Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il posto di ognuno di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il posto di ognuno: trama del libro
Napoli 1931. Le stagioni si susseguono incuranti del sangue e della morte e la città si prepara ad affrontare il caldo torrido dell’estate. Luigi Alfredo Ricciardi, Commissario in forza alla Regia Questura di Napoli, affronta un nuovo caso di omicidio insieme all’inseparabile Brigadiere Maioni. Ricciardi è un commissario fuori dal comune, un solitario, uno che non ama eseguire gli ordini che gli vengono impartiti e di solito fa di testa sua. Non è ben visto dalla gerarchia fascista che lo controlla a distanza ma lo lascia lavorare, perché stranamente i casi li risolve tutti… In molti cominciano a sospettare che Ricciardi abbia un segreto, si dice parli direttamente con il Diavolo. In realtà Ricciardi si limita ad ascoltare le ultime parole dei morti, più che un dono, una condanna. L’estate del commissario Ricciardi vedrà la morte della bellissima duchessa di Camparino, uno donna misteriosa dalla chiacchierata vita notturna. Anche stavolta saranno le ultime parole pronunciate dalla vittima a far partire l’indagine che condurrà il commissario, e noi lettori insieme a lui, a scoprire una Napoli riarsa e poco conosciuta, abitata da personaggi inquietanti che tenteranno di ostacolare il suo lavoro.
In ebook Il posto di ognuno (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 5,99 euro. Qui potete trovare la lista di tutti i libri del Commissario Ricciardi.
L’angelo della morte attraversò la festa, e nessuno se ne accorse.
Passò rasente il muro della chiesa, ancora addobbata per la celebrazione della mattina; ma ormai era notte, e il sacro aveva ceduto al profano. Era stato acceso un falò al centro della piazza, come da tradizione, anche se il gran caldo d’agosto lasciava senza fiato e nessuno sentiva il bisogno delle fiamme del legno vecchio che ogni famiglia aveva contribuito ad ammassare.
Ma le fiamme aiutavano l’angelo della morte, proiettando le ombre delle coppie che danzavano al suono delle tammorre, delle chitarre e dei battimano, tra le urla dei bambini e i fischi degli ambulanti. Non lo aveva previsto, ma sapeva che la giustizia divina sarebbe in qualche modo intervenuta. Scoppiò un petardo, poi un altro. La mezzanotte si avvicinava. Una signora grassa e sudata finse uno svenimento, l’uomo accanto a lei rise. L’angelo della morte lo sfiorò ma quello non ebbe nemmeno un sussulto: il destino non era per lui, quella notte.
Costeggiando la piazza, nel suo anonimo vestito scuro, avrebbe potuto attirare l’attenzione solo per la tristezza degli occhi bassi e delle spalle, appena curve. Ma nessuno l’avrebbe notata, quella tristezza, nella frenesia della notte. Anche su questo aveva fatto conto.
Arrivò al portone del palazzo e per un attimo temette che fosse chiuso per la festa; ma uno spiraglio era stato lasciato aperto, come sempre. E l’angelo della morte scivolò all’interno come un’ombra, mentre la tarantella infuriava e la folla l’accompagnava con canti e applausi e i petardi punteggiavano la musica. Sapeva dove nascondersi. Raggiunse l’anfratto dietro una colonna e si dispose all’attesa.
La mano scivolò nella tasca per sentire il freddo del metallo, ma non trovò conforto. Nemmeno l’ombra solitaria del cortile dava conforto.
Solo il pensiero della giustizia che avrebbe portato.
II
Al commissario Luigi Alfredo Ricciardi non dispiaceva lavorare di domenica, e questa era un’altra delle sue stranezze. I colleghi si defilavano con mille pretesti, quando venivano stabiliti i turni, madri ammalate da accudire, anzianità maturate, millantate necessità familiari: ogni scusa era buona, pur di risparmiarsi il lavoro nel giorno in cui tutta la città faceva festa.
Ricciardi invece se ne stava zitto, come al solito, e come al solito gli toccava prendersi il peggio. Non che questo gli fruttasse la benevolenza degli altri, che non perdevano occasione di mormorare alle sue spalle.
