Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Ragionevoli dubbi di Gianrico Carofiglio. Il romanzo è pubblicato in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Ragionevoli dubbi: trama del libro
“Oltre alle regole scritte, quelle del codice e delle sentenze che lo interpretano c’è una serie di regole non scritte. Queste ultime vengono rispettate con molta più attenzione e cautela. E fra queste ce n’è una che più o meno dice: un avvocato non difende un cliente buttando a mare un collega. Non si fa, e basta. Normalmente chi viola queste regole, in un modo o nell’altro, la paga. O perlomeno qualcuno cerca di fargliela pagare”. L’avvocato Guido Guerrieri deve correre questo rischio. C’è un uomo in carcere che si dichiara innocente, condannato in primo grado per traffico di droga. Le circostanze sono schiaccianti e lui stesso, in un primo momento, aveva confessato. Ma c’è però la possibilità che sia finito in una trappola orchestrata dall’avvocato di primo grado. Un maledetto imbroglio, dunque, che Guerrieri è restio a caricarsi, e non solo perché tutte le apparenze sono contro. Il detenuto non è una faccia nuova: ai tempi del movimento studentesco lo chiamavano Fabio Raybàn, picchiatore fascista ossessione dell’adolescenza di Guido. C’è anche una situazione personale ambigua che coinvolge l’avvocato: la fine forse di un amore, l’inizio pericolosissimo di un altro, e in ciascuno di questi incroci sembra materializzarsi lui, il detenuto che si proclama disperatamente innocente.
Approfondimenti sul libro
In ebook Ragionevoli dubbi (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro.
Quando Margherita disse che doveva parlarmi, pensai che aspettasse un bambino.
Era un tardo pomeriggio di settembre. Con tutta la luce drammatica dell’estate che finisce, che preannuncia la penombra e i misteri dell’autunno. Un buon momento per sapere che diventerai padre, pensai distintamente mentre ci sedevamo in terrazza, il sole basso alle nostre spalle.
«Ho avuto un’offerta per un nuovo lavoro. Un’offerta molto buona. Ma se l’accetto devo partire e stare fuori parecchi mesi. Forse un anno».
La guardai con l’espressione di chi non ha sentito bene, o non ha capito le parole. Cosa c’entrava questa offerta di lavoro con il bambino che avremmo avuto fra qualche mese? Non capivo e lei mi spiegò.
Una importante agenzia pubblicitaria americana – mi disse anche il nome, ma lo dimenticai subito o forse non lo ascoltai nemmeno – le aveva offerto di coordinare la campagna per il rilancio di una compagnia aerea. Disse un nome grossissimo. Disse che era una opportunità irripetibile.
Opportunità irripetibile. Lasciai che queste parole rimbalzassero nella mia testa, facendomi male come le pulsazioni sorde di una emicrania. D’un tratto mi parve che il senso di tutto ruotasse attorno a un punto invisibile, che non ero capace di scoprire o definire.
«Quando l’hai avuta, questa offerta?».
«A luglio. Prima c’erano stati dei contatti, ma l’offerta è stata formalizzata a luglio».
«Prima che partissimo per le vacanze» dissi, come se la cosa avesse importanza.
Ma forse ne aveva davvero.
Poi mi resi conto. Se me lo diceva a settembre, due mesi dopo aver ricevuto l’offerta, chissà quanto tempo dopo i contatti, voleva dire che aveva già deciso, o aveva addirittura già accettato.
«Hai già accettato».
«No. Prima dovevo dirtelo».
«Hai deciso».
Esitò brevemente – fu l’unico momento – e poi fece sì con la testa.
Pensavo stessi per dirmi che aspettavi un bambino. Pensavo che a quarantadue anni la mia vita insulsa all’improvviso, per magia, avrebbe trovato un senso e una ragione. Per questo bambino, o questa bambina cui avrei fatto in tempo a insegnare delle cose, prima di diventare vecchio.
Non dissi così. Mi tenni tutto dentro, come una cosa che ti vergogni anche solo di avere pensato. Perché ti vergogni della tua debolezza, della tua fragilità.
