Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Quel che ora sappiamo di Catherine Dunne. Il romanzo è pubblicato in Italia da TEA con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Quel che ora sappiamo: trama del libro
Daniel Grant è un adolescente appassionato e di talento: la musica, il disegno, la fotografia, le uscite in barca a vela. Ha un amico del cuore, che per lui è come un fratello, e una famiglia allargata calorosa e avvolgente nella sua complessità. Non manca niente, e il futuro si preannuncia altrettanto generoso. Fino a una domenica di settembre e a un evento tragico che precipita Ella e Patrick, i suoi genitori, in una voragine di dubbi e sensi di colpa. Perché è accaduto? E loro, sempre così dediti e attenti, dov’erano? Quali segnali non hanno saputo o voluto cogliere? Scoprire la verità, per quanto dolorosa, è l’unico modo per dare un senso e prospettive dignitose a una vita che sembra aver perso ogni sapore, ogni colore. Perché “non c’è nulla di più potente della conoscenza”, anche quando rischia di annientarti. Comincia così una ricerca ostinata di tracce e responsabilità, fatta anche di brucianti attriti familiari, che illumina a poco a poco di una luce diversa volti, situazioni, dettagli appena intravisti e poi rimossi, ma restituisce al tempo stesso la certezza della gioia condivisa, dell’amore scambiato. E il finale, contrariamente a ogni aspettativa, è una festa, un commiato colmo di speranza…
Approfondimenti sul libro
Quel che ora sappiamo è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 2,49.
All’inizio ho pensato di non aver sentito bene. Il vento frustava le parole e le scaraventava fuori bordo, lontano dall’Aurora. «Cosa c’è?» ho gridato. «Non ti senti bene?»
Ci eravamo appena ingavonati, di quarantacinque gradi buoni. Gli spruzzi ci avevano infradiciato e sul ponte scintillavano piccole pozze d’acqua. Baluginavano piene del sole del tardo pomeriggio. Eravamo nel nostro elemento.
In momenti come quello ci scambiavamo sempre un sorriso, cazzavamo le vele e ci preparavamo a virare. Ella aveva imparato in fretta: affrontava il mare e il vento e la mia piccola barca come se ci fosse nata. Ero orgoglioso di lei, orgoglioso di essere il suo maestro. E mi piaceva il modo in cui la pungente eccitazione di quelle uscite non mancava di entusiasmarla. Almeno fino a quel momento.
Ha fatto per voltarmi le spalle, scostandosi dalla bocca ciocche di capelli bagnati. A un tratto mi sono accorto che le tremavano le dita, che era pallida nonostante il vento sferzante e la nostra frenetica attività sul ponte. Gli zigomi sembravano più sporgenti del solito, le lentiggini disseminate sul naso parevano scuri punti esclamativi, punti interrogativi sbigottiti.
Non sono riuscito a nascondere la preoccupazione. «Tesoro, ti sei fatta male?»
Lei ha scrollato la testa. «No. No, sto bene. Ma ho paura che sia successo qualcosa. Non so bene cosa, ma me lo sento.»
«Cosa potrebbe essere successo? In che senso?» Non sapevo come formulare la domanda.
Ho mantenuto la rotta meglio che potevo mentre aspettavo che rispondesse, che dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa. Ma lei ha alzato le mani, come se volesse difendersi dalla forza dei miei interrogativi inespressi. «Non lo so, Patrick. Non te lo so spiegare. Portami a casa e basta.»
Mia moglie è molto riflessiva. Capace, tranquillizzante: il tipo di persona che affronta bene le crisi, una persona che sono sempre stato felice di avere al mio fianco. Non l’avevo mai vista così. Non l’avevo mai vista sconvolta: una parola che mi è venuta in mente d’improvviso, inattesa come un’onda anomala dalla fiancata. Mi ha stupito perché non era da lei. Ho visto che si premeva le dita sulla bocca, cercando di nascondere una smorfia. Ho visto i suoi occhi riempirsi di lacrime. E l’ho vista voltarmi di nuovo le spalle: tutto in un attimo. Allora non ho avuto esitazioni, non più.
