Il giornalista e scrittore piemontese Giampaolo Pansa torna in libreria con La repubblichina – Memorie di una ragazza fascista, romanzo ambientato durante la guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 (sino al capitolo sanguinoso della liberazione). Vediamo la descrizione ufficiale del libro edito da Rizzoli e le prime pagine del volume.
Contenuti
Scheda di La repubblichina
Edito da Rizzoli nel 2018 • Pagine: 240 • Compra su Amazon
"L'ho vista anch'io una rapatura delle donne fasciste, catturate nei giorni conclusivi della guerra civile. Era la fine di aprile del 1945 e andavo per i dieci anni. Oggi sono un vecchio signore curioso, ma già allora ero un ragazzino che si sentiva padrone della sua piccola città. Nell'attesa che riaprissero le scuole elementari, dove frequentavo la quinta poiché ero avanti di un anno, trascorrevo il tempo libero nella modisteria di mia madre Giovanna e nelle strade del centro. Conclusa la guerra e finiti i bombardamenti degli Alleati, non esistevano altri pericoli in città. In questo modo mi sono trovato di fronte a vicende che non pensavo di scoprire. Una fu la tosatura delle prigioniere repubblichine, avvenuta non in piazza del Cavallo come racconto in questo libro, bensì in una piazza secondaria, davanti a una caserma in sfacelo, diventata un rifugio di senzatetto e di prostitute malandate. Tra le donne sottoposte a quel supplizio, una era molto giovane e bella. La sua figura è sempre rimasta nella mia memoria, tanto da ispirarmi il personaggio centrale di questo libro: Teresa Bianchi, detta Tere. Una maestra elementare sui vent'anni, tanto appassionata della propria missione da prendere la tessera del Partito fascista repubblicano pur di insegnare in una scuola della città. Di solito i miei libri sulla guerra civile e sul dopoguerra sporco di sangue non hanno per protagonisti dei fascisti repubblichini se non come vittime delle vendette partigiane. Un revisionismo a senso unico ha fatto sparire i tanti italiani, civili e militari, rimasti fedeli a Benito Mussolini. Eppure furono soprattutto loro a sopportare gli eventi più angosciosi dell'ultima fase della guerra nel nostro Paese. Come le stragi provocate dagli aerei da bombardamento americani, spesso imprecisi e affidati a piloti che volevano liberarsi del loro carico micidiale e ritornare al sicuro nelle basi di partenza. Oppure come l'inferno delle violenze compiute dai marocchini in Ciociaria, con migliaia di donne stuprate sotto lo sguardo indifferente dei generali francesi, primo fra tutti Charles De Gaulle. La mia Tere affronta con fermezza e coraggio il furore dell'ultimo atto della guerra mondiale in casa nostra e il caos del dopoguerra. Di certo è una repubblichina, ma soprattutto un'italiana con una qualità che ho ritrovato in tutte le donne incontrate nella mia vita: la pazienza generosa." La vicenda narrata in questo libro è immersa in una storia assai più grande: la guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945.... → CONTINUA SU AMAZON
L’inizio del libro
È stata la pipì ad avvisarmi che era tutto vero e non si trattava soltanto di un incubo. Di solito non mi scappava mai, il mio sistema idraulico, lo chiamerò così, era robusto e molto giovane. Del resto, avevo appena ventuno anni e mi ero sempre curata di fare molta attività fisica. Ma alla fine di aprile del 1945 non fui capace di trattenerla, la maledetta pipì. Mi inondò le mutandine e poi iniziò a scendere lungo le gambe. E quella sensazione calda, di bagnato che mi sporcava, è rimasta incancellabile per un tempo infinito.
Della faccenda si accorse subito il partigiano incaricato di raparmi. Ringhiò: «Vedo che hai paura, troia fascista. Te la sei fatta addosso, come se tu fossi una vecchia puttana rimasta al servizio di Mussolini. Ma non devi temere nulla. Non ci metterò molto a tagliarti i capelli. E poi, vedo che li hai corti. Invece le altre fasciste sul palco insieme a te hanno delle capigliature da dive del cinema. Con loro l’affare sarà più complicato e mi prenderò delle belle soddisfazioni!».