Solitario, le mani in tasca, sempre senza cappello anche d’inverno; non partecipava alle feste, ai brindisi, non era mai presente alle occasioni d’incontro. Lasciava cadere gli inviti, non stringeva amicizie e non si apriva alle confidenze. Gli occhi verdi spiccavano nel volto bruno, una ciocca di capelli sempre sulla fronte che ravviava con un gesto secco. Parlava pochissimo, con fredde ironie che non tutti coglievano. Ciononostante la sua presenza calamitava l’attenzione.
Lavorava senza sosta, soprattutto quando seguiva un caso di omicidio, fra la malevolenza di quei colleghi che non erano in grado di avvicinarsi ai ritmi che imponeva alle indagini: i militari che gli erano assegnati lo maledicevano di nascosto per le ore passate sotto la pioggia o il sole, in appostamenti lunghissimi e talvolta inutili. Commentavano velenosi che ogni volta pareva che gli avessero ammazzato un familiare, si trattasse di un nobile o un poveraccio.
D’altra parte le sue capacità erano indiscutibili. Senza seguire le procedure né attenersi alle disposizioni dei superiori, percorreva le sue strade incomprensibili e arrivava sempre al colpevole. Si era sparsa la voce che il commissario Ricciardi parlasse direttamente col diavolo che gli suggeriva i pensieri degli assassini; questo incrementava il vuoto attorno a lui, perché la superstizione era radicata nell’anima della città. Della sua vita nessuno sapeva nulla, o forse non c’era nulla da sapere. Viveva da solo con la sua vecchia tata, non si sapeva di parenti o amici. Niente donne e nemmeno uomini, nessuno che lo avesse incontrato in un bordello o a teatro, mai una serata fuori. Ispirava la diffidenza che sempre ispira chi sembra non avere vizi e quindi non può avere virtù.
Gli stessi superiori e in primis Angelo Garzo, il vicequestore, non nascondevano il disagio alla presenza di un uomo che, nonostante le enormi abilità e competenze, non aveva ambizioni. Si diceva che fosse ricchissimo, un latifondista di una terra sperduta, e che quindi non aspirasse a un migliore stipendio. L’unica cosa che sembrava interessargli erano le indagini.
Non che manifestasse una qualche soddisfazione, quando metteva finalmente le mani sul colpevole. Si limitava a uno sguardo fisso con quegli inquietanti occhi trasparenti, e poi girava le spalle e passava oltre. A un altro delitto. Verso altro sangue.
Ricciardi arrivava presto in ufficio, anche quando era di turno la domenica. Nella lunga passeggiata da via Santa Teresa alla fine di via Toledo incontrava meno gente, e questo non gli dispiaceva; la città che si svegliava lentamente, qualche carretto di frutta o latte che percorreva sgangherato la strada, i primi canti delle lavandaie dalle fontane nascoste nei quartieri popolari che attraversava. In questo terribile agosto, oltre due mesi senza una goccia di pioggia, procurarsi un po’ di fresco residuo della notte era piacevole nel cammino.
Nella semioscurità delle imposte socchiuse, seduto dietro la scrivania, il commissario raccoglieva le idee per la giornata. Gesti meccanici, burocrazia, verbali da compilare, il foglio delle presenze: pochissime, quel giorno. La piazza sotto la finestra era ancora deserta. Un ubriaco cantava rauco: un altro che è di turno di domenica, pensò Ricciardi.
La porta era semiaperta, per creare un minimo di corrente d’aria. Lame di luce sul muro, sotto i ritratti ufficiali del piccolo re e del grosso capo del governo. Un gabbiano fece da contrappunto al canto dell’ubriaco, e a Ricciardi parve senz’altro più intonato. Oziosamente guardava dallo spiraglio della porta, verso la porzione di corridoio sulle scale che riusciva a vedere.
Anche nella penombra i due cadaveri gli si presentavano nitidi. In piedi, uno di fianco all’altro, uniti per l’eternità dopo essersi appena incontrati in vita. Un monumento alla guardia e al ladro, pensò Ricciardi. Un monumento invisibile, però: quasi per tutti.
