Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il sangue degli elfi di Andrzej Sapkowski. Il romanzo è pubblicato in Italia da Nord con un prezzo di copertina di 18,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 8,99.
Il sangue degli elfi: trama del libro
Il regno di Cintra è caduto. Dopo quattro giorni d’assedio, le truppe di Nilfgaard irrompono nel castello e massacrano l’intera famiglia reale. La principessa Ciri è l’unica che riesce a fuggire ma, all’improvviso, un cavaliere nemico le si para davanti e avanza minaccioso, brandendo un pugnale insanguinato… Ciri non ricorda cosa sia successo. Sa solo che ora è sana e salva, protetta dalla spada di Geralt di Rivia e dalle possenti mura di Kaer Morhen, la fortezza in cui si addestrano i giovani strighi, gli assassini di mostri. Anche Ciri vorrebbe diventare una di loro, così, se tornasse il cavaliere di Nilfgaard, lei non avrebbe più paura, anzi sarebbe pronta a combattere. Una sera, però, al termine di un’estenuante giornata di allenamento, la ragazza dimostra di possedere straordinarie capacità psichiche, così dirompenti da non lasciare adito a dubbi: è lei la Fiamma di Cintra di cui parlano le profezie, la forza che salverà i popoli del mondo dalla rovina. Il suo destino è quindi segnato: deve partire subito per Ellander, dove una maga le insegnerà a controllare quell’immenso potere. Tuttavia, durante il viaggio, Ciri e Geralt dovranno stare molto attenti. Perché un sicario è già sulle loro tracce, disposto a tutto pur di eliminare la Fiamma di Cintra e scatenare il caos…
Le strette viuzze che conducevano al fossato e alla prima terrazza vomitavano fumo e folate di aria calda, le fiamme divoravano i tetti serrati l’uno all’altro, lambendo le mura del castello. Dalla porta occidentale, quella che dava sul porto, si levavano urla, gli echi di una lotta accanita, i colpi sordi di un ariete che scuoteva le mura.
La città era stata colta di sorpresa dagli aggressori, che avevano sfondato la barricata difesa da un pugno di soldati, da abitanti armati di alabarde e dai balestrieri della corporazione. Cavalli dalle nere gualdrappe volavano sopra lo sbarramento come spettri, lame vivide e scintillanti seminavano morte tra i difensori in fuga.
Ciri sentì il cavaliere che la portava in arcione spronare bruscamente il cavallo. Udì il suo grido. «Reggiti», urlava. «Reggiti!»
Altri cavalieri coi colori di Cintra li sorpassarono di gran carriera e andarono incontro agli uomini di Nilfgaard. Ciri vide per un istante la scena con la coda dell’occhio, un frenetico turbinio di mantelli azzurro-dorati e neri fra lo stridere dell’acciaio, il fragore delle lame sugli scudi, i nitriti dei cavalli…
Un urlo. No, non un urlo.
Un grido: «Reggiti!»
Paura. Ogni scossa, ogni strattone, ogni balzo del cavallo lacera le mani serrate sulle redini. Le gambe spasmodicamente contratte non trovano appoggio, gli occhi lacrimano per il fumo. Il braccio che la tiene le fa male, la soffoca, la strangola, le schiaccia le costole. Non lontano si levano urla quali finora non ha mai sentito. Cosa si deve fare a un uomo perché urli così?
Paura. Una paura che blocca, paralizza, opprime. Di nuovo lo stridere del ferro, gli sbuffi dei cavalli. Le case intorno ballano, d’un tratto le finestre che rigurgitano fuoco sono là dove fino a un attimo prima c’era solo una stradina fangosa ingombra di cadaveri, ostruita dagli oggetti abbandonati dai fuggitivi. All’improvviso il cavaliere alle spalle di Ciri è assalito da una strana tosse roca. Sulle mani aggrappate alle redini schizza del sangue. Un urlo. Il sibilo di una freccia.
Una caduta, una scossa, un colpo doloroso contro l’armatura. Accanto a Ciri risuona uno scalpiccio di zoccoli, sopra la sua testa balenano il ventre di un cavallo e un sottopancia strappato, il ventre di un altro cavallo, una nera gualdrappa svolazzante. Gemiti simili a quelli emessi da un boscaiolo che spacchi la legna. Qui però non si tratta di legna, ma di ferro contro ferro. Un grido soffocato e sordo. Vicino a lei, qualcosa di grande e nero cade con un tonfo nel fango, tra schizzi di sangue. Il piede nell’armatura trema, si agita, ara la terra con l’enorme sperone.
Uno strattone. Una forza la solleva in aria, la issa sull’arcione di una sella. «Reggiti!» Di nuovo una corsa piena di scosse, un galoppo folle. Mani e piedi cercano disperatamente un appoggio. Il cavallo s’impenna. «Reggiti!»
Nessun appoggio… No… No… Solo sangue.
