Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il quaderno di Maya di Isabel Allende. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il quaderno di Maya: trama del libro
Maya Vidal ha diciannove anni ed è caduta nel circuito dell’alcol e della droga. In fuga dai bassifondi di Las Vegas, da spacciatori e agenti dell’Fbi, approda nell’incontaminato arcipelago di Chiloé. In queste isole remote nel Sud del Cile, nell’atmosfera di una vita semplice fatta di magnifici tramonti, solidi valori e rispetto reciproco, Maya impara a conoscersi e a riscoprire la sua terra d’origine, svela verità nascoste e, infine, trova l’amore. A queste pagine si alterna il crudo racconto della difficile storia che a quelle isole l’ha condotta, una vita fatta di marginalità e degrado, solitudine e cattive compagnie, nella quale è precipitata dopo la morte dell’amatissimo nonno.
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Per non offenderla, misi il quaderno nello zaino, ma non avevo intenzione di usarlo, anche se qui, in effetti, il tempo si dilata e scrivere è un modo per occuparlo. Questa prima settimana di esilio è stata lunga per me. Mi trovo su un’isoletta quasi invisibile sulla carta geografica, calata in pieno Medioevo. Mi risulta complicato scrivere della mia vita, perché non distinguo tra i ricordi e ciò che è frutto della mia immaginazione; la pura verità può risultare tediosa e per questa ragione, senza rendermene conto, la modifico o la enfatizzo, anche se mi sono riproposta di correggere questo difetto e di mentire il meno possibile in futuro. Ed è così che ora, quando perfino gli yanomamis dell’Amazzonia usano i computer, mi ritrovo a scrivere a mano. Procedo lentamente e la mia grafia sembra cirillico, visto che nemmeno io riesco a decifrarla, ma immagino che pagina dopo pagina inizierà a migliorare. Scrivere è come andare in bicicletta: non lo dimentichi, per quanto passino anni senza fare pratica. Cerco di procedere in ordine cronologico, dato che un qualche ordine ci deve essere, e ho pensato che seguire questo mi sarebbe risultato facile, ma perdo il filo, divago o mi ricordo di qualcosa di importante diverse pagine più avanti e non c’è più modo di inserirlo. La mia memoria si muove tra cerchi, spirali e acrobazie da trapezista.
Sono Maya Vidal, diciannove anni, sesso femminile, nubile, senza un innamorato per mancanza di opportunità e non perché sia schizzinosa, nata a Berkeley, California, passaporto americano, temporaneamente rifugiata in un’isola nel Sud del mondo. Mi hanno chiamato Maya perché la mia Nini ha una passione per l’India e perché ai miei genitori non è venuto in mente un altro nome, pur avendo avuto nove mesi di tempo per pensarci. In indi maya significa “incantesimo, illusione, sogno”. Niente a che vedere col mio carattere. Attila mi starebbe meglio, perché dove passo lascio solo terra bruciata. La mia storia inizia in Cile con mia nonna, la mia Nini, molto prima che nascessi, perché se lei non fosse emigrata all’estero, non si sarebbe innamorata del mio Popo né si sarebbe stabilita in California, mio padre non avrebbe conosciuto mia madre e io non sarei io, bensì una ragazza cilena molto diversa. Come sono? Un metro e ottanta, cinquantotto chili quando gioco a calcio e parecchi di più se mi distraggo, gambe muscolose, mani impacciate, occhi azzurri o grigi, secondo l’ora del giorno, probabilmente bionda, ma non ne sono certa visto che da parecchi anni non vedo il colore naturale dei miei capelli. Non ho ereditato l’aspetto esotico di mia nonna, con la sua pelle olivastra e quelle occhiaie scure che le danno un’aria dissoluta, e nemmeno quello di mio padre, elegante come un torero e altrettanto vanitoso; non assomiglio nemmeno a mio nonno – il mio magnifico Popo – perché sfortunatamente non è il mio progenitore biologico ma solo il secondo marito della mia Nini.
Assomiglio a mia madre, almeno per corporatura e colori. Non era una principessa della Lapponia, come credevo prima di avere l’uso della ragione, ma una hostess danese della quale mio padre, pilota, s’innamorò in aria. Lui era troppo giovane per sposarsi, ma si mise in testa che quella era la donna della sua vita e la inseguì con ostinazione finché lei non cedette per stanchezza. O forse perché era incinta. Il fatto è che si sposarono e se ne pentirono dopo meno di una settimana, ma rimasero insieme fino alla mia nascita. Qualche giorno dopo, mentre suo marito era in volo, mia madre fece le valigie, mi avvolse in una copertina e prese un taxi per andare a far visita ai suoceri. La mia Nini era in giro per San Francisco a manifestare contro la Guerra del Golfo, ma il mio Popo era a casa e prese il fagotto che lei gli allungò senza dargli molte spiegazioni, prima di salire di corsa sul taxi che la stava aspettando. La nipotina era così leggera che stava in una sola mano del nonno. Poco dopo la danese spedì per posta i documenti del divorzio e già che c’era la rinuncia all’affidamento della figlia. Mia madre si chiama Marta Otter e l’ho conosciuta l’estate dei miei otto anni, quando i nonni mi portarono in Danimarca.
