In questo articolo trovate la trama del libro Il segreto del faraone nero di Marco Buticchi, i dati sul volume pubblicato da Longanesi e un’anteprima dalle prime pagine.
Il segreto del faraone nero di Marco Buticchi
Edito da Longanesi nel 2018 • Pagine: 380 • Compra su Amazon
Egitto, 1798. Claude de Duras, archeologo inviato in Egitto al seguito dell'esercito napoleonico, si dedica allo studio dei misteri e della cultura della terra dei faraoni. La spedizione sembra procedere senza intoppi fino alla disfatta di Abu Qir. Messo alle strette dall'esercito di Nelson, Bourrienne, diplomatico e segretario personale di Bonaparte, stringe un accordo con Robert Goldmeiner, giovane rampollo di una ricca dinastia dalle antiche origini. Goldmeiner propone infatti prestiti a Bonaparte che potrebbero risollevare le sorti della spedizione. In cambio del suo aiuto, Bourrienne promette a Goldmeiner l'oro che de Duras avrebbe trovato durante gli scavi. Ma nessuno di loro poteva immaginare la grandezza e il valore delle scoperte che aspettavano l'archeologo francese. Una scia di morte segue coloro che, da allora, vengono a conoscenza degli incredibili ritrovamenti di de Duras... Canada, giorni nostri. Oswald Breil, armatore del Williamsburg, si appresta a gettare l'ancora nel porto di Vancouver ma una terribile notizia lo attende al suo arrivo. Sua moglie Sara Terracini lo avvisa che sua madre adottiva, Lilith, è gravemente malata; i due partono immediatamente alla volta di Tel Aviv. Lilith, ormai in punto di morte, confida a Breil la verità sulla morte dei suoi genitori che sembrerebbe essere connessa alle trame e ai segreti di una potentissima famiglia le cui radici giungono sino all'era dell'ultimo re dei Casari. → CONTINUA SU AMAZON
Giudea, ottavo secolo a.C.
Il primo raggio di sole vinse le ultime resistenze dell’oscurità. I toni rosati e incerti dell’aurora lasciarono il passo all’incedere prepotente della luce, talmente abbagliante da cancellare alla vista i profili delle montagne all’orizzonte.
Il faraone si riparò gli occhi dal riverbero con la mano, quindi volse lo sguardo verso il mare che, in lontananza, si stava infiammando dei riflessi del giorno che nasceva.
Il sole, in rapida ascesa alle loro spalle, allungava le ombre sul suolo brullo e sassoso del deserto. Gli animi dei soldati fremevano, in silenzio.
Il contingente si era schierato nella pianura quando ancora era buio. Tra poco i fanti si sarebbero messi in marcia, affiancati dai carri da battaglia. Dietro di loro avrebbe viaggiato il potente apparato logistico dell’esercito egiziano, addetto ai viveri e ai bisogni di trentamila militari impegnati in battaglia.
Le finiture d’oro del carro del faraone scintillavano. Shebitqo – toro possente, signore di Tebe amato da Amon – passò in rassegna i suoi. Lo sguardo severo del sovrano riusciva a infondere coraggio ai soldati.
I fanti indossavano un gonnellino bianco, stretto in vita da una cintura di cuoio. Al loro fianco due ali di arcieri alle cui estremità erano schierati i plotoni nubiani, leggendari combattenti dalla pelle scura come l’ebano. Della Nubia era altresì originario Shebitqo, il Faraone Nero.
«Raggiungeremo la pianura di Ashdod in poco tempo», disse con voce stentorea il sovrano, dopo aver condotto il carro sul crinale di un’altura da cui dominava l’adunata. «Lì, mio fratello Taharka sta resistendo alle truppe assire di Sennacherib. La superiorità numerica del nemico è, tuttavia, schiacciante. Dobbiamo raggiungere i nostri prima che sia troppo tardi: abbattuto anche questo nostro ultimo baluardo, gli assiri potrebbero dilagare in Egitto e appropriarsi delle vostre case e delle vostre mogli. Rendere schiavi i vostri discendenti. Volete questo, miei fedeli soldati?»
L’urlo si levò dalle loro bocche all’unisono con la potenza del tuono: «No, figlio della luce!»
Poi sulla valle ritornò il silenzio, rotto soltanto da un brusio che il faraone attribuì all’eco del grido dell’armata. Il boato delle voci si spense, ma quel ronzio si faceva, invece, sempre più vicino. Shebitqo scrutò l’orizzonte, in direzione del deserto del Negev. Chiamò al suo fianco uno degli ufficiali anziani e gli indicò una nuvola grigiastra in lontananza.
«Haboobs», rispose sicuro il generale Rihab. «Si sta avvicinando una tempesta di sabbia ma, a giudicare dal colore del cielo, non mi pare tra le più violente. Ci passerà lontano mentre saremo in marcia e non causerà troppi fastidi, mio signore.»
