Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Rose Madder di Stephen King, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 11,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
Rose Madder: trama del libro
In fuga da Norman, il marito che la tormenta da quattordici anni, Rose riesce a rifarsi una vita e perfino a incontrare l’uomo giusto. Proprio nella stessa occasione, s’imbatte anche in uno strano quadro, un ritratto, che misteriosamente comincia a interagire con lei… Purtroppo, il sadico Norman si è intanto messo sulle tracce della moglie, lasciandosi dietro una scia di sangue e terrore. E quando la raggiunge, Rose capisce che per salvarsi dovrà calarsi nel “suo” mito – celato nel quadro – e trasformarsi in una dea vendicatrice…
Non le importa molto. Il dolore è troppo forte perché abbia a preoccuparsi di questioni marginali come la respirazione o il fatto che sembra non ci sia aria nell’aria che respira. Il dolore l’ha ingoiata come si dice che la balena abbia ingoiato Giona, il santo renitente.
Pulsa come un sole infetto che arde al centro del suo corpo, là dove fino a questa sera c’era solo la sensazione serena di un nuovo essere che cresce.
Non c’è mai stato altro dolore come questo dolore, non che ricordi, nemmeno quando, a tredici anni, sterzò bruscamente per evitare una buca e cadde dalla bicicletta, battendo la testa sull’asfalto e aprendovi un taglio che risultò lungo esattamente undici punti. Di quell’incidente ha sempre ricordato un lampo argenteo di dolore seguito da uno stupore buio e stellato, che era in realtà un breve svenimento… ma non fu questo strazio. Questo terribile strazio. La sua mano sul ventre sente qualcosa che non somiglia più alla carne; è come se le avesse aperto una cerniera nel corpo e le avesse sostituito il bambino con un sasso rovente.
Dio, ti scongiuro, pensa. Dio, ti prego, fai che il bambino stia bene.
Ma ora, mentre il respiro comincia a placarsi un po’, si rende conto che il bambino non sta bene, che quel risultato almeno se lo è garantito. Al quarto mese di gravidanza, il bambino è ancora più parte di te che un essere indipendente e quando ti trovi seduta in un angolo con i capelli incollati a ciocche alle guance sudate e ti sembra di aver ingoiato una pietra rovente…
Qualcosa le depone piccoli baci vischiosi e sinistri all’interno delle cosce.
«No», bisbiglia, «no. Dio Dio Dio, abbi pietà, no. Dio mio, sii buono, no.»
Fai che sia sudore, pensa. Fai che sia sudore… o forse me la sono fatta addosso. Sì, dev’essere così. Mi ha fatto così male dopo la terza volta che me la sono fatta addosso e non me ne sono nemmeno accorta. È così.
Solo che non è sudore e non è orina. È sangue. È seduta qui nell’angolo del soggiorno a guardare un’edizione tascabile smembrata, per metà sul divano e per metà sotto il tavolino, e il suo utero si prepara a vomitare il bambino che finora ha portato senza problemi o proteste.
«No», geme, «no, Dio, ti prego, dimmi di no.»
Vede l’ombra di suo marito, deforme e allungata come un simulacro in un campo di grano o l’ombra di un impiccato, danza e sobbalza nel passaggio ad arco che dal soggiorno porta in cucina. Vede un telefono-ombra premuto su un orecchio-ombra e la lunga spirale del cavo-ombra. Vede le sue dita-ombra che distendono i ricci del cavo, li trattengono per un momento e poi lasciano che si riavvitino, come una brutta abitudine che non si riesce a smettere.
Il suo primo pensiero è che stia chiamando la polizia. Ridicolo, naturalmente. È lui la polizia.
«Si capisce che è un’emergenza», sta dicendo. «Come diavolo dovremmo chiamarla, secondo lei? È incinta, no?» Ascolta facendo scivolare le dita sulle spire del cavo, e quando parla di nuovo il suo tono è indispettito. Basta quell’inflessione irritata nella sua voce a rinnovare il terrore dentro di lei, a riempirle la bocca di un sapore ferroso. Chi lo contrarierebbe, lo contraddirebbe? Oh, ma chi sarebbe così stupido da farlo? Solo qualcuno che non lo conosce, è ovvio, qualcuno che non lo conosce come lo conosce lei. «Ma certo che non la sposto! Mi prende per un idiota?»
Le sue dita si infilano timorose sotto il vestito, salgono per la coscia al cotone umido e caldo delle mutandine. Ti supplico, pensa. Quante volte quella parola le è risonata nella mente da quando lui le ha strappato il libro dalle mani? Non lo sa più, ma eccola di nuovo. Ti supplico, fa’ che il liquido che ho sulle dita sia trasparente. Ti supplico, Dio mio. Fa’ che sia trasparente.
Ma quando estrae la mano da sotto il vestito ha i polpastrelli rossi di sangue. Mentre li osserva un crampo mostruoso la apre come la lama di una sega a mano. Deve chiudere di scatto i denti per soffocare un urlo. Sa quanto poco le conviene urlare in questa casa.
