Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il ricatto di Anne Holt. Il volume è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 21,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il ricatto: trama del libro
Sigurd Halvorsrud è uno stimato procuratore del Regno di Norvegia. Tanto la sua carriera quanto la sua vita privata paiono immacolati. Eppure, quando la moglie Doris Flo viene uccisa in casa sua, con un colpo di spada che le mozza la testa, gli indizi sono tutti contro di lui. Una cosa però manca, una sola ma importante: il movente. E l’ispettore capo Hanne Wilhelmsen non ha intenzione di rassegnarsi ad accettare una soluzione del caso comoda ma incompleta. Ne nasce un’indagine contro tutti e tutto, contro la falsa evidenza, contro gli stereotipi, perfino contro certi colleghi e certe regole; un’indagine che pone una sfida impossibile dopo l’altra, dal dimostrare che un suicida è vivo all’individuare i membri anche illustri di una rete di pedofili. La battaglia è ardua, ma stavolta Hanne non deve combattere solo in nome della giustizia e della legalità. Cecilie, la sua compagna, è malata, e la paura del futuro mette in dubbio il passato e in crisi il presente. Dopo decenni in cui il lavoro le ha tolto il sonno e ore preziose da dedicare a chi ama, ha ancora senso essere una poliziotta? E la caccia al movente dell’omicidio e all’assassino diventa specchio di un’altra caccia: quella, dolorosa e infinita, a chi siamo davvero.
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La consapevolezza che la sua vita si sarebbe conclusa di lí a pochi secondi lo spinse finalmente a chiudere gli occhi al contatto con l’acqua salata. Quando si era gettato dal ponte aveva provato un brivido di paura, eppure all’impatto col fiordo, dopo il salto nel vuoto, non aveva avvertito dolore. Probabilmente gli si erano spezzate entrambe le braccia. Le mani avevano un’angolazione innaturale e apparivano grigiastre. Istintivamente fu tentato di dare qualche bracciata, ma non serví a nulla, tanto era forte la corrente. Eppure non soffriva. Anzi. L’acqua lo avvolgeva in un caldo abbraccio che lo stupiva. Poi si sentí risucchiare verso il fondo e provò una specie di stordimento.
Il parka che aveva addosso gli si gonfiò attorno al corpo, un palloncino scuro e floscio che aveva per sfondo un mare ancora piú tetro. La testa galleggiava come una boa in balia delle onde, le forze lo avevano ormai abbandonato.
L’ultima cosa che l’uomo notò prima di perdere conoscenza fu che riusciva a respirare sott’acqua. Era una sensazione nient’affatto spiacevole.
2.
La donna riversa sul pavimento fino a poco tempo prima era stata biondo cenere, ma ora lo si poteva solo intuire. La testa era stata staccata di netto dal corpo e i capelli, lunghi fino alle spalle, si erano attorcigliati intorno ai tendini recisi del collo. Inoltre le era stato fracassato l’occipite. Gli occhi vitrei, spalancati, sembravano fissare esterrefatti l’ispettore capo di polizia Hanne Wilhelmsen come si fissa un’ospite del tutto inattesa.
Il camino era ancora acceso. Fiamme basse lambivano la parete retrostante, nera di fuliggine, e la loro luce fioca illuminava solo una parte della stanza. Vista l’assenza di corrente, e visto che il buio della notte premeva contro le finestre come uno spettatore curioso, Hanne Wilhelmsen pensò fosse meglio aggiungere dei ceppi nel camino. Poi, però, cambiò idea e accese una torcia. Col fascio di luce esplorò il cadavere. La testa era staccata dal resto del corpo, ma la distanza era cosí poca che la donna doveva essere stata decapitata mentre giaceva a terra.
– Peccato per la pelle di orso bianco, – mormorò l’agente scelto Erik Henriksen.
Hanne Wilhelmsen roteò la torcia e illuminò la stanza. Era grande, piú o meno quadrata e zeppa di mobili. Era evidente che il procuratore e sua moglie amavano gli oggetti d’antiquariato, ma non si poteva certo dire che avessero anche il senso della misura. Nella semioscurità la poliziotta riuscí a distinguere alcune ciotole di legno dipinte con i motivi a rose tipici della regione del Telemark e cineserie bianche e azzurro pallido. Sopra il camino era invece appeso un moschetto. Probabilmente risaliva al XVI secolo, pensò Hanne, e a stento si trattenne dal toccare un’arma cosí bella.