Il giovane Jal, nonostante l’età, era stato prescelto dal faraone per condurre il suo carro in battaglia. Alle parole del generale scrutò il cielo con maggiore attenzione.
L’auriga era originario della stessa regione del sovrano. Aveva la carnagione scura che il sole intenso aveva reso ancor più brunita. I muscoli possenti del ragazzo, diciotto anni appena, riflettevano i bagliori della luce del mattino. Rimaneva in piedi accanto al faraone, le briglie strette in mano e gli occhi puntati verso la nuvola che si avvicinava velocemente. I due cavalli del traino diedero un cenno d’impazienza, scossero la testa impreziosita da pennacchi variopinti e scalciarono sbuffando rumorosamente dalle nari.
«Perdonate, signore», disse Jal rivolto al generale, «so che cosa significa quando il cielo assume quel colore. Quella non è una tempesta di sabbia.»
Rihab era un anziano generale abituato ad amministrare il suo immenso potere senza rendere conto a nessuno. Delle sue azioni rispondeva solo al divino Shebitqo e, soprattutto, a Taharka, il fratello del faraone.
«Come ti permetti, soldato, di contraddire il tuo generale? Ti spedirò a combattere in prima linea tra i fanti. Così imparerai che cosa significa rischiare la vita, invece di restartene al sicuro sul carro da guerra del nostro re!» disse il generale.
«Ogni decisione sugli uomini a me più vicini, Rihab», lo redarguì il faraone, «dipende dalla mia sola volontà.»
«Chiedo umilmente perdono, amato dagli dei», si ritrasse l’ufficiale, fulminando nello stesso tempo il ragazzo con lo sguardo.
Jal non aveva mai smesso di tenere puntati gli occhi sull’orizzonte. Rivolgendosi direttamente al faraone insistette: «Quella non è sabbia».
Rihab serrò i pugni impotente: appena fosse stato lontano dalla protezione di Shebitqo avrebbe fatto i conti con quell’insolente.
La prima delle locuste colpì il faraone in pieno volto, con un rumore simile a uno schiaffo. Poi gli animali volanti cominciarono a piovere sul contingente egizio, in una carica inarrestabile. Decine di milioni d’insetti oscurarono il sole e il ronzio dei battiti delle loro ali si fece assordante.
«Una tempesta di sabbia, Rihab?» gridò infuriato il Faraone Nero. Quindi chiamò il portaordini: «Corri nelle retrovie. Fai mettere al riparo i viveri e il fieno per gli animali: nulla resiste alla voracità di queste bestie». Ma le locuste raggiunsero i carri assai prima della staffetta.
Quando, un paio di giorni più tardi, lo stormo ormai sazio decise di riprendere la migrazione, le scorte di viveri erano state decimate. Quel prepotente imprevisto era costato al contingente egiziano almeno due giorni di ritardo e, in battaglia, anche poche ore sono decisive.
Taharka scrutò invano il confine tra terra e cielo nella speranza di scorgere una nuvola di polvere levarsi all’orizzonte: quello sarebbe stato il segnale che i rinforzi stavano arrivando. Eppure le staffette lo avevano tenuto costantemente informato sull’avanzare del contingente guidato dal fratello Shebitqo. Almeno sino all’ultima sosta, quando mancava poco più di un giorno di cammino al campo di battaglia. I rinforzi avrebbero dovuto cogliere alla sprovvista i nemici assiri, piombando loro addosso dal fianco quando lo scontro era già incominciato. Quello sarebbe stato il solo espediente possibile perché gli egizi e i loro alleati potessero nutrire qualche speranza di avere la meglio. L’esercito sotto il comando del giovane Taharka, composto da giudei e milizie provenienti dalle città di Gerusalemme, Ascalon e Sidone, era numericamente inferiore e meno preparato nella tattica di quello del nemico.
Taharka scosse il capo e si abbandonò a un gesto di stizza, mentre gli assiri avanzavano compatti verso le avanguardie nubiane: tra poco l’esercito rivale avrebbe travolto i suoi uomini e non v’era segnale del provvidenziale arrivo del fratello faraone con i rinforzi.
Quei maledetti insetti erano riusciti a infilarsi ovunque, persino tra le vesti del sovrano egizio. Avevano seguito il contingente in ogni spostamento messo in atto per liberarsi di loro, divorando viveri, mangime e finimenti degli animali, abiti e calzari degli uomini. Poi, all’improvviso, le locuste si erano nuovamente alzate in volo per allontanarsi verso l’ignoto.
Shebitqo diede l’ordine di riprendere la marcia a passo veloce: sperava di riuscire a raggiungere Taharka prima che si compisse l’inevitabile.
I suoi più stretti collaboratori gli riconoscevano grandi capacità: era stato l’artefice della riunificazione dell’Egitto e della sua rinascita economica dopo anni di decadenza.
