Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Saltatempo di Stefano Benni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Saltatempo: trama del libro
Lo incontriamo da ragazzino mentre “scarpagna” verso le Bisacconi (le scuole elementari del paese). Sono gli anni Cinquanta e mentre ruba in una vigna un grappolo di schizzozibibbo, Lupetto, così lo chiamano, vede un uomo alto, con una barba immensa e un vecchio cane. È una divinità pagana, sporca come un letamaio, che gli regala una facoltà meravigliosa: un orologio interno, un orobilogio, che gli consentirà di correre avanti nel tempo. Così Lupetto diviene Saltatempo, cresce bislacco e distratto, mentre il paese dove vive si sta trasformando e l’orobilogio con i suoi giri improvvisi e vorticosi prospetta il tempo che verrà.
In ebook Saltatempo (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Sulla lapide infatti c’è scritto:
Lutilio Bisacconi, caduto.
Poi si vede che non hanno pagato lo scalpellino o c’è stato un litigio ideografologico ma è finita lì: caduto. Non è specificato se in guerra, per la Resistenza, nel fiore degli anni, niente: caduto e basta.
Che a noi venne da pensare che allora nessuno cadeva come Tadeo, che a otto anni già non ci vedeva un cazzo come un anziano e aveva i piedi cavallerizzi storti in dentro e voleva andare lo stesso in bicicletta e aveva una bicicletta che sembrava masticata da uno squalo e in più non distingueva un paracarro da un precipizio e soffriva anche di un tic che gli storceva la testa fuori strada, perciò cadeva quasi tutti i giorni e aveva la fronte bozzuta e un polso sempre fasciato, e le ginocchia egizie con i geroglifici di ghiaietto.
Perciò si poteva anche intitolare la scuola a lui: Tadeo, caduto, oppure cadente, oppure tanto prima o poi cade ancora.
Parlai di questo in un tema e mi fecero un culo come una tinozza.
Ma quel giorno di fine inverno era così bello da andar fuori tema con ogni pensiero. I prati eran zuccherati di brina e il sole se li beveva mentre io cantavo a bassa voce: se mi vuoi lasciare dimmi almeno perché. Cantavo e correvo verso l’obiettivo formativo della scuola, la cartella mi sbatteva contro le gambe, i piedi mi dolevano per il gelo, c’era la galaverna e voli alti di uccelli. La valle, giù in fondo, sembrava una tavolozza di pittore.
Mi fermai a bere e a specchiarmi al lavatoio, ed ero brutto. Pieno di brufoli di ogni colore e forma, cuspidati, col craterino, a fico spremuto, a capezzolo (enumero). Poi avevo il naso adunco come quello di una gallina e una testa di capelli a propulsione verticale, uno scopino da cesso alla rovescia. Tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago. Tutte le volte che andavo in giro coi miei amici moschettieri, loro mi nascondevano sotto i mantelli per non spaventar la gente.
A metà circa del tragitto dello scarpagnamento mi fermai a una vigna e rubai un grappolo di schizzozibibbo. Ogni chicco era grande come la mia testa (esagero), un grappolo di teste di me stesso, ognuna che gridava non mi mangiare. Per gustar meglio il bottino tirai fuori di tasca una crosta di paneterno. Niente, nella vita, ho incontrato che fosse duro come quella crosta. Neanche i denti di una mietitrebbia o di un caimano famelico lo avrebbero scalfito. La crosta sembrava forgiata nell’acciaio. La mollica aveva la consistenza di certe pietre, porose ma solidissime.
Così mi sedetti, poiché albeggiava e il sole infuocava la brina di strisce di brace e la linea delle montagne sembrava un gigante assopito messo un po’ di gallone. Il rumore del fiume mi teneva compagnia poiché sapevo che dentro c’erano cavedani e lucci e barbi e acquadelle, tutte creature meravigliose nel loro guizzare ed esplorare pozze buie che noi non conosceremo mai, per non parlare degli scoiattoli, del tasso dormione, della talpa rugagna e del falco che planava sul mio zenit. E di due mucche pezzate che ruminavano sotto un albero e gli cadevano i marroni d’India in testa e loro erano felici.
Era un momento poetico, ma allora io facevo fatica a distinguere i momenti poetici tristi da quelli allegri, quindi quando sentivo arrivare un attacco di poesia era un po’ come quando si mobilita la budella e segnala e crepita prima della liberatoria, perciò quando sopraggiungeva il crampo dell’ecloga o del sonetto o dell’imperdibile istante, io ci mangiavo su.
Divaricai la mandibola come se volessi ingoiare l’orizzonte, mangiai Monte Mario, la stazione dei treni, un pezzo di strada cantonale e poi con rumore di tritura, un pezzo di pane. Si chiamava paneterno, perché poteva durare mille anni e si conservava sempre buono.
Quel pane lì lo potevamo mangiare solo io, il cane Fox che era un bracco grande come un cavallo, e la Strega Berega dentidighisa. Poiché la Strega Berega era una creatura fantastica inventata da me e da Selene (la mia pupa) e Fox il pane lo mangiava solo ammollato con acqua, latte e sbavatura autoprodotta, io ero l’unico a rosicchiare paneterno doc, e non per niente mi chiamavano Lupetto.