Sopra il moschetto, nel muro, erano infissi due ganci in ferro battuto finemente lavorati, a cui quasi certamente era stata appesa la spada da samurai che ora giaceva a terra a fianco di Doris Flo Halvorsrud. La vittima, madre di tre figli, non avrebbe mai festeggiato il suo quarantacinquesimo compleanno di lí a tre mesi. Hanne proseguí le ricerche frugando nel portafoglio che aveva trovato in una borsa in corridoio. Gli occhi che una volta avevano fissato lo schermo all’interno di una cabina per fototessere avevano lo stesso sguardo attonito della testa decapitata a fianco del camino.
In una custodia di plastica c’era la fotografia dei figli.
Hanne rabbrividí alla vista dei tre adolescenti che sorridevano da una barca a remi, tutti con indosso il giubbotto di salvataggio; il figlio maggiore agitava una bottiglietta di birra. I ragazzi si assomigliavano molto tra loro e avevano preso dalla madre. Quello con in mano la birra e la femmina avevano gli stessi capelli biondi di Doris Flo Halvorsrud, mentre il piú piccolo, uno skinhead coi brufoli e l’apparecchio ai denti, faceva con le dita magre il segno di vittoria sopra la testa di sua sorella.
Era una foto dalle vivaci tinte estive. I giubbotti di salvataggio arancioni spiccavano sulle spalle abbronzate, i costumi bagnati, rossi e blu, risaltavano sui sedili verdi della barca. Era un’immagine che catturava un momento di rara armonia tra i fratelli, il fotogramma di un istante quasi irripetibile della vita.
Nel rimettere a posto la fotografia, Hanne Wilhelmsen si rese conto che in casa non sembrava esserci nessun altro a parte Halvorsrud. Sovrappensiero, si carezzò con l’indice una vecchia cicatrice sul sopracciglio, chiuse il portafoglio e si guardò nuovamente intorno.
Nella stanza c’era una cucina in ciliegio ad angolo. Le finestre sul lato sud-ovest erano ampie e, grazie alle luci provenienti dalla collina di Ekeberg, Hanne riuscí a scorgere un’ampia terrazza. Da lí si vedeva il fiordo di Oslo, in cui si specchiava la luna piena che sfiorava le colline vicino a Bærum.
Il procuratore Sigurd Halvorsrud se ne stava seduto su uno sgabello di legno e piangeva col viso nascosto tra le mani. Hanne vedeva il bagliore delle fiamme del camino riflesso sulla fede che l’uomo portava all’anulare destro. La polo azzurra era schizzata di sangue. I capelli radi erano intrisi di sangue. I pantaloni grigi di lana con il risvolto e la piega erano imbrattati di sangue. Sangue. Dappertutto sangue.
– Non riuscirò mai ad abituarmi agli effetti devastanti prodotti da quattro litri di sangue, – mormorò Hanne girandosi verso Erik.
Il ragazzo dai capelli rossi non rispose e deglutí piú volte.
– Prendi delle caramelle al lampone, – gli suggerí Hanne. – Pensa a qualcosa di acido. Limoni, ribes…
– Non sono stato io!
Adesso Halvorsrud singhiozzava. Si tolse le mani dal viso perché gli mancava l’aria. Boccheggiò ed ebbe un violento accesso di tosse. Di fianco a lui c’era una giovane poliziotta in tuta che, non sapendo bene come comportarsi sulla scena di un delitto, si era messa sull’attenti come un soldato. Con fare esitante, e senza grande successo, diede un colpetto sulla schiena del procuratore.
– La cosa piú spaventosa è che sono rimasto lí senza far niente, – disse l’uomo tra i singhiozzi quando fu riuscito finalmente a riprendere fiato.
– In realtà ha fatto piú che abbastanza, – commentò a bassa voce Erik Henriksen, sputando rimasugli di tabacco mentre giocherellava con una sigaretta non accesa.
L’agente scelto si era allontanato dal cadavere della donna decapitata. Adesso se ne stava davanti alle finestre panoramiche con le mani intrecciate dietro la schiena, ondeggiando leggermente. Hanne Wilhelmsen gli appoggiò una mano tra le scapole. Il collega stava tremando. Impossibile che fosse per il freddo. Anche se mancava la corrente e il riscaldamento era spento, nella stanza dovevano esserci piú di venti gradi. L’aria era impregnata dell’odore acre e nauseabondo di sangue e urina. Se non fosse stato per la presenza degli uomini della Scientifica, arrivati dopo un ritardo intollerabile, Hanne avrebbe insistito per areare il locale.
– È un errore, Henriksen, – disse invece al collega. – È un errore trarre delle conclusioni quando non si sa ancora niente di preciso.
– Ma che sapere e sapere, – ribatté Erik piccato, gettandole un’occhiataccia. – Guarda là, cazzo!
Hanne Wilhelmsen si girò verso il cadavere. Poi appoggiò il mento sulla spalla del collega con un gesto confidenziale e protettivo al tempo stesso. In quella stanza faceva davvero un caldo insopportabile. Adesso c’era piú luce: gli uomini della Scientifica stavano ispezionando il locale metro per metro e non si erano ancora avvicinati al cadavere.
