Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La psichiatra di Wulf Dorn. Il volume è pubblicato in Italia da Corbaccio con un prezzo di copertina di 18,60 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La psichiatra: trama del libro
Lavorare in un ospedale psichiatrico è difficile. Ogni giorno la dottoressa Ellen Roth si scontra con un’umanità reietta, con la sofferenza più indicibile, con il buio della mente. Tuttavia, a questo caso non era preparata: la stanza numero 7 è satura di terrore, la paziente rannicchiata ai suoi piedi è stata picchiata, seviziata. È chiusa in se stessa, mugola parole senza senso. Dice che l’Uomo Nero la sta cercando. La sua voce è raccapricciante, è la voce di una bambina in un corpo di donna: le sussurra che adesso prenderà anche lei, Ellen, perché nessuno può sfuggire all’Uomo Nero. E quando il giorno dopo la paziente scompare dall’ospedale senza lasciare traccia, per Ellen incomincia l’incubo. Nessuno l’ha vista uscire, nessuno l’aveva vista entrare. Ellen la vuole rintracciare a tutti i costi ma viene coinvolta in un macabro gioco da cui non sa come uscire. Chi è quella donna? Cosa le è successo? E chi è veramente l’Uomo Nero? Ellen non può far altro che tentare di mettere insieme le tessere di un puzzle diabolico, mentre precipita in un abisso di violenza, paranoia e angoscia. Eppure sa che, alla fine, tutti i nodi verranno al pettine…
In ebook La psichiatra (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro.
BENVENUTI ALLA WALDKLINIK
CLINICA SPECIALIZZATA IN PSICHIATRIA,
PSICOTERAPIA E PSICOSOMATICA
Il limite di velocità all’interno della clinica era di venti chilometri l’ora, ma il tachimetro della dottoressa Ellen Roth ne segnava almeno cinquanta.
Ellen era diretta all’edificio che ospitava il reparto 9. Per l’ennesima volta durante quella mattinata lanciò un’occhiata al cruscotto, quasi sperasse che le minuscole cifre digitali dell’orologio fossero così premurose da lasciarle ancora un po’ di tempo. Al contrario, la informarono con spietata precisione che aveva già accumulato oltre mezz’ora di ritardo.
Imprecò ancora una volta contro gli infiniti cantieri che rallentavano il tratto autostradale tra l’aeroporto di Stoccarda e l’uscita di Fahlenberg, trasformando ogni realistica pianificazione d’orario in una valutazione del tutto approssimativa. Quella mattina era passata da un ingorgo all’altro, e nei pochi tratti liberi si era augurata che non ci fossero autovelox.
Se Chris fosse stato con lei in quel momento, di sicuro le avrebbe fatto notare che correre in quel modo non serviva a niente. Se sei in ritardo, arrivi in ritardo. Un paio di minuti di meno non fanno differenza, le avrebbe detto.
Chris, il suo compagno e collega, che in quel momento si trovava a diecimila metri di quota e di cui già sentiva la mancanza.
Quella mattina non aveva avuto molta voglia di scherzare, però. Al contrario, le aveva parlato di una cosa della massima importanza per lui. Ellen ripensò alla promessa che gli aveva fatto e si sentì tutt’altro che tranquilla. E se avesse fallito, deludendo Chris? Non voleva neppure pensarci.
Facendo schizzare la ghiaia sotto le gomme, Ellen parcheggiò nel suo posto macchina. Spense il motore e fece un respiro profondo. Il cuore le batteva in gola, come se avesse percorso a piedi i sessanta chilometri dall’aeroporto.
«Calmati, Ellen, calmati. Sei in ritardo, ormai non puoi più farci niente» mormorò a se stessa, mentre gettava un’occhiata al retrovisore.
Per un istante ebbe l’impressione di guardare il viso di una sconosciuta, una donna decisamente più vecchia di lei. Aveva gli occhi castani cerchiati e i capelli scuri e corti, che di solito le davano un’aria sbarazzina, avevano un aspetto opaco e quasi grigio nella penombra dell’abitacolo.
Ellen sospirò. «Dovresti buttare via la carta d’identità e farti valutare dall’aspetto» suggerì alla propria immagine. «Così potresti chiedere di andare in pensione a ventinove anni.»
Aveva assolutamente bisogno di meno stress e più riposo.
Scese dalla sua due posti e chiuse la portiera. Subito si accorse di aver lasciato le chiavi nel cruscotto. Riaprì precipitosamente la portiera ed estrasse le chiavi, e in quel momento sentì suonare il suo cercapersone. Era già la seconda volta da quando era entrata nel suo raggio d’azione.
«Ho capito!» gridò all’apparecchio, poi lo spense.
Ma mentre si avvicinava all’edificio il cercapersone tornò a squillare. Quanto odiava quell’aggeggio di plastica nera. Era appena più grande di una scatola di fiammiferi, ma aveva il potere di irritarla enormemente. Per esempio, mettendosi a suonare nei posti più assurdi – durante la pausa pranzo in mensa, o perfino in bagno.