Ho tirato la cordicella del motore fuoribordo, che si è rianimato con un ruggito. «Prendi il timone» le ho detto. «Punta verso casa, al resto penso io.»
Lei ha annuito, era già lontana. In quell’istante ho sentito che mi sfuggiva, come se stesse cadendo e io non riuscissi ad afferrarla. Mi sono affrettato ad ammainare le vele, a legarle bene, e mi sono accertato che tutto fosse riposto al sicuro, sottochiave. Ho perfino richiuso lo zaino che poco prima avevamo abbandonato in cabina. Conteneva quello che avrebbe dovuto essere il nostro pranzo. Una baguette, del camembert e frutta, un paio di bottiglie di birra.
Qualche settimana dopo – o almeno credo – l’ho ritrovato nel baule dell’auto, insieme alle nostre cerate. C’era una puzza che non mi spiegavo. La frutta e il formaggio si erano fusi insieme ed erano marciti lentamente, corrodendo il tessuto dello zaino. Non l’ho nemmeno aperto, l’ho lanciato direttamente nel bidone, una stretta di dolore al petto.
Siamo arrivati al porto in meno di mezz’ora. Sul molo c’era Michael, pronto ad afferrare la fune. Quando ci ha visto, il suo sorriso sicuro si è spento in un’espressione incerta. Ha guardato prima l’uno e poi l’altra, ma non ha detto niente. Era chiaro che qualcosa non andava. Ormai tra noi due si era scatenata una tensione elettrica, una forza abbastanza potente da essere percepita all’esterno. Ho pensato che il minimo che potessi fare era dare una spiegazione.
«C’è qualcosa che non va, Michael. Ormeggiala tu, ti dispiace? Ci sentiamo dopo.»
Ella stava già correndo verso la macchina, alcuni metri avanti a me, strattonando impaziente la cerata, cercando di togliersela di dosso. Da quella distanza sembrava ancora più piccola, il giallo violento della giacca sottolineava la sua vulnerabilità. Michael ha annuito, non ha fatto domande e io sono scappato via.
«Ho freddo» ha detto, appena ho girato la chiave dell’accensione. Ha tirato la cintura e l’ha agganciata. Io non mi sono preoccupato di fare lo stesso. Lei mi fissava con occhi velati, di un azzurro intenso e lontano. Mi sono chiesto se riuscisse a vedermi. Ho acceso il riscaldamento.
«Puoi dirmi a cosa stai pensando?» le ho chiesto. Ho cercato di mantenere un tono di voce tranquillo, calmo. Ho capito che in quel momento dovevo essere io quello bravo ad affrontare le crisi.
«Pensando?» ha risposto voltandosi verso di me con il viso privo di espressione, come improvvisamente congelato. «No, no: non è un pensiero. È una sensazione.» Si è interrotta. Teneva le mani unite, strette strette. Per impedire il tremito? Era mia moglie, ma non la riconoscevo più.
«Quale sensazione?» Esitavo: una parte di me temeva che se avessi insistito sarebbe crollata. Aveva un’aria fragile, gli occhi si erano scuriti come acqua di mare.
Poi mi ha guardato, il suo sguardo non era più vuoto. Era di nuovo presente, e da un punto molto profondo, dentro di me, ho sentito levarsi un grato sospiro di sollievo.
«Paura» ha risposto. «Freddo e paura. Ecco cosa sento.»
Ho premuto più forte il piede sull’acceleratore. Domenica, ora di pranzo, canicola di settembre. Grazie a Dio in città non c’era traffico. Per una volta ho ignorato i limiti di velocità e ho infranto tutte le regole. Sentivo che da qualche parte, in un universo parallelo, si stavano dipanando eventi che si riavvolgevano alla velocità della luce. Sentivo crescere una forza che mi avrebbe privato del controllo sulla mia vita. Tutto ciò che potevo fare era cercare di anticiparla, di qualunque cosa si trattasse.