Allora crac fece il pane doc sotto i miei canini e bau fece Fox lontano e ciac il sugo dello schizzozibibbo e non saprei sintetizzare il rumore del fiume ma il sole si alzò ancora e c’era odore di una certa felicità irripetibile.
Mangiai quattro chicchi e tre mi esplosero nella trachea, perché se un chicco di schizzozibibbo non ti va di giangone, cioè di traverso, allora vuole dire che non è buono, il chicco deve essere tutto compresso e turgido di sugo e zucchero e invidia d’ape, l’esplosione che avviene quando il dente lo ferisce è come una bomba, uno sborramento di gusto, e lo zibibbo va su per il naso e nei bronchi fino nel pancreas, e tu tossisci e godi e tossisci e godi e mentre tossisci mandi giù un altro chicco per godere di più.
Se non lo avete provato vi manca qualcosa, diceva il mio babbo che era rimasto col piede in una tagliola da volpi (ve lo racconto in seguito).
Allora son lì seduto per terra col culo gelato che mangio paneterno e schizzozibibbo e guardo un ragno che sferruzza, il sole che dilaga e intanto si fa ora di scuola. Mi sembra di sentire la campanella giù a valle, io l’orologio non ce l’ho, calcolo l’ora dal gelo dei piedi, è un gelo da sette e mezzo, con l’alluce addormentato, beato lui, e il calcagno che cigola.
Mi tiro su in piedi e di colpo il panorama si allarga, vedo le schiene dei pesci saltare nel fiume e la piazza del paese e Selene su una panchina che mi aspetta avvoltolando una treccia, e quella carogna statale del professor Testuggine che batte il piede perché sono in ritardo e il busto di Caduto Bisacconi nell’ingresso. Pregusto già quel buon odore scolastico di minestrina vomitata e formaggino tenuto sotto il culo e pera cotta nel pitale della nonna e penso: un giorno qualcuno pagherà per tutto questo, quando ecco l’apparizione.
Dall’orto vien su un uomo alto come una nuvola, con una barba immensa color letamaio, scortata da mosche, tutto vestito di strati e stracci, con una capparella nera rappezzata di toppe lustre. Ha un bastone di pero e un cane vecchio, ma vecchio che ha annusato chissà quante pisce di tirannosauro, e zoppica e rantola come se fosse pieno di brodo.
Subito l’uomo nuvola mi sorride e io capisco che solo un Dio sorride così e si accovaccia sul poggetto, controluce, tra la valeriana e i radicchi, si tira giù tre o quattro tipi di braghe e mutande e comincia a farla, ma farla davvero, è come un anaconda che si srotola, o il granone che vien giù dalla mietitrebbia, o la polenta fuori dal paiolo, è un trionfo di merda tiepida che a contatto col suolo sprigiona una nube di vapore immensa e odorosa, e più la fa e più il vapore cresce, si deposita sul prato e sugli alberi e appanna i gusci delle lumache.
E continua a farla ed è una produzione che non ci credi, mentre il cane mi guarda come a dire, questo è niente, e intanto non si vede più l’uomo ma una grande nube attraversata da un arcobaleno, e da dentro proviene un breve respiro affannoso che vuol dire che ancora la sta facendo, e gli uccelli volano intorno alla nube cinguettando festanti.
Poi la nube di vapore si dirada e per terra resta un obelisco fumante, la terra si è scaldata e non mi fanno più male i piedi.
E Dio prende da sotto la capparella una foglia di fico che si trova solo nei giardini dell’Eden, così bella pentalobata e lustra, senza peluria stracciaculo, fa un gesto come gli sventagliatori del sultano e si spazza in su e in giù e in giù e in su.
Poi lancia la foglia biodegradabile che vola planando verso valle, e io immagino che se arriverà santa e immerdata fin sul piazzale della chiesa diventerà reliquia e verranno da tutti i paesi a vedere la Foglia di Dio e io diventerò come Bernadette, esclusa la castità.
– Questa è vita – dice il Dio stirandosi, e con lo sguardo divino individua un fungo boledro, e sì che lì non è zona, lo coglie e se lo pappa metà lui e metà il cane.
– Buon appetito – dico io.
– Grazie – dice lui – è una giornata meravigliosa per andare a pescare, o anche perché accada uno stromenamento temporale e si crei uno spazio di Filler-Gauss oppure che uno si innamora di colpo e se ne accorge il giorno dopo.
– Proprio così – dico io.
– Bene, come ti chiami, ragazzo che non vuole andare mai a scuola?
– Mi chiamano Lupetto.
– Piccolo lupo del bosco – dice il Dio alzando al cielo un dito sozzo e magnifico – goditi la libertà e un giorno avrai l’onore di uccidere l’imperatore. Hai un pezzo di paneterno?
Glielo do.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore bolognese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stefano Benni.
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