Dalla sua sedia, a diversi metri di distanza, il commissario vedeva il largo cratere bruciato sul lato della testa del ladro e il piccolo foro di entrata del proiettile sulla tempia della guardia, il rivolo di sangue e di materia cerebrale che scorreva fino al collo; e sentiva il sommesso mormorio dell’ultimo pensiero dei due. Voi non avete turni, pensò con astio. Siete qua ogni maledetto giorno, ad ammorbare l’aria con l’inutile dolore delle vostre giovani vite buttate via.
Distolse lo sguardo e si alzò dalla sedia; il caldo andava irrobustendosi minuto dopo minuto, per strada cominciava a sentirsi qualche motore in cammino verso il mare. Andò al calendario e strappò il foglio della giornata precedente. Lesse la nuova data: domenica 23 agosto 1931 – IX. Anno nono. Della nuova Era. L’era dei fiocchetti sui cappelli e degli stivaloni, delle fotografie a tutta pagina in maniche di camicia e con l’aratro. Dell’entusiasmo e dell’ottimismo. Dell’ordine e delle città pulite, per decreto.
Magari bastasse un decreto, pensò Ricciardi. Il mondo gira uguale a prima dell’anno Primo, purtroppo: gli stessi delitti, le stesse passioni corrotte. Lo stesso sangue.
Gettò uno sguardo al corridoio, ascoltò il mormorio dei pensieri dei morti. Andò a chiudere la porta, come se questo bastasse a escludere l’emozione dall’anima, come se sentisse le parole con le orecchie e non col cuore. Prima di gettarlo nel cestino lesse ancora la data sul foglio strappato dal calendario: anno nono. E invece ne sono passati venticinque, dal mio primo agosto bollente. Venticinque oggi, per essere precisi.
La baronessa Marta Ricciardi di Malomonte era una donna minuta, elegante, silenziosa. Nel paese del Cilento dominato dall’antico castello tutti le volevano bene, ma da lontano; c’era qualcosa di strano, di distante in quei bellissimi occhi verdi e tristi. Qualcosa che metteva a disagio.
Il destino non era stato particolarmente benevolo con la sposa bambina del barone, tanto più anziano, morto quando il piccolo Luigi Alfredo aveva solo tre anni; lei non aveva voluto tornare in città e partecipava attivamente alla vita del villaggio, aiutando le famiglie più povere e insegnando a scrivere e leggere ai più piccoli perché facessero compagnia a quel figlio così simile a lei. Ma la distanza sociale non era una buona premessa per l’amicizia; perciò Luigi Alfredo preferiva passare il suo tempo con Rosa, la tata che stava con loro da quando era ragazzina, e col fattore Mario, un giovanotto appassionato di Salgari che gli raccontava di tigri e guerrieri. Il bambino sognava a occhi aperti e ricostruiva le storie giocando nel giardino del castello; circondato da compagni e nemici immaginari combatteva la solitudine con la fantasia, brandendo la spada di legno che Mario gli aveva fabbricato con due frammenti di asse in croce.
Il mondo di Luigi Alfredo era fatto di realtà e immaginazione in parti uguali; alimentava la seconda con la prima, scegliendo gli elementi di maggior fascino per inventarsi nuove avventure da vivere nei lunghi pomeriggi solitari. La madre e la servitù si erano abituati a sentirlo mormorare in giardino, incitando truppe invisibili alla battaglia e decapitando mostri marini con un solo fendente; toccava a una brontolante Rosa, la sera, medicare ginocchia sbucciate e rammendare strappi nelle camiciole prima di un ruvido abbraccio consolatorio.
Un giorno però era rientrato urlando e, in lacrime, aveva raccontato alla madre e a Rosa di aver visto un uomo morto che gli parlava. La tata lo aveva calmato e la sera, alle cameriere, aveva chiesto a muso duro chi era stata così sciocca da raccontare al bambino dell’omicidio del bracciante accoltellato per gelosia nel corso dell’inverno; le donne protestarono giurando di non aver mai parlato in presenza del signorino “del fatto”. Luigi Alfredo, che ascoltava nascosto come al solito sotto il davanzale della finestra, avrebbe poi definito “il Fatto” quell’altra vista che aveva, la capacità di sentire il dolore sospeso nell’aria dopo una morte violenta. E di vederne la fonte.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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