Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Quale verità di Anne Holt. Il volume è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto).
Quale verità: trama del libro
Stavano per festeggiare qualcosa. Lo champagne era appena stato stappato. I calici erano stati riempiti. Nessuno però ha fatto in tempo a portare il bicchiere alle labbra… Qualche giorno prima di Natale, in un elegante appartamento di Oslo, Hermann Stahlberg, patriarca di una famiglia di armatori, sua moglie e il figlio maggiore vengono freddati a colpi di pistola. Con loro uno sconosciuto la cui presenza sul posto pare inspiegabile. Le indagini si concentrano sui parenti degli Stahlberg, che di moventi per il delitto ne hanno fin troppi. Hanne Wilhelmsen, però, non è convinta che la strada più ovvia sia quella giusta. Decide di seguire l’istinto e una pista tutta sua. Come al solito, controcorrente.
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Quella bestia rognosa andava e veniva. Nessuno ricordava quando fosse apparsa per la prima volta. In un certo senso faceva parte del paesaggio: un elemento sgradevole e inevitabile, come lo sferragliare dei tram, le auto parcheggiate male e i marciapiedi ghiacciati e scivolosi su cui non era stata sparsa la ghiaietta. Bisognava prendere le dovute precauzioni. Serrare le porte delle cantine. Tenere il gatto in casa durante la notte. Fare in modo che i bidoni dell’immondizia nei cortili sul retro fossero accuratamente chiusi con il coperchio. C’era chi reclamava con l’ufficio d’igiene, quando per tre mattine consecutive gli avanzi di cibo e altra spazzatura giacevano sparsi a terra vicino alle rastrelliere per le biciclette. Raramente riceveva risposta, né era mai stato fatto nessun tentativo per catturare l’animale.
Se qualcuno si fosse chiesto come viveva davvero quel cane, si sarebbe reso conto che si spostava per il quartiere seguendo una specie di modello che non si atteneva a giorni fissi e per questo era difficile da ricostruire. Se fosse importato a qualcuno, si sarebbe capito che il cane era sempre nelle vicinanze e che solo sporadicamente si spingeva oltre quell’area di soltanto quindici, sedici isolati.
Campava cosí da quasi otto anni.
Conosceva il suo territorio ed evitava il piú possibile il contatto con altri animali. Quando s’imbatteva in cagnolini dai variopinti guinzagli di nylon, si teneva alla larga e ormai aveva capito da un pezzo che i gatti di razza e con un campanellino legato al collo rappresentavano una tentazione a cui era meglio resistere. Era un bastardo, un randagio che si muoveva in uno dei quartieri piú esclusivi della Oslo bene, e quindi sapeva agire con discrezione.
Il tempo mite che accompagnava ogni anno il periodo prenatalizio aveva lasciato il posto a un freddo pungente che aveva ricoperto l’asfalto di una patina di gelo. Nell’aria si percepiva l’arrivo della neve. Il cane raschiava con le unghie la superficie ghiacciata e arrancava in avanti, trascinando le zampe posteriori. Il bagliore proveniente da un lampione illuminò lo squarcio che aveva sulla coscia sinistra. La ferita violacea che spuntava tra la pelliccia sparuta era macchiata di pus giallo. Si era impigliato a un chiodo la sera prima mentre era a caccia di un posto dove dormire.
La palazzina si ergeva a una certa distanza dalla strada. Un sentiero lastricato divideva in due il giardino antistante. Protette da un telo, l’aiuola di fiori e l’erba vizza e bagnata erano recintate da una catena dipinta di nero, ad altezza ginocchio. Davanti, su entrambi i lati della struttura, c’era un abete decorato con luci e addobbi natalizi.
Quella era la seconda sera che il cane tentava di entrare nell’edificio. Di solito esisteva un modo per riuscirci. Il piú semplice era rappresentato dalle porte non chiuse a chiave. Un leggero salto, un colpo con la zampa sul saliscendi. Se la porta si apriva all’interno o all’esterno aveva di regola poca importanza: si trattava di una bazzecola. Però era raro trovarne una e lui era costretto a cercare un’alternativa: seminterrati con le finestre socchiuse, pertugi che si aprivano sotto le scale ormai marce delle cantine. Non si trovavano dappertutto e capitava che le fessure fossero state riparate, le botole chiuse con un lucchetto e i muri cementati di fresco. Inaccessibili e impenetrabili. Allora doveva proseguire. A volte impiegava ore per trovare un posto dove passare la notte.
