Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Nel segno della pecora di Haruki Murakami, romanzo edito in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
Nel segno della pecora: trama del libro
“In una semplicissima newsletter, un giovane agente pubblicitario inserisce la fotografia, in apparenza banale, di un gregge: uno degli animali, una pecora bianca con una macchia color caffè sulla schiena, suscita tuttavia l’interesse di un inquietante uomo vestito di nero, stretto collaboratore del Maestro, un politico molto potente i cui esordi si perdono nel torbido passato coloniale giapponese. Al giovanotto viene affidato l’incarico – ma si tratta in sostanza di un ordine – di ritrovare proprio quella pecora: unico indizio, la foto in questione, ricevuta per posta dal Sorcio, un amico scomparso da anni.
Accompagnato da una ragazza con le orecchie bellissime e dotata di poteri sovrannaturali, attraverserà tutto il Giappone sino a raggiungere la gelida regione dello Hokkaido, vivendo una vicenda mirabolante e al tempo stesso realistica nella descrizione di luoghi e circostanze.
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I picnic del mercoledí pomeriggio.
Per puro caso, un mio amico venne a sapere dal giornale che lei era morta, e mi chiamò per dirmelo. Mi lesse lentamente al telefono il trafiletto uscito sull’edizione del mattino. Niente di eccezionale, come articolo. Doveva averlo scritto un cronista alle prime armi, uno appena laureato che voleva farsi un po’ la mano.
Una data, un angolo di strada, qualcuno che guidando un camion investe qualcuno, qualcuno che viene incaricato di svolgere un’inchiesta per omicidio colposo…
Sembrava una di quelle brevi poesie che vengono pubblicate sul frontespizio di certe riviste.
– Il funerale dove lo fanno? – chiesi.
– Be’, questo io non lo so, – rispose il mio amico. – Non so nemmeno se avesse una famiglia, quella ragazza.
Certo che l’aveva.
Il giorno stesso telefonai al commissariato e mi feci dare l’indirizzo e il numero dei suoi genitori, poi li chiamai e chiesi quando avrebbe avuto luogo il funerale. Se ci si mette l’impegno necessario – ha detto non so piú chi –, non c’è cosa che non si possa venire a sapere.
La sua casa si trovava in un quartiere popolare. Sulla cartina di Tōkyō feci un cerchio con la biro rossa intorno all’area. Per essere nel cuore della città, lo era. La zona era tutta un intrico di linee della metropolitana, ferrovie, percorsi d’autobus, una ragnatela distorta di canali di scolo e viuzze che imbrigliavano il terreno come le venature sulla buccia di un melone.
Il giorno del funerale presi il tram alla fermata di Waseda. Scesi quasi al capolinea e aprii la cartina per orientarmi, ma non mi fu piú utile di quanto lo sarebbe stato un mappamondo. Di conseguenza, per trovare il posto dovetti comprare piú di un pacchetto di sigarette, e chiedere ogni volta la strada.
I suoi abitavano in una di quelle vecchie case in legno circondate da una palizzata marrone. Al di là del cancello, sulla sinistra, un giardinetto cosí piccolo che mi venne spontaneo chiedermi a cosa mai potesse servire. In un angolo era stato gettato un vecchio braciere in porcellana ormai inutilizzabile, dentro il quale stagnavano un quindici centimetri di acqua piovana. Il terreno era scuro e impregnato di umidità.
Lei era scappata di casa quando aveva sedici anni, e anche per questo motivo il funerale fu un rito molto sobrio cui parteciparono solo i parenti stretti. Erano quasi tutti anziani, tranne il fratello – o forse era il cognato –, un tipo sulla trentina o poco piú che presiedeva la cerimonia.
Il padre, un uomo minuto sui cinquantacinque anni, si teneva in piedi accanto al cancello. Immobile come una statua, una fascia a lutto sulla manica del vestito nero, faceva pensare a una strada asfaltata dopo un acquazzone.
Quando me ne andai, lo salutai chinando la testa in silenzio, e lui rispose allo stesso modo.
*
L’avevo conosciuta nell’autunno del ’69, io avevo vent’anni, lei diciassette. Vicino all’università c’era un caffeuccio dove mi vedevo spesso con gli amici. Non era granché, come locale, ma vi si poteva ascoltare dell’hard rock e bere un pessimo caffè.
Lei era sempre seduta allo stesso posto, i gomiti sul tavolino, assorta nella lettura di un libro. Portava degli occhiali che sembravano un apparecchio dentale, e aveva delle mani scarne, eppure in qualche modo ispirava simpatia. Il caffè nella sua tazza era sempre freddo, e il portacenere sempre pieno di mozziconi. L’unica cosa che ogni tanto cambiava era il volume sul tavolino.