Sono in Cile, il paese di mia nonna Nidia Vidal, dove l’oceano si mangia la terra a morsi e il continente sudamericano si sgrana in isole. Per essere precisi, mi trovo a Chiloé, nella regione di Los Lagos, tra il parallelo 41 e il 43, latitudine Sud, un arcipelago di circa novemila chilometri quadrati di superficie e più o meno duecentomila abitanti, tutti più bassi di me. In mapudungun, la lingua degli indigeni della regione, Chiloé significa terra dei cahuiles, i gabbiani dalla voce stridula e dalla testa nera, ma si sarebbe dovuta chiamare terra del legno e delle patate. Oltre a Isla Grande, dove si trovano le città più popolose, ci sono molte piccole isole, parecchie delle quali disabitate. Alcune formano piccoli gruppi di tre o quattro e sono così vicine le une alle altre che con la bassa marea sono collegate tra loro via terra, ma non ho avuto la fortuna di finire in una di queste: vivo a quarantacinque minuti di lancia a motore, con mare calmo, dal paese più vicino.
Il mio viaggio dal Nord della California fino a Chiloé è iniziato sulla nobile Volkswagen gialla di mia nonna, che dal 1999 ha avuto diciassette incidenti ma corre come una Ferrari. Sono partita in pieno inverno, in uno di quei giorni di vento e pioggia in cui la baia di San Francisco perde i colori e il paesaggio sembra disegnato col pennino, bianco, nero, grigio. La nonna guidava con il suo stile, a singhiozzi, aggrappata al volante come a un salvagente, con gli occhi inchiodati su di me più che sulla strada, intenta a darmi le ultime istruzioni. Non mi aveva ancora spiegato esattamente dove mi stava mandando; Cile era stata l’unica parola che aveva detto quando aveva progettato il piano per farmi sparire. In macchina mi rivelò i particolari e mi consegnò una piccola guida turistica in edizione economica.
“Chiloé? Ma che posto è questo?” le domandai.
“Lì ci sono tutte le informazioni di cui hai bisogno” disse indicando il libro.
“Sembra piuttosto lontano…”
“Più ti allontani e meglio è. A Chiloé ho un buon amico, Manuel Arias, l’unica persona al mondo, oltre a Mike O’Kelly, a cui posso chiedere di tenerti nascosta per uno o due anni.”
“Uno o due anni? Ma sei impazzita, Nini?”
“Senti, ragazzina, ci sono momenti in cui non si ha il minimo controllo sulla propria vita, le cose succedono e basta. E questo è proprio uno di quei momenti” mi annunciò con il naso incollato al parabrezza, cercando di orientarsi, mentre procedevamo alla cieca nel groviglio di autostrade.
Arrivammo appena in tempo all’aeroporto e ci separammo senza troppe smancerie; l’ultima immagine che conservo di lei è la Volkswagen che si allontana a sobbalzi nella pioggia.
Viaggiai per diverse ore fino a Dallas, premuta tra il finestrino e una cicciona che sapeva di noccioline tostate e poi su un altro aereo, che mi avrebbe lasciato a Santiago dieci ore dopo, sveglia e affamata, in preda a ricordi, pensieri e immersa nella lettura del libro su Chiloé, che esaltava le bellezze del paesaggio, le chiese di legno e la vita rurale. Ne rimasi inorridita. Stava spuntando l’alba del 2 gennaio di questo 2009, con un cielo arancione sulle montagne violacee delle Ande, definitive, eterne, immense, quando la voce del pilota annunciò l’atterraggio. All’improvviso apparve una valle verde, file di alberi, campi seminati e in lontananza Santiago, dove erano nati mia nonna e mio padre e dove vive un pezzo misterioso della storia della mia famiglia.
So molto poco del passato di mia nonna, raramente ne ha accennato, come se la sua vita fosse iniziata solo quando conobbe il mio Popo. Nel 1974, in Cile, morì il suo primo marito, Felipe Vidal, qualche mese dopo il golpe militare che abbatté il governo socialista di Salvatore Allende e instaurò nel paese una dittatura. Rimasta vedova, decise che non voleva vivere sotto un regime oppressivo ed emigrò in Canada con il figlio Andrés, mio padre. Lui non ha potuto aggiungere molto a questo racconto, perché ricorda poco della sua infanzia, ma venera ancora suo padre, di cui sono sopravvissute solo tre fotografie. “Non torneremo mai, vero?” commentò Andrés sull’aereo che lo portava in Canada. Non era una domanda, ma un’accusa. Aveva nove anni, negli ultimi mesi era maturato all’improvviso e pretendeva spiegazioni, dato che si rendeva conto che sua madre stava cercando di proteggerlo con mezze verità e mezze bugie. Aveva accettato con forza d’animo la notizia dell’improvviso attacco di cuore di suo padre e il fatto che fosse stato sepolto senza che gli fosse concesso di vedere il corpo e di congedarsi da lui. Poco dopo si era ritrovato su un aereo diretto in Canada. “Certo che torneremo, Andrés” gli aveva assicurato sua madre, ma lui non le aveva creduto.
A Toronto erano stati accolti dai volontari del Comitato per i rifugiati, che li rifornirono di indumenti adeguati e li sistemarono in un appartamento ammobiliato, con i letti fatti e il frigorifero pieno. Per i primi tre giorni, finché durarono le provviste, madre e figlio rimasero rinchiusi, rabbrividendo per la solitudine, ma al quarto giorno apparve un’assistente sociale che parlava uno spagnolo discreto a informarli dei benefici e dei diritti di qualsiasi abitante del Canada. Prima di tutto ricevettero lezioni intensive di inglese e il bambino fu iscritto a scuola nella classe che gli corrispondeva; poi Nidia riuscì a ottenere un posto come autista per evitarsi l’umiliazione di ricevere l’elemosina dallo stato senza lavorare. Era l’impiego meno appropriato per la mia Nini, che se oggi guida in modo pessimo, allora era ancora peggio.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice di origine cilena rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Isabel Allende.
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