In quella palazzina c’era una via d’accesso. La conosceva, era semplice, ma non ne doveva abusare. Non dormiva mai nello stesso luogo per piú di una notte. Durante il primo tentativo era arrivato qualcuno. Poteva succedere. In quel caso si allontanava sempre, velocemente. Trotterellava per due o tre isolati. Si acquattava sotto un cespuglio, dietro una rastrelliera per le biciclette, nascosto agli occhi di tutti coloro che non scrutavano attenti. Poi ci riprovava. Un buon varco valeva bene un paio di sforzi.
Nell’ultima ora il freddo si era fatto piú intenso. Ora nevicava per davvero: fiocchi leggeri e asciutti stavano imbiancando i marciapiedi. Il cane tremava, non mangiava da piú di ventiquattro ore.
Adesso la palazzina era avvolta nel silenzio.
Le luci lo attiravano e lo spaventavano allo stesso tempo.
Aumentavano la possibilità di essere visti. Erano minacciose, ma al contempo erano anche sinonimo di calore. Il sangue gli pulsava dolorosamente nella ferita infetta. Esitante, il cane si diresse verso la catena che delimitava il giardino. Con un gemito alzò la zampa posteriore. Il varco, che gli avrebbe permesso di raggiungere il ripostiglio dove c’era un vecchio sacco a pelo buttato in un angolo, si trovava sul retro dell’edificio, tra la scala che portava giú in cantina e due biciclette che non venivano mai usate.
La porta d’ingresso principale era socchiusa.
Porte del genere erano pericolose. Poteva rimanere bloccato dentro. La luce invitante che proveniva dall’interno lo attirò ineluttabilmente. I vani scala erano meglio delle cantine. Soprattutto quello all’ultimo piano, dove le persone salivano di rado e non abitava nessuno. Lí faceva caldo.
A testa bassa si avvicinò ai gradini in pietra. Rimase immobile con la zampa anteriore sollevata prima di entrare lentamente ed essere illuminato dal cono di luce. Nessun movimento da nessuna parte, nessun suono che potesse metterlo in allarme, soltanto il ronzio lontano, sicuro della città.
Era dentro.
C’era un’altra porta aperta.
Si sentiva odore di mangiare, il silenzio era totale.
Fiutò con intensità quel profumo di cibarie. Senza esitare oltre, penetrò zoppicando dentro l’appartamento, ma nell’ingresso si fermò di colpo. Ringhiando minaccioso, mostrò i denti all’uomo che giaceva a terra. Non accadde nulla. Il cane si avvicinò, piú incuriosito che timoroso. Con cautela puntò il muso verso quel corpo immobile. Si mise a leccare con circospezione il sangue che circondava la testa dell’uomo. La lingua prese a muoversi in modo sempre piú frenetico, ripulí prima il pavimento e poi la guancia del morto coperta da una massa rappresa, infine penetrò dentro il foro che si trovava all’altezza della tempia. Il cane affamato leccò tutto quello che riuscí a estrarre dal cranio prima di rendersi conto che non aveva bisogno di affannarsi tanto per procurarsi da mangiare.
Nell’appartamento c’erano altri tre cadaveri.
Simile a una frusta, la coda cominciò a dimenarsi dall’eccitazione.
– Non c’è niente da discutere. Nefis si prenderà la briga di imparare le nostre tradizioni.
Marry uscí sbattendo la porta.
– Uno, due, tre, quattro, – cominciò a contare Hanne Wilhelmsen. Aveva appena pronunciato la c di «cinque» quando Marry riapparve nella stanza.
– Se me ne fossi andata io a trascorrere il Natale da quei musulmani, avrei mangiato quello che mi mettevano nel piatto. Si tratta di pura e semplice educazione. E poi non è neanche religiosa. Me lo ha ripetuto un miliardo di volte. Qui in Norvegia alla vigilia di Natale si mangiano le costine di maiale. Fine della storia.