«E non perdiamo altro tempo in chiacchiere, si muova! Venga qui!» Suo marito sbatte il ricevitore sull’apparecchio.
La sua ombra si gonfia e dondola sul muro, poi è fermo nell’arco a guardarla. Il suo viso è accaldato e bello. Gli occhi in quel viso sono inespressivi come cocci di vetro che luccicano ai bordi di una sterrata di campagna.
«Guarda che roba», mormora, allungando per un istante entrambe le mani e poi lasciandole ricadere con un tonfo soffice lungo i fianchi. «Guarda che casino.»
E lei protende una mano verso di lui, a mostrargli i polpastrelli insanguinati. Più esplicitamente di così non saprebbe accusarlo.
«Lo so», dice lui, come se la sua consapevolezza spiegasse ogni cosa, riportasse l’accaduto in un contesto coerente e razionale. Si gira e fissa lo sguardo sul libro smembrato. Raccoglie il pezzo dal divano, poi si china a prendere quello sotto il tavolino. Mentre lui si rialza, lei vede la copertina, che mostra una donna in una camicia bianca da contadina, ritta sulla prora di una nave. I suoi capelli fluiscono plastici, sollevati dal vento, a esporre le spalle candide. Il titolo, Il viaggio di Misery, spicca in lettere metallizzate di colore vermiglio.
«È questo il guaio», dice lui, e agita i resti del libro come si brandisce un giornale arrotolato minacciando un cucciolo che ha fatto pipì sul pavimento. «Quante volte ti ho detto e ripetuto come la penso su queste stronzate?»
La risposta, per la verità, è mai. Sa che potrebbe essere seduta in quest’angolo ad abortire se fosse tornato a casa e l’avesse trovata a guardare il telegiornale o a cucirgli un bottone su una camicia o solo a schiacciare un sonnellino sul divano. Sono stati tempi rognosi per lui, una certa Wendy Yarrow gli ha reso la vita difficile, e quello che fa Norman con le difficoltà è distribuirle equamente. Quante volte ti ho detto e ripetuto come la penso su queste stronzate? le avrebbe gridato in ogni caso. Poi, subito prima di cominciare con i pugni: Voglio parlarti, tesoro. Vieni vicino.
«Ma hai capito?» bisbiglia lei. «Sto perdendo il bambino!»
Incredibilmente, lui sorride. «Puoi averne un altro», risponde. Come stesse consolando una bambina che si è lasciata sfuggire di mano il cono gelato. Poi porta il libro stracciato in cucina, dove senza dubbio lo butterà nelle immondizie.
Bastardo, pensa lei senza sapere di pensarlo. Stanno tornando i crampi, non solo uno, questa volta, ma tanti, la invadono come uno sciame di insetti orrendi, e allora spinge la testa di nuovo nell’angolo e geme. Bastardo, come ti odio.
Lui riappare dall’arco e va verso di lei. Lei pedala cercando di spingersi dentro la parete, lo guarda con occhi frenetici. Per un momento è sicura che abbia intenzione di ucciderla, questa volta, non di farle solo del male, o di privarla del bambino che ha desiderato per tanto tempo, ma di ammazzarla sul serio. C’è qualcosa di disumano nella maniera in cui avanza verso di lei con la testa abbassata e le mani che pendono lungo i fianchi e i muscoli lunghi che si flettono nelle cosce. Prima che i giovani prendessero a chiamare sbirri quelli come suo marito, c’era un’altra parola con cui definirli ed è la parola che le torna in mente ora vedendolo arrivare con la testa abbassata e le mani che dondolano in fondo alle braccia come pendoli carnosi, perché a quello assomiglia soprattutto: un toro.
Gemendo, scuotendo la testa, pedalando. Le si sfila una scarpa e rimane abbandonata su un fianco. Si rinnova il dolore, crampi che le sprofondano nel ventre come ancore munite di vecchi denti arrugginiti, e sente fluire altro sangue, ma non può smettere di pedalare. Ciò che vede in lui quand’è così è il nulla assoluto; una specie di spaventosa assenza.
Si ferma e la sovrasta, scuotendo stancamente il capo. Poi si acquatta e la cinge con le braccia. «Non ti farò del male», la rassicura accosciandosi per sollevarla. «Quindi smetti di tremare come un coniglio.»
«Sto sanguinando», mormora lei, ricordando che lui alla persona con cui ha parlato per telefono ha promesso che non la sposterà, certo che no.
«Sì, lo so», risponde lui, ma senza interesse. Si sta guardando intorno, sta cercando di decidere dove è accaduto l’incidente. Lei sa che cosa sta pensando come se fosse dentro la sua testa. «Non è niente di grave, si fermerà. Lo fermeranno loro.»
Potranno impedire l’aborto? grida dentro di sé, senza pensare che se sa intuire lei i pensieri di lui, lui potrebbe fare altrettanto; senza notare l’attenzione con cui la sta guardando. E ancora una volta non si concede di udire l’appendice del proprio pensiero: Ti odio. Ti odio.
Lui la porta alle scale. S’inginocchia, la deposita sotto l’ultimo gradino.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore del Maine rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stephen King.
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