Il cavallo cade. Impossibile saltare giù, impossibile divincolarsi, liberarsi dalla stretta delle braccia protette dal giaco. Impossibile sfuggire al sangue che le cola sulla testa, sulla nuca.
Una scossa, un tonfo nel fango, una violenta caduta. Ora tutto è spaventosamente immobile dopo la cavalcata selvaggia. Gli sbuffi penetranti e il nitrito del cavallo che cerca di sollevare la groppa. Il rimbombo dei ferri, il balenio dei garretti e degli zoccoli. Mantelli e gualdrappe neri. Urla.
La stradina è invasa dal fuoco, da una rossa cortina mugghiante di fuoco. Sullo sfondo si staglia un cavaliere, è gigantesco, sembra torreggiare sui tetti in fiamme. Il cavallo coperto da una gualdrappa nera saltella, scrolla la testa, nitrisce.
Il cavaliere la guarda. Ciri vede scintillare i suoi occhi nella fessura del grande elmo ornato dalle ali di un uccello rapace. Vede riflettersi l’incendio sulla larga lama della spada nella mano abbassata.
Il cavaliere la guarda. Ciri non può muoversi. Glielo impediscono le braccia inerti del morto, che le stringono la vita. È immobilizzata da qualcosa di pesante e bagnato di sangue, qualcosa che le schiaccia la coscia e la inchioda a terra.
È immobilizzata anche dalla paura. Una paura mostruosa, che le torce le viscere e la rende sorda al gemito del cavallo ferito, al rombo dell’incendio, alle urla delle persone che vengono massacrate e al fracasso dei tamburi. L’unica cosa che c’è, che conta, che importa, è la paura. Una paura che ha assunto le sembianze del cavaliere nero dall’elmo ornato di piume, impassibile sullo sfondo della rossa cortina di fiamme impetuose.
Il cavaliere sprona il destriero, le ali del rapace sventolano sull’elmo, l’uccello si alza in volo, all’assalto di una vittima inerme, paralizzata dalla paura. L’uccello – o forse il cavaliere – grida, gracchia in maniera spaventosa, crudele, trionfante. Il cavallo nero, l’armatura nera, il mantello nero svolazzante e, alle loro spalle, il fuoco, un mare di fuoco.
Paura.
L’uccello gracchia. Le ali sventolano, le piume le sferzano il viso. Paura! Aiuto! Perché nessuno mi aiuta? Sono sola, sono piccola e indifesa, non posso muovermi, non riesco neppure a gridare. Perché nessuno viene in mio aiuto?
Ho paura!
Due occhi ardenti nella fessura del grande elmo alato. Il mantello nero ricopre tutto…
«Ciri!»
Si svegliò madida di sudore, rigida, e quel grido, il grido che l’aveva svegliata, continuava a tremare, a vibrare da qualche parte dentro di lei, sotto lo sterno, a bruciarle la gola secca. Le dolevano le mani serrate sulla coperta da cavallo, così come le spalle…
«Ciri. Calmati.»
Era notte, una notte scura e ventosa, piena dei fruscii monotoni e melodiosi delle chiome dei pini, degli scricchiolii dei tronchi. Non c’erano più l’incendio e il grido, c’era soltanto quella ninnananna di fruscii. Accanto a lei, il fuoco del bivacco palpitava di luce e calore, le fiamme scintillavano sulle fibbie dei finimenti, si riflettevano vermiglie sull’impugnatura e sul fodero di una spada appoggiata a una sella adagiata a terra. Non c’era nessun altro fuoco, nessun altro ferro. La mano che le sfiorava la guancia odorava di cuoio e di cenere. Non di sangue.
«Geralt…»
«Era solo un sogno. Un brutto sogno.»
Ciri fu scossa da un violento tremito che le provocò spasmi alle braccia e alle gambe.
Un sogno. Solo un sogno…
Il fuoco si è ormai affievolito, i ciocchi di betulla sono rossi e trasparenti, crepitano, ne erompe una fiamma azzurra. La fiamma illumina i capelli bianchi e il profilo spigoloso dell’uomo che la avvolge nella coperta da cavallo e in un pellicciotto di montone. «Geralt, io…»
«Sono qui accanto a te. Dormi, Ciri. Devi riposare. Ci aspetta ancora un lungo cammino.»
Sento una musica, pensò Ciri all’improvviso. In questo fruscio… c’è una musica. Un liuto. E voci. La principessa di Cintra. La bambina del destino… La bambina dal Sangue Antico, il Sangue degli Elfi. Geralt di Rivia, il Lupo Bianco, e il suo destino. No, no, è una leggenda. L’invenzione di un poeta. Lei è morta. È stata uccisa nelle strade della città mentre scappava…
Reggiti… Reggiti…
«Geralt?»
«Sì, Ciri?»
«Cosa mi ha fatto? Che è successo allora? Che cosa… mi ha fatto?»
«Chi?»