Quel lunedì mattina il piccolo mostro nero ricordò a Ellen che per la prima volta in vita sua si presentava in ritardo al lavoro. E il fatto che la voce del padrone – un’altra espressione tratta dal repertorio in apparenza inesauribile di Chris – si facesse sentire per la terza volta nel giro di due minuti con il suo fastidioso bip bip non lasciava dubbi: la sua presenza era richiesta con urgenza. Ellen si augurò che non fosse successo proprio ciò che Chris aveva temuto.
Due
L’uomo si chiamava Walter Brenner. Non faceva altro che mugugnare suoni incomprensibili, solo lontanamente simili a una lingua conosciuta.
Stando alla scheda con i dati personali, Brenner aveva sessantacinque anni e viveva solo. Portava un paio di calzoni di fustagno marrone consunti e una camicia di flanella chiazzata sul davanti. Pareva avere un debole per gli intingoli – o quanto meno per qualcosa che somigliava a macchie di sugo ormai secche.
Al contrario sembrava non sapere cosa fossero pettine e rasoio. Sul volto rugoso e incavato i peli della barba erano simili ad aghi trasparenti e la pettinatura – se tale poteva chiamarsi quell’ammasso scomposto di capelli – faceva venire in mente a Ellen la celebre foto in cui Albert Einstein fa le linguacce al fotografo.
A questo si aggiungeva un odore penetrante, come di formaggio troppo stagionato. Un misto di urina, sudore e sego avvolgeva la triste figura dell’uomo come una nuvola invisibile.
Oggi avrei fatto meglio a spruzzarmi il mio Calvin Klein sotto il naso, anziché sul décolleté, pensò Ellen, senza tuttavia battere ciglio. Si limitò a dire «buongiorno» offrendo la mano.
Brenner non si accorse della sua presenza, e continuò a fissare nel vuoto.
«Il signor Brenner è stato portato qui da noi dal pronto soccorso dell’ospedale pubblico» spiegò l’infermiera Marion, porgendo a Ellen i documenti per il ricovero.
La corpulenta infermiera doveva aver superato già da tempo la cinquantina. Né Ellen né il resto del personale nutrivano grande simpatia per lei. Con il suo zelo missionario e una sollecitudine da chioccia Marion riusciva immancabilmente a far perdere le staffe anche alla persona più paziente. Lavorava al reparto 9 da così tanto tempo che secondo certe malelingue le avevano tatuato un numero d’inventario sul braccio.
«Il poveretto non ha ancora pronunciato una sola parola comprensibile» aggiunse, toccando la spalla di Brenner, che tuttavia rimase apatico.
«Sappiamo qual è il motivo del ricovero?» domandò Ellen.
«Una vicina di casa lo ha portato al pronto soccorso dopo averlo visto vagare in stato confusionale per le scale del palazzo. È impossibile comunicare con lui. Inoltre soffre di disturbi dell’equilibrio. Non riesce quasi a camminare, poverino.»
Come a conferma della diagnosi, Brenner interruppe il suo incomprensibile biascicare con un rutto, sempre continuando a fissare un punto indefinito tra la poltrona di Ellen e il pavimento. Il miasma che uscì dalla sua bocca spinse le due donne a voltarsi dall’altra parte.
«Uau» esclamò Marion. «Che cosa ha mangiato, signor Brenner?»
«Ziiibopecaaa» fu la risposta.
Ellen pensò di aver capito cosa volesse dire. Per lo meno aveva un sospetto circa l’origine delle macchie sulla camicia.
«Probabilmente cibo per animali.»
L’infermiera la guardò stupefatta.
«Non sarebbe il primo pensionato al quale non resta altra scelta» commentò Ellen, esaminando meglio Walter Brenner. «Il cibo per animali è più economico e nutriente delle scatolette. Ho ragione, signor Brenner?»
L’uomo reagì con un altro suono del tutto inintelligibile. Ellen esaminò quindi i suoi riflessi e poi gli spiegò che avrebbe dato un’occhiata alla cartella clinica. Ma Brenner sembrava interessato esclusivamente al pavimento.
Ellen lesse la scheda, alla ricerca di un accenno di qualche tipo a patologie neurologiche. Probabilmente il paziente era stato colpito da un ictus che aveva causato lesioni ai centri del linguaggio e dell’equilibrio. Tuttavia poteva trattarsi anche di una grave forma di demenza, cosa che avrebbe spiegato come mai una certa dottoressa März avesse ritenuto opportuno trasferirlo in psichiatria.
In questo caso, tuttavia, la patologia di Brenner sarebbe stata evidente già da tempo e non gli avrebbe permesso di abitare ancora da solo. Scatolette o no, non sarebbe riuscito neppure ad andarle a comperare.
Niente demenza, dunque. Allora perché in psichiatria? In un modo o nell’altro, per Ellen quella indicazione non aveva alcun senso.
Sfogliò l’anamnesi compilata dalla collega. Rimase scioccata di ciò che lesse alla voce Diagnosi. Guardò ancora una volta Brenner, poi tornò a fissare la cartelletta.