A volte era un romanzo di Mickey Spillane, a volte un’opera di Ōe Kenzaburō o magari una raccolta di poesie di Allen Ginsberg. Può darsi che le bastasse avere un libro davanti. Gli studenti che frequentavano il locale gliene prestavano volentieri, e lei li leggeva tutti dalla prima all’ultima riga, come se ripulisse una pannocchia di granoturco. Era un’epoca in cui alla gente faceva piacere prestare libri, cosí a lei le letture non mancavano mai.
Erano gli anni dei Doors, dei Rolling Stones, dei Byrds, dei Deep Purple, dei Moody Blues. C’era qualcosa di esaltante nell’aria, si aveva l’impressione che bastasse una spallata per far crollare tante cose. Bevevamo cattivo whisky, facevamo goffamente sesso, ci perdevamo in discussioni sconclusionate, ci scambiavamo libri… cosí passavamo le nostre giornate. E intanto su quei maldestri anni Sessanta calava scricchiolando il sipario.
Avevo dimenticato il suo nome.
Per saperlo mi sarebbe bastato cercare quel trafiletto sulla sua morte, ma a quel punto che importanza poteva avere? Ormai l’avevo scordato, solo questo contava.
Quando vedevo qualche vecchio amico, a volte la conversazione cadeva su di lei. Ma il suo nome non lo rammentava nessuno. «Hai presente quella lí che andava a letto con tutti, tanti anni fa? Com’è che si chiamava?» «Boh? E chi se lo ricorda? Anch’io sono andato a letto con lei un sacco di volte. Chissà che fine ha fatto…» «Pensa che strano sarebbe, incontrarla casualmente per strada!»
Quella che andava a letto con tutti, da qualche parte tanti anni fa.
Ecco qual era il suo nome.
*
Per essere precisi, non è che lei andasse a letto proprio con tutti. A modo suo, aveva dei criteri.
All’analisi obiettiva dei fatti, possiamo dire che andava a letto con «quasi» tutti.
Una volta, per pura curiosità, le avevo chiesto di spiegarmi quali fossero, i suoi criteri.
– Be’, ecco… – mi rispose dopo averci pensato su una trentina di secondi. – Non è che mi piaccia farlo con chiunque, ci sono volte in cui non mi va, è ovvio. Solo che vorrei conoscere tante persone, forse la ragione è questa… Oppure per me è una maniera di organizzare il mio mondo.
– Andando a letto con tanti?
– Sí.
Adesso era il mio turno di riflettere.
– E… e in questo modo sei riuscita a capire qualcosa?
– Qualcosina…
*
Dall’inverno del ’69 all’estate del ’70 non la vidi mai. L’università era sempre chiusa o boicottata, e in piú avevo dei problemi miei personali.
In autunno, quando ritornai dopo molti mesi in quel caffè, dei vecchi avventori non ne trovai piú nessuno, l’unica persona che conoscessi era lei. La musica era ancora hard rock, ma l’atmosfera era cambiata, non aveva piú nulla di esaltante. Le sole cose rimaste uguali erano quella ragazza e il caffè, sempre pessimo. Ne ordinai uno, andai a sedermi di fronte a lei, e mi informai sul vecchio gruppo di amici.
La maggior parte di loro aveva lasciato l’università. Uno si era suicidato, di un altro non si sapeva piú nulla.
– Tu cos’hai fatto, in questi mesi? – mi chiese lei.
– Oh, varie cose… – risposi.
– E sei diventato un po’ piú intelligente?
– Un pochino…
Quella sera, per la prima volta, andai a letto con quella ragazza.
*
Sulla sua infanzia, sulla sua adolescenza, ho scarse informazioni. Quel poco che so me l’ha raccontato qualcuno, mi pare, oppure me l’ha detto lei una volta che eravamo a letto insieme, non ricordo… Al primo anno di liceo aveva litigato aspramente con suo padre ed era scappata di casa, di conseguenza aveva lasciato la scuola, di questo sono sicuro. Nessuno sapeva dove abitasse, né di cosa vivesse.
Stava tutto il giorno in quel locale dove si ascoltava hard rock, a bere un caffè dopo l’altro e a fumare una sigaretta dopo l’altra; intanto sfogliava le pagine di un libro aspettando che si presentasse qualcuno a pagarle caffè e sigarette – per noi ragazzi all’epoca non erano somme indifferenti –, e il piú delle volte con questo qualcuno ci finiva a letto.
È tutto quello che so di lei.
Dall’autunno di quell’anno alla primavera seguente, ogni martedí sera venne a trovarmi nella mia stanza, che era poco distante da Mitaka. Mangiava quelle due cose che avevo cucinato, mi riempiva i portacenere di mozziconi e faceva sesso con me, il tutto ascoltando a volume assordante musica rock trasmessa dall’emittente FEN. Il mattino del mercoledí, quando ci svegliavamo, camminavamo attraverso un boschetto fino all’International Christian University, andavamo a sederci alla mensa e pranzavamo lí. Poi prendevamo un caffè annacquato alla caffetteria, e se il tempo era bello andavamo a sdraiarci sul prato del campus a guardare il cielo.