Invece le chiesi quando sarebbe partita e la mia faccia doveva essere assurdamente calma, perché lei mi guardò con uno stupore leggero e inquieto. Dalla strada venne il ringhio rabbioso e prolungato di un ciclomotore con la marmitta alterata, e io pensai che me lo sarei ricordato, quel rumore. Pensai che lo avrei risentito ogni volta che mi fosse tornata alla mente quella scena, inattesa e spietata.
Non lo sapeva, quando sarebbe partita. Dieci, quindici giorni. Entro la fine del mese, comunque, doveva essere a Milano, per la metà di ottobre a New York.
E quindi lo sapeva, quando doveva partire. Pensai.
Restammo in silenzio per due, tre minuti. O di più.
«Non vuoi sapere perché?».
Non lo volevo sapere il perché. O forse sì, ma dissi di no lo stesso. Non volevo che mi scaricasse addosso le sue ragioni – che sicuramente erano ottime ragioni – alleggerendosi il cuore, o l’anima o dovunque le nostre colpe si vanno a posare. Io mi tenevo la mia, di sofferenza, e lei si teneva la sua. Ci avrei pensato nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, a tormentarmi con quella domanda e con i ricordi e tutto il resto.
Ma per quel tiepido, spietato pomeriggio di settembre, bastava.
Mi alzai e dissi che tornavo a casa mia, o forse uscivo.
«Guido, non fare così. Dì qualcosa, ti prego».
Io però non dissi niente. Non lo sapevo, cosa dire.
«Non vado mica via per sempre. Se fai così mi fai sentire un verme».
Appena ebbe finito di dire quelle parole si pentì. Forse vide qualcosa nella mia faccia sperduta, o forse semplicemente capì che non era giusto. Probabilmente era inevitabile – di sicuro ci aveva pensato a lungo in tutte quelle settimane –, ma certo non era giusto.
Disse altre parole, con la voce incrinata. E però sembravano quello che erano. Scuse.
E mentre diceva queste parole io smisi di ascoltarla, tutta la scena prese la consistenza irreale di un negativo fotografico, e così rimase piantata nel mio ricordo.
Uno
Aspettavo che i giudici entrassero in aula e che il mio processo cominciasse, quando notai una ragazza seduta fra il pubblico. Orientale, ma con qualcosa di europeo nei tratti; bella, con l’espressione un po’ smarrita.
Mi domandai per chi fosse venuta e mi voltai a guardarla più di una volta, fingendo di aggirarmi attorno al mio banco.
Sembrava guardasse me, il che naturalmente non aveva senso. Una così non mi avrebbe mai guardato, neanche in tempi migliori, pensai. Peraltro, quali fossero stati i tempi migliori non lo sapevo bene, pensai ancora.
In questo modo passarono almeno dieci minuti. Poi finalmente i giudici uscirono dalla camera di consiglio, l’udienza cominciò e io smisi di fare riflessioni idiote.
Era un processo per rapina a mano armata e dovevamo sentire il teste principale, cioè la vittima. Un rappresentante di gioielli cui avevano tolto il campionario e anche l’inutile pistola che portava con sé.
Due dei responsabili erano stati arrestati poco dopo il fatto, con il bottino in macchina. Avevano scelto il giudizio abbreviato ed erano già stati condannati a pene abbastanza miti. Il mio cliente era accusato di avere fatto il palo. La vittima lo aveva riconosciuto in questura, su un album fotografico di pregiudicati. Il processo era in contumacia perché il mio cliente – il signor Albanese, calciatore dilettante e criminale professionista – quando aveva saputo che lo cercavano si era dato alla latitanza. Aveva appena finito di scontare una condanna e non voleva tornare dentro. In questo caso era innocente, diceva.
L’esame da parte del pubblico ministero fu piuttosto rapido. Il rappresentante di gioielli aveva l’aria decisa e non sembrava intimorito dalla situazione. Confermò tutto quello che aveva già detto durante le indagini, confermò il riconoscimento fotografico, la fotografia fu acquisita al fascicolo del dibattimento e il presidente mi diede la parola per procedere al controesame.