Il generale Rihab non aveva mai condiviso le attestazioni di stima rivolte al faraone dalla schiera dei fedelissimi: non avrebbe mai riconosciuto la sua autorità né la sua discendenza divina. Per lui era solo uno straniero dalla pelle scura. Faceva, però, buon viso a cattivo gioco, con la certezza che il tempo gli avrebbe dato ragione. Agendo d’astuzia, il generale si era insinuato tra i due fratelli fomentandone la rivalità: la scelta della successione, da Pianki al figlio maggiore Shebitqo, non era mai stata accettata di buon grado dal più giovane Taharka. Ma alla fine aveva prevalso il quieto vivere e il punto di mediazione tra i contendenti era stato raggiunto affidando al primogenito il regno e al minore il comando in capo dell’esercito. Compito assai arduo quello toccato a Taharka che, poco più che adolescente, si era trovato a fronteggiare la minaccia assira.
La battaglia nella pianura di Ashdod sarebbe stata risolutiva: superato l’ultimo ostacolo dell’esercito della coalizione, gli assiri avrebbero invaso i regni di Giudea e Gerusalemme per poi dilagare in Egitto.
Sennacherib schierava più di centomila uomini: soldati perfettamente addestrati a utilizzare tecniche di combattimento rivoluzionarie. I cavalieri assiri combattevano a coppie e, mentre uno dei due reggeva entrambe le redini, l’altro aveva tutto il tempo per imbracciare l’arco. Anche arcieri e lancieri guerreggiavano sempre in coppia: il lanciere proteggeva con la sua arma la postazione costituita da un grande scudo posato a terra dal quale l’arciere si affacciava per scoccare le frecce. I carri, invece, erano capaci di ospitare un auriga e ben quattro soldati. Fatta eccezione per i fanti, quasi tutti gli assiri indossavano un’armatura in ferro.
I due eserciti marciarono inquadrati sino a che i fronti non furono distanti pochi metri. All’improvviso lo schieramento si ruppe e le due avanguardie si scagliarono l’una contro l’altra. Il grido di battaglia si levò assordante, poi seguì il frastuono dello scontro: un clangore che sapeva di morte.
Il sole era prossimo a calare quando Taharka, protetto da un manipolo dei suoi, si convinse che tutto era ormai perduto e batté in ritirata. Prima di allontanarsi, il comandante si volse a guardare il terreno dello scontro: al centro della pianura, accerchiate dalle forze assire, alcune migliaia di uomini cercavano ancora di resistere. Gli altri, circa cinquantamila soldati, giacevano a terra morti o feriti. La disfatta era stata totale. I rinforzi non si erano visti. Adesso il nemico avrebbe avuto la strada sgombra sino a Tebe. Poi avrebbe conquistato tutto il regno.
Il terribile presentimento aleggiava nell’animo del faraone sin dalla calata delle locuste. Il contingente era in marcia serrata dal mattino precedente: per guadagnare tempo, gli uomini non avevano quasi per nulla riposato nel corso della notte. Infaticabili, gli egizi continuavano ad avanzare a passo veloce, con la speranza che non tutto fosse ormai compromesso.
Le staffette si fecero vicine al faraone quando mancavano poche ore di cammino alla meta.
«Un drappello di nostri uomini dirige verso di noi, amato dagli dei», annunciò la staffetta.
«Quanti sono?» chiese il faraone.
«Meno di un centinaio», rispose il soldato.
A quel punto Shebitqo capì che i suoi più funesti presagi si stavano avverando. Poco più tardi, quando suo fratello Taharka alla testa di quel manipolo di derelitti raggiunse il contingente dei rinforzi, il faraone ebbe chiara la dimensione della sconfitta: solo quel centinaio di soldati era scampato al massacro.
«In quella valle», disse Taharka indicando un punto in direzione del mare, «giacciono i cadaveri di cinquantamila dei nostri. Se solo fossi arrivato per tempo non sarebbe successo!»
«Il tuo comprensibile rammarico non ti autorizza a rivolgerti a me con tono di rimprovero, fratello», disse Shebitqo cercando di dissimulare il suo imbarazzo di fronte al generale Rihab. «Se al tuo posto ci fosse un qualunque altro ufficiale, non esiterei a chiederne la testa!»
«Chiedi pure quello che vuoi. Tanto ormai tutto è perduto», rispose Taharka senza calare la voce sferzante.
Marco Buticchi
Marco Buticchi (nato a La Spezia il 2 maggio 1957) è uno scrittore italiano. Marco è figlio di Albino Buticchi, petroliere e presidente del Milan dal 1972 al 1975. Il suo hobby è quello della scrittura ed è il proprietario di un albergo situato nelle vicinanze di Lerici, l’Hotel del Lido, e vi esercita, nei mesi estivi, la professione di bagnino. A suo dire è proprio sulla torretta in spiaggia che gli vengono in mente le trame dei suoi libri, tutti best seller.