Lei questo lo chiamava «il picnic del mercoledí».
– Ogni volta che veniamo qui, ho l’impressione di fare un vero picnic.
– Un vero picnic?
– Sí, c’è tutto questo spazio, questi prati che non finiscono mai, tutte queste persone dall’aria contenta…
Seduta sull’erba, dopo alcuni tentativi falliti riuscí ad accendersi una sigaretta con un fiammifero.
– Il sole va su nel cielo e poi scende, la gente arriva e poi se ne va, il tempo scorre come una folata di vento. Non è come fare un picnic?
All’epoca avevo ventun anni, ne avrei compiuti ventidue qualche settimana dopo. Non avevo alcuna probabilità di laurearmi entro breve tempo, ma questo non era un motivo valido per lasciare l’università. La mia situazione deprimente mi paralizzava, non riuscivo a fare un solo passo avanti. Avevo l’impressione di restare fermo nello stesso punto, soltanto io, mentre il mondo intorno a me avanzava. Nell’autunno del ’70 tutto ciò che vedevo mi metteva tristezza, mi sembrava sbiadire a grande velocità. E tutto mi irritava, persino la luce del sole, l’odore dell’erba, il rumore leggero della pioggia.
Sognavo spesso che ero in treno, di notte. Il sogno era sempre lo stesso: un vagone affollato, l’aria viziata che puzzava di fumo e di latrina, i viaggiatori schiacciati come sardine, macchie di vomito secco sui sedili. Non potendone piú, mi alzavo e scendevo alla prima stazione. Ma era tutto buio, non si vedeva una casa, soltanto un vasto terreno incolto. Non c’erano controllori, non c’erano orologi, non c’era nulla. Questo era il sogno.
In quel periodo, credo di averla trattata male diverse volte. In quali circostanze, adesso non lo ricordo piú. Probabilmente ce l’avevo soltanto con me stesso. Ad ogni modo lei non pareva risentirsene piú di tanto. Ma può anche darsi – a voler esagerare – che le facesse addirittura piacere. Il motivo non lo so. Il fatto è che lei non cercava la tenerezza, in me. Quando ci penso, ancora oggi non riesco a capire. Mi dà un senso di sconforto, come se all’improvviso urtassi con la mano contro un muro invisibile sospeso per aria.
*
Lo ricordo ancora perfettamente, quello strano pomeriggio del 25 novembre del ’70. Passeggiavamo nel bosco, sul sentiero coperto di foglie di ginkgo cadute a causa di una pioggia torrenziale. Le mani nelle tasche dei cappotti, andavamo avanti e indietro fra gli alberi con l’impressione di avanzare sul letto dorato di un fiume. Gli unici rumori che si udivano erano quelli dei nostri passi sulle foglie morte e il verso stridente degli uccelli.
– Insomma, cos’è che ti angoscia? – mi chiese lei di punto in bianco.
– No, niente di grave, – risposi.
Fece ancora qualche passo, poi si sedette sul bordo del sentiero a fumare una sigaretta. Mi sedetti accanto a lei.
– Hai sempre degli incubi?
– Sempre no. Spesso. Spesso sogno che un distributore automatico non mi restituisce la moneta.
Lei rise e mi poggiò una mano sul ginocchio, poi la tolse.
– Insomma, non ti va di parlare.
– Non ce la faccio.
Gettò a terra la sigaretta fumata a metà e la schiacciò accuratamente con la scarpa da ginnastica.
– Cioè non ce la fai a parlare delle cose di cui vorresti parlare. È cosí?
– Non lo so, – dissi.
Davanti a noi, due passeri si alzarono in volo sbattendo le ali e si dileguarono nel cielo senza nuvole, quasi ne venissero inghiottiti. Per un po’ restammo a guardare il punto dove erano svaniti. Poi lei prese un ramoscello e si mise a tracciare sul terreno delle forme geometriche a caso.
– Sai, quando sono a letto con te, qualche volta mi viene una gran tristezza, – disse.
– Mi dispiace.
– No, non è colpa tua. Non è come se tu pensassi a un’altra mentre fai l’amore con me. E comunque non me ne fregherebbe niente. Io… – A quel punto tacque e lentamente disegnò tre linee rette per terra. – Be’, non lo so.
– Senti, non lo faccio apposta a chiudermi in me stesso, – le dissi dopo un po’. – È solo che non riesco a capire cosa mi stia succedendo. Mi piacerebbe saperlo. In maniera obiettiva, senza esagerare le cose e senza diventare piú realista del necessario. Ma ci vuole del tempo.
– Quanto tempo?
Scossi la testa.
– Non lo so. Forse un anno, forse dieci…
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore giapponese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Haruki Murakami.
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