– Ma Marry, – tentò di replicare Hanne scoraggiata, – non possiamo cucinare quelle di agnello? Anche quelle sono tipiche del Natale. Cosí risolviamo il problema. In fondo il maiale l’abbiamo mangiato l’anno scorso.
– Il problema?
Un tempo Marry Samuelsen viveva ed era conosciuta come Marry la Zarra, la prostituta da marciapiede piú vecchia di Oslo. Hanne si era imbattuta in lei tre anni prima, nel corso delle indagini su un omicidio. All’epoca Marry stava per passare a miglior vita: colpa dell’abuso di droghe pesanti e del gelo, non solo climatico, che permeava la capitale norvegese. Adesso, in un appartamento di sette stanze in Kruses gate, fungeva da governante per Hanne e Nefis.
Con gesto deciso Marry si strofinò le mani artritiche sul grembiule.
– Il problema, mia cara Hanne Wilhelmsen, è che le uniche costine che sono mai riuscita a infilare nella mia bocca sdentata prima di incontrare te e Nefis, erano quelle fredde e insipide che mi venivano servite su un piatto di cartone nei locali dell’Esercito della salvezza.
– Lo so, Marry. Non possiamo preparare sia quelle di maiale sia quelle di agnello? Dio solo sa che i soldi non mancano di certo in questa casa.
Hanne aggiunse le ultime parole mentre lanciava uno sguardo sconsolato alla stanza. L’unico mobile proveniente dall’appartamento di Lille Tøyen, il quartiere popolare in cui aveva abitato per quindici anni, era un secrétaire antico che quasi spariva lí dove era stato messo: nell’angolo vicino alla porta che dava su una terrazza enorme.
– Il Natale non è materia di compromessi, – proclamò Marry in tono solenne. – Se tu ti fossi trovata a succhiare un pezzetto di pancetta affumicata cosí secca da non riuscire quasi a mandarla giú, capiresti che qui si tratta di coltivare i propri sogni. La vigilia di Natale con bicchieri di cristallo, posate in argento e l’albero tutto addobbato nell’angolo, le costolette di maiale grasse e sugose in tavola, con la cotenna cosí croccante che quasi la senti crepitare. Per tanti anni è stato questo il mio sogno. E cosí sarà. Potreste almeno mostrare un minimo di rispetto nei confronti di una vecchia malconcia che forse non vivrà ancora a lungo.
– Dacci un taglio, Marry. Sei in gambissima. E poi non sei neanche cosí decrepita.
Senza dire una parola, l’interpellata fece nuovamente dietrofront prima di marciare fuori dalla stanza trascinando con forza una gamba. Il suo zoppicare ritmico si diresse verso la cucina. Quando si erano trasferite lí, Hanne aveva misurato l’appartamento con i propri passi mentre pensava di non essere notata: sedici metri dal divano alla porta della cucina. Dalla sala da pranzo al bagno piú grande ce n’erano undici. Dalla camera da letto alla porta d’ingresso sei e mezzo. Quella casa pullulava di distanze.
Dopo essersi versata dell’altro caffè da un termos in acciaio, accese il televisore.
Per la prima volta in assoluto si era presa le ferie per tutto il Natale. Due settimane intere. Nefis e Marry avevano invitato una marea di gente al tradizionale brunch del 25 dicembre e ai diversi pranzi che si sarebbero susseguiti fino alla fine dell’anno, per non parlare della grande festa che avrebbero tenuto per Capodanno. Ma la vigilia di Natale l’avrebbero festeggiata soltanto loro tre. Credeva lei. Anche se non si poteva mai sapere.
Hanne Wilhelmsen era felice e al tempo stesso tremava al pensiero del Natale.
Alla televisione stavano trasmettendo una drammatizzazione della Natività. Stranamente Gesú bambino aveva gli occhi azzurri, mentre Maria sfoggiava un trucco pesante e labbra rosso sangue. Chiusi gli occhi, Hanne abbassò il volume.
Si sforzò di non pensare al padre, anche se negli ultimi tempi la sua mente si era spesso concentrata su di lui.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice norvegese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Anne Holt.
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