– Tutti quelli che non c’entrano escano di qua! – tuonò il piú anziano dei tecnici, indirizzando diverse volte il fascio di luce della torcia verso l’ingresso come per invitarli ad andarsene.
– Wilhelmsen! Porta fuori tutti immediatamente.
Hanne non si fece ripetere l’ordine due volte. Quello che aveva visto le bastava. Aveva lasciato il procuratore Halvorsrud seduto dove l’avevano trovato, su uno sgabello di legno troppo piccolo per la sua stazza, perché non aveva scelta. L’uomo appariva inebetito, ma c’era pur sempre il rischio che si comportasse in modo imprevedibile. Hanne non conosceva la giovane recluta, non sapeva se sarebbe stata in grado di occuparsi da sola di un uomo in stato di shock che forse aveva appena decapitato sua moglie. Non se l’era quindi sentita di abbandonare la scena del crimine prima dell’arrivo della Scientifica, mentre Erik Henriksen aveva preferito non lasciarla da sola con il grottesco cadavere di Doris Flo Halvorsrud.
– Su, venga, – disse al procuratore porgendogli la mano. – Andiamo, spostiamoci da un’altra parte. Magari in camera da letto.
Lui non reagí. Aveva gli occhi inespressivi, la bocca semiaperta con gli angoli umidi come se fosse sul punto di vomitare.
– Wilhelmsen, – esclamò all’improvviso con voce rauca. – Hanne Wilhelmsen.
– Esatto, – rispose Hanne sorridendo. – Andiamo adesso?
– Hanne, – ripeté Halvorsrud meccanicamente, senza alzarsi.
– Forza, mi segua.
– Ma io non ho fatto nulla. Nulla. Capisce cosa le sto dicendo?
Hanne Wilhelmsen non rispose. Invece gli sorrise un’altra volta e lo prese per mano. Solo allora si accorse che anche quella era sporca di sangue rappreso. Nella luce fioca aveva scambiato le chiazze sul viso dell’uomo per ombre o per la barba non rasata del giorno prima. Istintivamente si allontanò.
– Halvorsrud, – ripeté con un tono di voce piú alto e piú brusco. – La smetta di fare storie! Mi segua immediatamente.
Il tono di voce piú perentorio fece effetto. L’uomo trasalí e sollevò lo sguardo, come se all’improvviso fosse tornato a una realtà a lui incomprensibile. Indolenzito si alzò dallo sgabello.
– Fai venire anche il fotografo.
La recluta sussultò nel sentirsi apostrofare direttamente da Hanne Wilhelmsen.
– Il fotografo? – ripeté la donna in tuta con aria interrogativa.
– Sí, il fotografo. Sai, il tizio là in fondo con quello strano aggeggio.
La giovane poliziotta abbassò gli occhi imbarazzata.
– Certamente, il fotografo, scusami.
Fu un sollievo uscire finalmente da quella stanza e lasciarsi alle spalle il cadavere decapitato. Il vestibolo era molto buio e piuttosto fresco. Hanne trasse un profondo respiro mentre cercava il pulsante della torcia.
– La stanza degli hobby, – mormorò Halvorsrud. – Possiamo andare là.
Indicò una porta appena a sinistra del vestibolo. Quando Hanne gli illuminò all’improvviso le mani con la torcia si irrigidí.
– Non ho fatto nulla. È impensabile che io… Non le ho torto un capello.
Hanne Wilhelmsen gli sfiorò appena la schiena. L’uomo si allontanò, rifuggendo dal leggero contatto fisico. Poi fece strada a lei e a Henriksen lungo lo stretto corridoio che portava alla stanza degli hobby. Stava per abbassare la maniglia, quando Erik Henriksen lo bloccò.
– Faccio io, – disse l’agente passandogli davanti. – Lei si metta lí.
Il fotografo se ne stava sulla soglia senza che nessuno di loro l’avesse sentito arrivare. Attraverso le lenti spesse degli occhiali gettò un’occhiata a Hanne Wilhelmsen.
– Ha qualcosa in contrario se le scattiamo qualche foto? – chiese lei al procuratore. – Come ben sa, ci sono numerose formalità da sbrigare in questi casi. Mi piacerebbe concludere questa faccenda prima di andare alla centrale di polizia.
– La centrale di polizia, – ripeté Halvorsrud. – A cosa servono le fotografie?
Hanne si pettinò i capelli passando le dita fra le ciocche e sentí salire dentro di sé un moto d’impazienza che non faceva bene né a lei, né al caso.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice norvegese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Anne Holt.