Per i quarantacinque minuti successivi, nessuno dei due ha aperto bocca.
Ella salta giù dalla macchina prima ancora che abbia spento il motore. Inciampa sul gradino del portico, ma non le dico di fare attenzione. Si muove con la rapidità di un’indemoniata. La seguo, cercando di starle dietro, e provo la stranissima sensazione di avere atteso questo momento, questo giorno. Ho l’impressione che sedici, quasi diciassette anni di perfetta felicità, senza incrinature, stiano cominciando a sfuggirmi. Avevano iniziato a dissolversi fin da prima: tra le braccia grigie e inquiete della baia. Non so come ho fatto a capirlo allora, ma l’ho capito, a un livello viscerale, animale, che non possiede linguaggio per descriverlo.
Lei spalanca la porta della cucina. «C’è nessuno?» grida. Fa sempre così, e il suo saluto ci attira verso di lei, grazie al calore e all’affetto della sua voce. Ma ora continua a girare, continua a chiamare, senza darci il tempo di raggiungerla.
«Tesoro, ci sei?» Il vuoto del soggiorno, della sala da pranzo, del salottino della TV sono l’unica risposta. C’è quell’aria immobile, intatta, lievemente interrogativa che circonda i luoghi in cui non entra nessuno da un bel po’.
Lei corre verso la parte posteriore della casa e sale le scale due gradini alla volta. Di nuovo noto la sua agilità, sorprendente per una donna di cinquant’anni. È sempre stata snella, ossatura sottile, andatura leggera. Mentre cerco di starle dietro, si acuisce la consapevolezza dei vent’anni che ci separano. Qualcosa, un’intuizione, mi dice di tenere a mente tutti i dettagli di questa giornata, perché più tardi ne avrò bisogno per comprendere ciò che sta per accadere. Avrò bisogno di ricordi per dare un senso a ciò che ancora non so.
Per esempio, noto che la carta da parati in cima alle scale ha una nuova scalfittura; che la pianta di papiro sul pianerottolo ha bisogno d’acqua; che gli asciugamani sono ben ripiegati sul corrimano. Noto tutto quanto. Voglio riempirmi la testa più che posso. Voglio imbottirla di dettagli irrilevanti il più in fretta possibile, per impedirle di lasciarsi catturare dai gelidi tentacoli di terrore che si allungano verso di me dalla sagoma concitata di mia moglie.
Apre la porta di una camera da letto: quella di Daniel. All’inizio, non riesco a distinguere ciò che vedo. La porta ruota verso sinistra e rivela l’interno, in penombra. Che strano, le tende sono ancora chiuse. È ora di pranzo e nostro figlio è uno che si alza presto. E poi è uscito prima di noi, stamattina, con lo zaino che dondolava sulla spalla mentre prendeva la bici per percorrere il breve tratto fino a casa di Edward. Un gran sorriso, uno sguardo all’indietro, un saluto con la mano; poi lo scricchiolio della ghiaia, ed era scomparso.
Ma ora, mentre guardiamo, nell’ombra iniziano a delinearsi delle forme. All’inizio non hanno contorni familiari: cerco di afferrarne il significato. Restiamo lì, in quello spazio senza tempo, finché cominciano a emergere le immagini, una dopo l’altra. La mia mente diventa una macchina fotografica, l’otturatore si apre e si chiude rapido, catturando le immagini che ho di fronte.
Cerco a tentoni l’interruttore sulla parete alla mia sinistra e la luce irrompe nella stanza. Restiamo lì, una madre, un padre, sbattiamo le palpebre in quel bagliore improvviso.
Non capiamo.
Il ragazzo è inspiegabilmente sospeso nell’aria. Ondeggia appena: il nostro ingresso precipitoso ha turbato quell’inquietante immobilità. Poi vedo: la botola aperta sul soffitto, che ci guarda. La fune, che cigola lievemente per il peso del ragazzo. Il cappio annodato con perizia. È questo che ricordo: è questo che rimarrà impresso per sempre sulla retina della mia mente.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice irlandese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Catherine Dunne.
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