Fu allora che mi resi conto di stare in piazza del Cavallo, nel centro della mia città, Casale Monferrato. Insieme ad altre sette donne, mi avevano spinta su una specie di palcoscenico costruito alla buona: quattro assi di legno e quattro cavalletti che reggevano a fatica i nostri corpi. E la folla raccolta intorno era lì per godersi lo spettacolo della nostra punizione.
Un pensiero mi colpì. Duro come uno schiaffo in piena faccia. Quante madri e quanti padri dei miei alunni mi stavano guardando? Come avrei potuto tornare a scuola e riprendere a insegnare dopo quello che mi stavano facendo? E così, mentre ai miei piedi si era formata una piccola pozzanghera di pipì, anche i miei occhi si inondarono di lacrime.
Era il 2 maggio 1945, il fascismo repubblicano aveva perso la guerra, Mussolini era stato assassinato, in compagnia della sua morosa, la Claretta Petacci. I gerarchi più importanti, a cominciare dal segretario del partito, Alessandro Pavolini, li avevano fucilati tutti insieme nei dintorni di Como. Adesso era venuto il momento di rifarsi sui repubblichini senza importanza e soprattutto sulle repubblichine come la sottoscritta.
Il partigiano che doveva raparmi fu di parola e non ci mise molto. Lavorava con un rasoio vecchio come il cucco e con una macchinetta per tosare le pecore. Non era di certo un barbiere professionale. Mi procurò sulla nuca qualche ferita che iniziò a sanguinare. Fu il sangue, insieme alle lacrime e alla pipì, a obbligarmi ad aprire gli occhi. La tosatura era la mia punizione. E questo solo fatto doveva consolarmi. Parecchi dei miei camerati li avevano condotti sulla riva del Po rinchiusi in gabbioni di legno. E lì erano stati uccisi uno dopo l’altro con colpi di rivoltella alla nuca. Dunque potevo ritenermi fortunata.
Mentre vedevo cadere sulle assi sconnesse del palco le ciocche dei miei capelli, mi domandai: «Perché sono qui? Che cosa ho fatto per meritarmi questa punizione e le urla rabbiose della gente che gode nell’assistere al nostro supplizio?». In fondo, ero soltanto una maestra elementare, con l’unica colpa di aver preso la tessera del Partito fascista repubblicano, un obbligo per poter avere una supplenza in qualche scuola di periferia e iniziare a insegnare.
Io, Teresa Bianchi, detta Tere, classe 1924, una ragazza di appena ventuno anni, non avevo mai combattuto per la Repubblica sociale. Mi ero limitata a fare il mio dovere di maestra elementare. E quando il nuovo regime di Mussolini stava per crollare sotto l’avanzata degli americani e degli inglesi, avevo deciso di nascondermi. Dunque non avrei dovuto essere messa in prigione e poi su quel palco. Ma adesso c’ero e non potevo sfuggire al castigo deciso dai vincitori.
Prima di venire rapata, mi era rimasto il tempo di dare un’occhiata alla folla che circondava l’impalcatura del nostro supplizio. E riconobbi qualcuno dei tanti che inveivano contro di noi. In gran parte erano maschi non più giovanissimi, quarantenni o cinquantenni. Vidi un giocatore professionale di bocce che frequentava il dopolavoro dell’Eternit ed era sempre stato un fascista convinto. Accanto a lui stava un portalettere delle Poste centrali, un altro tifoso di Mussolini. Infine una sarta al di là dei quaranta, con la fama di essere una lesbica senza pudore. Aveva tentato di mettere le mani addosso anche a me. Spasimava di avermi nel suo letto. Una volta mi aveva fermata proprio in piazza del Cavallo. Per dirmi, senza ritegno: «Tere, bella gioia, perché non provi il piacere di coricarti con un’altra femmina?».
Nel frattempo, il partigiano tosatore concluse il suo lavoro, tra le urla di giubilo di chi apprezzava lo spettacolo. Chiesi a me stessa come mi sentivo. Ma a parte la pipì e il bruciore delle ferite sulla testa, non sentivo niente. Non provavo paura perché sapevo di non aver fatto nulla che comportasse la pena di morte. Anzi, mi scoprivo calma e pensavo: «Prima o poi i tuoi capelli cresceranno di nuovo e sarai la bella ragazza di sempre». Uno dei vantaggi di avere ventuno anni è proprio questo.
