Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Quota 1222 di Anne Holt. Il volume è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Quota 1222: trama del libro
Hanne Wilhelmsen ha lasciato la polizia ormai da tempo – da quando un proiettile le ha leso la spina dorsale, costringendola per sempre su una sedia a rotelle. Ora vive una vita ritirata, ai limiti della misantropia, da cui ha escluso vecchi amici ed ex colleghi. Ma la sua antica professione sembra perseguitarla. Isolata in un albergo d’alta quota insieme agli altri passeggeri di un treno che ha deragliato, Hanne suo malgrado si ritrova a indagare. Nell’hotel vengono infatti rinvenuti due sacerdoti uccisi. Prima uno poi l’altro. E tra gli ospiti si è scatenato il panico. Occorre quindi far presto, per evitare che l’assassino colpisca ancora.
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Io rimasi a lungo in silenzio. Ero convinta di essere uno dei pochi superstiti, e per giunta tenevo in grembo una neonata che non conoscevo affatto. La piccola era stata catapultata in avanti al momento dello scontro; dopo avermi sfiorato la spalla in volo, era andata a sbattere contro la parete di fronte alla mia sedia a rotelle e mi era finita tra le braccia con un leggero tonfo. Di riflesso avevo stretto a me quel fagotto che piangeva disperato. Quando avevo ripreso a respirare, alle narici mi era arrivato l’odore asciutto della neve.
La temperatura, abbassandosi di colpo, era passata dal caldo sgradevole e statico del convoglio a un gelo capace di causare ustioni da freddo. Il treno si era inclinato su un fianco. Non molto, ma abbastanza da provocarmi un forte dolore alla spalla. Seduta a sinistra dello scompartimento, ero l’unica passeggera costretta su una sedia a rotelle. Un muro biancastro premeva sui finestrini accanto a me. Mi resi conto che quelle enormi quantità di neve ci avevano salvato: senza, il treno si sarebbe capovolto.
Il freddo era lancinante. Non eravamo neanche a Hønefoss che io mi ero già tolta il maglione. Adesso ero bloccata lí dentro con indosso soltanto una maglietta mentre mi premevo sul petto una neonata e constatavo che stava nevicando dentro lo scompartimento. L’epidermide nuda delle braccia era già cosí intirizzita che, quando quei fiocchi azzurrognoli ci cadevano sopra volteggiando, rimanevano visibili per un gelido secondo prima di sciogliersi. Lungo l’intero lato destro della carrozza i finestrini erano stati schiacciati verso l’interno.
Nei pochi minuti trascorsi da quando ci eravamo fermati alla stazione di Finse per consentire ai viaggiatori di salire e scendere, il vento doveva essere aumentato di intensità. Erano scese soltanto due persone. In effetti avevo notato che erano state costrette a chinarsi in avanti per proteggersi dalle raffiche mentre arrancavano sul marciapiede, dirette verso l’albergo: ma non sembravano condizioni meteorologiche peggiori di quelle che ci si poteva aspettare in alta montagna. Adesso che mi trovavo lí seduta, con il maglione ben avvolto intorno alla piccola e incapace di allungarmi a prendere il piumino, temevo che il vento fosse cosí forte e la neve cosí fredda che in breve saremmo morti assiderati. Cercavo di proteggere la bambina con il corpo, stando il piú possibile curva su di lei. Ora che ci penso, non saprei dire quanto tempo rimasi in quella posizione senza avere contatti con nessuno, senza dire una parola, attorniata dalle grida degli altri passeggeri che, simili a brandelli di suoni, laceravano lo spettacolo compatto e spaventoso prodotto dalla bufera. Forse trascorsero dieci minuti. Probabilmente si trattò di una manciata di secondi.
– Sara!
Con espressione irata una donna squadrò prima me e poi la bimba, che dal maglioncino alle minuscole calzine era vestita completamente di rosa. Erano dello stesso colorito rosato anche le manine chiuse a pugno che io stringevo fra le mie, e il visetto rigato di lacrime disperate.
Il volto della madre era rosso. Una profonda ferita sulla fronte sanguinava copiosamente, ma questo non le impedí di strapparmi via la piccola. Il maglione cadde per terra. La donna avvolse la figlia in una coperta con movenze esperte e velocissime: di sicuro non era la sua primogenita. Dopo averle nascosto la testolina nel plaid ed essersi stretta al seno quel fagottino, si mise a urlare contro di me come in tono d’accusa: – Sono caduta! Risalivo la carrozza e sono caduta!
– Va tutto bene, – risposi lentamente, anche se mi sentivo le labbra cosí intirizzite che facevo fatica a parlare. – Per quanto posso giudicare, sua figlia è illesa.
– Sono caduta, – singhiozzava la madre. Cercò di colpirmi con un calcio che andò a vuoto. – Mi è caduta. Ho fatto cadere Sara!
Libera da quella bambina inopportuna, afferrai il maglione e lo indossai. Anche se stavo andando a Bergen, dove mi aspettavo di trovare una pioggia battente e una temperatura di due gradi sopra lo zero, mi ero portata dietro il piumino. Alla fine riuscii a staccarlo dal gancio da cui, miracolosamente, pendeva ancora. In mancanza di un berretto mi avvolsi la sciarpa intorno alla testa. Non avevo i guanti.
– Si rilassi, – le dissi mentre infilavo le dita su per le maniche del piumino. – Sara piange. Un buon segno, credo. Non si può dire altrettanto…
Con un cenno del capo le indicai la fronte. Non se ne accorse neppure. La piccola continuava a strillare e non si calmò neppure quando la madre tentò di metterla sotto la giacca di pelliccia troppo attillata. Il sangue le colava abbondante dalla ferita; avrei giurato che congelasse ancora prima di toccare il pavimento, che adesso era non solo in pendenza, ma anche scivoloso per via della neve e del sangue. Qualcuno aveva calpestato una confezione di succo d’arancia. La sottile lastra di ghiaccio gialla che copriva parte del pavimento spiccava come un enorme tuorlo d’uovo su tutto quel bianco.