«Lei ha riferito che gli autori della rapina erano tre. Due le tolsero materialmente il campionario e la pistola, il terzo si teneva a distanza e le parve facesse il palo. Giusto?».
«Sì. Il terzo era all’angolo, ma poi se ne sono andati tutti e tre insieme».
«Può confermarci che il terzo, quello che poi lei ha riconosciuto in fotografia, era a una ventina di metri di distanza?».
«Quindici, venti metri».
«Bene. Adesso vorrei che ci raccontasse brevemente come si svolse la ricognizione fotografica che lei ha fatto in questura, il giorno dopo la rapina».
«Mi diedero da guardare degli album e su uno di questi c’era la foto di questa persona».
«Lo aveva mai visto prima? Voglio dire prima della rapina?».
«No. Ma quando ho visto la sua faccia sull’album mi sono detto subito: io questo lo conosco. E poi mi sono reso conto che era quello che faceva il palo».
«Lei gioca a calcio?».
«Scusi?».
«Le chiedevo se lei gioca a calcio».
Il presidente mi chiese che pertinenza avesse quella domanda con l’oggetto del processo. Io assicurai che sarebbe stato chiaro nel giro di un paio di minuti e lui mi disse di andare avanti.
«Gioca a calcio? Partecipa a qualche campionato, a qualche torneo?».
Quello disse di sì. Io tirai fuori dal mio fascicolo una foto con due squadre di calcio, di quelle che si fanno prima delle partite. Chiesi al presidente il permesso di avvicinarmi e la mostrai al testimone.
«Riconosce qualcuno in questa fotografia?».
«Certo. Ci sono io, gli altri della mia squadra…».
«Può dirci quando è stata scattata?».
«L’estate scorsa, era la finale di un torneo».
«Ricorda la data?».
«Credo fosse il venti, o il ventuno agosto».
«Circa un mese prima della rapina».
«Mi pare, sì».
«Quelli dell’altra squadra li conosceva?».
«Qualcuno, non tutti».
«Vuole guardare di nuovo la foto e dirmi per piacere chi riconosce, dell’altra squadra?».
Quello prese la foto e la esaminò, scorrendo con l’indice le facce dei calciatori.
«Questo lo conosco, ma non so come si chiama. Quest’altro mi sembra si chiami Pasquale… non mi ricordo il cognome. Questo…».
Fece una strana espressione. Si girò verso di me, con una faccia stupita, poi tornò a guardare la foto.
«Ha riconosciuto qualcun altro?».
«Questo… assomiglia…».
«A chi assomiglia?».
«Assomiglia un poco a quella fotografia…».
«Vuol dire a quello che lei ha riconosciuto nell’album della questura?».
«Un poco si assomiglia. Ora non è facile…».
«Effettivamente è la stessa persona. Lo ricorda adesso?».
«Sì, potrebbe essere lui».
«Adesso che si è ricordato, può affermare che la persona che giocò a pallone contro la sua squadra quella sera di agosto era la stessa che partecipò alla rapina?».
«… adesso non so… è difficile dopo tanto tempo».
«Certo, mi rendo conto. Le faccio una domanda un po’ diversa. Quando lei subì la rapina e vide, a venti metri di distanza, il terzo complice, si rese conto che poteva trattarsi della stessa persona con cui giocò a pallone circa un mese prima?».
«No, come facevo… era lontano…».
«Era lontano, giusto. Io ho finito presidente, grazie».
Il presidente dettò a verbale la data del rinvio e mentre diceva all’ufficiale giudiziario di chiamare un altro processo io mi voltai per cercare la ragazza orientale. Ci misi qualche secondo, perché non era più seduta al suo posto, quello dove l’avevo vista all’inizio dell’udienza. Stava in piedi, vicinissima all’uscita, pronta ad andarsene.
I nostri sguardi si incrociarono per pochi istanti. Poi lei si girò e scomparve nei corridoi del tribunale.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Gianrico Carofiglio.