra c’è sempre il mare.
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