Il corpo non riprese calore. Anzi. Era come se gli indumenti piú pesanti avessero peggiorato la situazione. A dire il vero il torpore stava lentamente svanendo, sostituito però da un intenso formicolio sulla pelle. Tremavo al punto di dover stringere i denti per non mordermi la lingua. Ciò che desideravo, piú di tutto, era girare la sedia a rotelle per riuscire a dare un volto a quelle grida, al pianto di una donna che doveva trovarsi dietro di me e alla miriade di parolacce e imprecazioni che provenivano da qualcuno che sembrava un adolescente con la voce in cambiamento. Avrei voluto scoprire quanti passeggeri erano morti, quanto erano gravi le lesioni subite dai sopravvissuti e se in qualche modo era possibile tappare la finestra per non fare entrare la bufera di neve, sempre piú intensa con il passare dei minuti.
Avrei voluto girarmi, ma non avevo il coraggio di estrarre le dita dalle maniche del piumino.
Avrei voluto vedere che ora fosse, ma l’idea di sentire quel gelo sulla pelle mi era insopportabile. Lo scorrere del tempo pareva indistinto e sfocato come i fiocchi che volteggiavano all’esterno della carrozza: un caos grigio illuminato a sprazzi dal bagliore azzurrognolo dei neon nello scompartimento, che ora si accendevano e spegnevano a intermittenza. Non riuscivo a capire come fosse possibile rimanere assiderati a quel modo. Doveva essere passato molto piú tempo da quando era avvenuto lo schianto e il freddo doveva essere molto piú intenso di quello che il macchinista aveva dichiarato attraverso gli altoparlanti mentre il treno si dirigeva verso Finse. Aveva avvisato i fumatori: fuori c’erano venti gradi sotto zero e scendere per godersi i due minuti a disposizione prima di ripartire non era un’idea brillante. Doveva essersi sbagliato, perché io so cosa vogliono dire venti gradi sotto zero, l’ho sperimentato tante volte, e non era certo quello il caso. Adesso la temperatura era micidiale. Le braccia si rifiutarono di obbedire quando mi decisi a controllare che ore fossero.
– Salve a tutti!
Un uomo aveva forzato le porte a vetri automatiche che separavano lo scompartimento dallo spazio dei ripiani portabagagli. Se ne stava a gambe larghe sul pavimento in pendenza con indosso una tuta da motoslitta, un enorme berretto di pelo con i paraorecchie e una maschera da sci gialla.
– Sono venuto a prendervi e portarvi in salvo, – ruggí con la cadenza dialettale tipica di quella zona. Si abbassò la maschera sul petto. – Mantenete la calma! L’albergo è qui vicino!
Che cosa potesse fare un uomo solo in quello scompartimento pieno di persone che piangevano e si lamentavano non mi era chiaro. Eppure la sua presenza sembrò sortire un effetto tranquillizzante su tutti i presenti. Persino la neonata smise di piangere. Il ragazzo che aveva continuato a imprecare senza tregua da quando era avvenuto lo scontro esclamò un ultimo:
– Cazzo, era ora che arrivasse qualcuno! Porca puttana!
Poi rimase in silenzio.
Forse mi ero assopita, o forse stavo davvero per morire assiderata; in ogni caso, il freddo non mi tormentava piú come prima. Avevo letto di situazioni analoghe. Anche se non potevo affermare di avvertire quel tepore piacevole e sonnacchioso che a quanto si dice preannuncia la morte per assideramento, almeno avevo smesso di battere i denti. Era come se il corpo avesse deciso di cambiare strategia. Non voleva piú combattere né tremare. Invece percepivo come un muscolo dopo l’altro si stesse lasciando andare e rilassando. Perlomeno nella parte del corpo dove ho ancora sensibilità.
Non so se mi fossi addormentata sul serio.
Eppure qualcosa sfugge alla mia memoria. Quell’uomo doveva aver aiutato parecchie persone prima che io sussultassi.
– Merda.
Era chino su di me. Il suo alito mi bruciava sulla guancia e credo di aver sorriso. Un attimo dopo mi si era accovacciato accanto per osservarmi le ginocchia. O i polpacci, a dire il vero, come avrei saputo di lí a poco.
– È paralizzata? È paralizzata alle gambe? Da prima, cioè?
Non avevo la forza di rispondere.
– Johan, – ruggí di colpo senza alzarsi. – Johan! Vieni qui!
Allora non era da solo. Sentii il ronzio di un motore attraverso la bufera di neve e con le folate di vento provenienti dall’esterno giunse anche un intenso odore di gas di scarico. Il rumore andava e veniva, diventava piú forte per poi sparire e ne dedussi che ci fossero molte motoslitte in azione. L’uomo che si chiamava Johan si inginocchiò. Quando vide ciò che gli indicava il compagno, si grattò la barba.
– Ha un bastoncino da sci conficcato nel polpaccio, – disse alla fine.
– Cosa?
– Un bastoncino da sci le ha trapassato un polpaccio.
Piegò la testa di lato con espressione affascinata.
– La rotella si è spezzata nell’impatto ed è rimasta impigliata nei pantaloni, ma il bastoncino…
La sua testa scomparve alla mia vista.
– Spunta di circa venti centimetri dall’altra parte, – esclamò. – Ha perso sangue. Parecchio, in effetti. Ha freddo? Intendo dire, piú freddo del… Sembra che il bastoncino si sia un po’ curvato, e questo significa che…
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice norvegese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Anne Holt.