«Il cavaliere… Il cavaliere nero dall’elmo piumato… Non ricordo nulla… Gridava… e mi guardava. Non ricordo cos’è successo. Solo che avevo paura… Una paura tremenda…»
L’uomo si chinò, e la luce del fuoco sfavillò nei suoi occhi. Erano occhi strani. Molto strani. Una volta Ciri ne aveva paura, non amava guardarli. Ma da allora era passato del tempo. Tanto tempo.
«Non ricordo nulla… Il cavaliere nero…» sussurrò cercando la sua mano, dura e ruvida come legno grezzo.
«Era solo un sogno. Dormi tranquilla. Non tornerà più.»
Ciri si era già sentita rassicurare altre volte in passato. Tante, tantissime volte era stata tranquillizzata dopo che le sue stesse urla l’avevano svegliata nel cuore della notte. Ma adesso era diverso. Adesso ci credeva. Perché adesso a calmarla era Geralt di Rivia, il Lupo Bianco. Lo strigo. Il suo destino. Lo strigo Geralt, che l’aveva trovata nel bel mezzo della guerra, della morte e della disperazione, l’aveva presa con sé e aveva promesso che non si sarebbero mai separati.
Si addormentò senza lasciargli la mano.
Il bardo finì di cantare. Chinò appena la testa e ripeté al liuto il motivo principale della ballata, piano, delicatamente, in un tono più alto rispetto all’allievo che l’accompagnava.
Nessuno proferì parola. Oltre alla musica che si andava affievolendo, si sentivano soltanto stormire le foglie e scricchiolare i rami della gigantesca quercia. Poi, all’improvviso, una capra legata con una corda a uno dei carri che circondavano l’albero secolare lanciò un lungo belato. Allora, come a un segnale, uno degli ascoltatori raccolti in un ampio semicerchio si alzò e, gettatosi sulla spalla il mantello blu cobalto dalle guarnizioni dorate, eseguì un inchino rigido e distinto. «Vi ringrazio, mastro Ranuncolo. Permettete a me, Radcliffe di Oxenfurt, Maestro degli Arcani Magici, di esprimere a nome di tutti i presenti il nostro ringraziamento e il nostro plauso per la vostra grande arte e per il vostro talento.» Il mago lasciò scorrere lo sguardo sui presenti, che, seduti nell’affollato semicerchio sotto la quercia, in piedi e sui carri, superavano di parecchio il centinaio.
Gli ascoltatori annuivano, mormoravano. Alcuni applaudirono, altri salutarono il cantastorie con le mani levate. Le donne commosse tiravano su col naso e si asciugavano gli occhi con quello che potevano, a seconda del loro stato, della loro professione e della loro ricchezza: le contadine con l’avambraccio o col dorso della mano, le mogli dei mercanti con fazzoletti di lino e le elfe e le nobili con pezzuole di batista, mentre le tre figlie del reggente Vilibert, che per assistere all’esibizione del famoso trovatore aveva interrotto una battuta di caccia col falco, si soffiavano il naso in raffinate sciarpe verde marcio, in maniera tanto rumorosa da perforare le orecchie.
«Non esagero se dico che ci avete profondamente commosso, Mastro Ranuncolo, ci avete fatto riflettere e meditare, avete toccato i nostri cuori. Permettetemi di esprimervi la nostra riconoscenza e il nostro rispetto», continuò il mago.
Il trovatore si alzò e fece un inchino tanto profondo che la piuma di airone che ornava il suo estroso cappelluccio gli sfiorò le ginocchia. L’allievo smise di suonare, sorrise e s’inchinò a sua volta ma, ricevuto dal maestro uno sguardo minaccioso e un sommesso rimprovero, abbassò la testa e ricominciò a strimpellare piano sulle corde del liuto.
I presenti si animarono. I mercanti delle carovane, dopo aver sussurrato tra loro, fecero rotolare davanti alla quercia un grosso barilotto di birra. Il mago Radcliffe si mise a parlare fitto fitto col reggente Vilibert, le cui figlie avevano smesso di soffiarsi il naso e fissavano ammirate Ranuncolo. Il bardo non se ne accorse neppure, occupato com’era a elargire sorrisi, a strizzare l’occhio e a far balenare i denti in direzione di un gruppo di elfi viaggiatori sprofondati in un silenzio pieno di sussiego, e in particolare di un’elfa, una bellezza dai capelli neri e dai grandi occhi che portava una piccola toque di ermellino. Ranuncolo aveva dei rivali: la proprietaria dei grandi occhi e della graziosa toque era stata notata anche da numerosi cavalieri, studenti e menestrelli presenti tra il pubblico. L’elfa, visibilmente lusingata dal loro interessamento, giocherellava con le maniche di pizzo della camicetta e sbatteva le ciglia, ma i suoi compagni elfi la circondavano, facendole scudo, senza nascondere la loro ostilità nei confronti dei corteggiatori.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore polacco rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrzej Sapkowski.
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