Finalmente lo spettacolo terminò. E noi, donnacce del fascio, ci riportarono al carcere di via Leardi. Era una prigione che dall’esterno conoscevo bene. Durante l’anno scolastico, ci passavo di fronte tutte le mattine quando a piedi raggiungevo l’istituto delle magistrali, che stava in piazza Battisti. E non mi ero mai domandata come fosse all’interno, nello spazio riservato ai detenuti. In città esisteva un altro carcere, il Solaro, vicino al Po. Il Leardi era destinato a chi era in attesa di essere processato. L’altro a chi era già stato condannato.
Perché mi trovavo rinchiusa in cella? Me lo domandavo fin dal primo momento, poiché io ero stata soltanto una spettatrice della guerra civile. Invece, verso la fine di quel conflitto orrendo, ero stata indicata alla polizia partigiana di Milano, dove mi trovavo per motivi privati, come una terrorista nera. Era un’accusa falsa, e più avanti lo dimostrerò. Chi mi aveva denunciata era un comunista della mia città. Di lui sapevo soltanto questo. Però mi ero ripromessa di scoprire il suo nome, non appena la guerra tra italiani si fosse conclusa per davvero.
Eppure questa accusa infondata mi aveva fatto trasferire da Milano a Casale, nella prigione di via Leardi. Quella era la mia residenza e lì dovevo essere condotta. C’ero arrivata il pomeriggio del 29 aprile, dopo un viaggio durato ore tra uno scenario di rovine. Strade sconvolte e quasi impercorribili. Macerie dovunque. Il ponte pedonale sul Po ridotto a un moncherino dai tanti bombardamenti aerei americani. Uno spettacolo deprimente. Infine la mia città, che mi appariva in miseria.
Il carcere di via Leardi era stracolmo di fascisti detenuti, in gran parte maschi. Tuttavia le femmine non erano poche. Una sezione, di appena tre celle, risultava zeppa di donne di ogni età. Si andava dalle sessantenni alle ventenni come me. La sporcizia dominava. Esisteva una sola doccia riservata a noi femmine e spesso non funzionava oppure distribuiva soltanto acqua fredda. Dormivamo in sei per ogni cella, su letti a castello con materassi consumati e ridotti a pagliericci unti e bisunti. Le liti erano continue. E non c’era nessuna solidarietà politica.
Eppure eravamo tutte fasciste. E quasi tutte appartenute a qualche formazione militare della Repubblica sociale. Io ero l’unica a non aver mai abbandonato una divisa. Per questo motivo venni subito odiata dalle altre donne incarcerate. Non mi credevano quando spiegavo di essere una maestra elementare. Mi davano della bugiarda. Dicevano: «Non puoi essere soltanto un’insegnante. Forse era una copertura per qualche ruolo nascosto nei servizi segreti del fascio repubblicano».
Poi la tosatura in piazza del Cavallo ci rese più solidali. Il ritorno nelle celle abolì ogni differenza tra di noi. Compresi sino in fondo che la guerra civile era stata una trappola per le nostre esistenze così diverse. Si andava dalla vedova di un ufficiale delle Brigate nere ucciso dai partigiani a una maliarda che era stata l’amante di un maggiore tedesco, alla redattrice del settimanale repubblicano della città. Infine a una quarantenne che aveva fatto il doppio gioco a vantaggio del fascio e si era infilata nel letto di qualche comandante partigiano troppo incauto.
Giampaolo Pansa
Giampaolo Pansa (1 ottobre 1935) è un giornalista, scrittore e saggista italiano. Nativo di Casale Monferrato, dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato con lode in Scienze Politiche presso l’Università di Torino con una tesi intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po. Il lavoro gli valse il «premio Einaudi» (la tesi fu poi pubblicata da Laterza nel 1967). Durante gli anni universitari, Pansa fu anche allievo di Alessandro Galante Garrone, professore ordinario di Storia Moderna e Contemporanea, il quale lo indirizzò per primo verso gli studi storici sulla Seconda guerra mondiale e sulla Resistenza italiana.