Diagnosi: F20.0. Il codice con cui il personale medico comunicava al proprio interno si basava sulla classificazione delle malattie redatta dall’OMS. F20.0 era una delle diagnosi più frequenti con cui Ellen aveva a che fare ogni giorno. Era il codice della schizofrenia paranoide.
Ellen esaminò più attentamente il documento, per escludere che si trattasse di un numero scritto male. In effetti la leggibilità della grafia lasciava parecchio a desiderare – è piena di sbavature, avrebbe detto Chris con il suo amore per l’ordine -, tuttavia non c’erano errori. La dottoressa März aveva scritto proprio F20.0. Altrimenti, perché avrebbe fatto trasferire Walter Brenner nella clinica specialistica di psichiatria se non fosse stata del parere che fosse schizofrenico?
«È già stato qui da noi, signor Brenner?» si informò Ellen, senza in realtà aspettarsi una risposta. Intanto consultava il computer del reparto. Il nome Brenner compariva una volta. La cartella clinica era stata compilata dal suo collega Mark Behrendt. Ciò che Mark aveva scritto in brevi frasi precise le tolse la parola.
Tornò a guardare Walter Brenner e gli prese una mano, che sembrava quella di una mummia. Questo gesto le fece conquistare per la prima volta l’attenzione del paziente. Il suo sguardo tuttavia non mostrava alcun segno di riconoscimento, del tipo: «Ah, ecco una signora con il camice bianco». Al contrario, il modo in cui la guardava rifletteva esattamente ciò che uscì dalle sue labbra: «Agnnnghelooo ».
Ellen pizzicò la pelle coriacea sul dorso della mano dell’uomo. Il segno della piega rimase come su un pezzo di impasto.
«Incredibile!» Vedendo l’espressione interrogativa sul viso dell’infermiera, Ellen ordinò: «Somministrategli subito una soluzione fisiologica. Credo che nel giro di poche ore ci troveremo davanti un signor Brenner completamente diverso».
L’infermiera corrugò la fronte, sembrava un carlino. «Come, scusi?»
«Dio non è l’unico a saper fare miracoli. Vero, signor Brenner?»
«Eeehacciooo» fece il vecchio. Poi scoreggiò ed Ellen fu più che felice di poter lasciare la stanza.
Si affrettò lungo il corridoio, entrò di slancio nel suo studio e si richiuse la porta alle spalle.
Ci volle un po’ di tempo prima che l’infermiera del pronto soccorso dell’ospedale pubblico riuscisse a passare la telefonata alla dottoressa März. Ellen aspettò impaziente. Posò la cornetta sulla scrivania e consultò sul suo portatile il file con l’anamnesi di Walter Brenner, mentre dal telefono uscivano le note di una melodia che somigliava vagamente a una sequenza di Eine kleine Nachtmusik di Mozart. Ogni volta che il pezzo si ripeteva, la rabbia di Ellen montava sempre di più.
Finalmente si udì una specie di schiocco e poi una voce femminile si presentò con uno sbrigativo: «März!»
«Dottoressa Roth, Waldklinik. Si tratta del signor Brenner, che avete fatto trasferire qui da noi.»
«Senta, gentile collega, non potremmo parlarne più tardi? In questo momento non ci sono con la testa. I miei pazienti…»
«Appunto. Si tratta proprio di questo. Di uno dei suoi pazienti. I termini essiccosi e disidratazione le dicono qualcosa? In caso contrario, le darò una mano: sa bene che capita spesso alle persone anziane di dimenticarsi di bere.»
«Come, scusi?»
«Di sicuro sa benissimo che stato confusionale, difficoltà nell’eloquio e perdita di elasticità della pelle sono i primi sintomi della disidratazione. Ed è proprio quello che è successo al signor Brenner, cara collega. Il presunto schizofrenico, per essere più precisi, che ha fatto trasferire qui da noi.»
Ellen fece un respiro profondo, offrendo alla dottoressa März la possibilità di replicare.
«Ah-ha» si sentì nella cornetta. «Lei è a conoscenza della sua storia pregressa?»
«Che cosa intende?»
«La vicina del signor Brenner mi ha riferito che era stato ricoverato già nella vostra clinica. Quella volta era stato portato lì dalla polizia, dopo che in pieno giorno aveva urinato fuori dalla finestra della cucina pronunciando frasi sconnesse. Ai passanti sul marciapiede gridava che dovevano andarsene dal suo bagno.»
«Mia cara signora März, molto probabilmente è così. Tuttavia avrebbe dovuto riflettere meglio, prima di reagire con tanta prontezza al racconto di una vicina di casa. Si sarebbe dovuta consultare con noi. Così avrebbe scoperto che anche quella volta il signor Brenner soffriva di disidratazione e quindi era in stato confusionale. Può darsi che soffra di un disturbo che ha a che fare con il bere, ma non per questo possiamo definirlo schizofrenico. Se vuole può chiedere tranquillamente anche al dottor Behrendt, che si occupò di lui la volta scorsa.»
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore tedesco rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Wulf Dorn.
Qui potete trovare tutti i libri di Wulf Dorn in ordine di pubblicazione.
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