Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il senso del dolore di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il senso del dolore: trama del libro
Napoli, 1931. Marzo sta per finire, ma della primavera ancora nessuna traccia. La città è scossa dal vento gelido e da una notizia: il grande tenore Arnaldo Vezzi – voce sublime, artista di fama mondiale, amico del Duce – viene trovato cadavere nel suo camerino al Real Teatro di San Carlo prima della rappresentazione di Pagliacci. La gola squarciata da un frammento acuminato dello specchio andato in pezzi. A risolvere il caso è chiamato il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, in forza alla Squadra Mobile della Regia Questura di Napoli. Investigatore anomalo, mal sopportato dai superiori per la sua insofferenza agli ordini ed evitato dai sottoposti per il carattere introverso, Ricciardi coltiva nell’animo tormentato un segreto inconfessabile: fin da bambino vede i morti nel loro ultimo attimo di vita e ne sente il dolore del distacco. Mentre i giorni passano e il vicequestore incalza, timoroso dell’impazienza del regime che da Roma chiede chiarezza ed esige che i colpevoli siano consegnati alla giustizia, la città freme sotto un alone cupo e livido, il risentimento cova nei vicoli e nei bassi, i raggi del sole illuminano a squarci le facciate degli antichi palazzi. Attento alle esigenze dei più deboli, il commissario segue il suo senso di giustizia per dare un nome all’assassino. Cominciano con l’inverno le stagioni di Ricciardi: il cammino al confine tra due mondi di un uomo condannato a guardare e amare da una finestra, interprete del disagio di un luogo sospeso tra luce e ombra.
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L’uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a destra, il cranio era stato cancellato dall’impatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva anche che al terzo piano del palazzo d’angolo che gettava in quel primo mattino di mercoledì una fascia d’ombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero. Poteva solo immaginare il dolore di una giovane madre che, contrariamente a lui, il figlio non lo avrebbe più rivisto. Meglio per lei, pensò. Tutto questo strazio.
Il bambino morto, per metà nascosto dall’ombra, alzò lo sguardo al passaggio dell’uomo senza cappello. “Scendo? Posso scendere?”, gli chiese. Un salto di tre piani, un dolore accecante lungo quanto un lampo. Chinò lo sguardo e accelerò il passo. Superò i due ragazzi che, con espressione seria, continuavano il giro d’Italia. Bambini poveri, pensò.
Luigi Alfredo Ricciardi, l’uomo senza cappello, era commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della Regia Questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni di quel secolo. Nove dell’era fascista.
Non era povero il bambino che giocava da solo in un cortile della casa padronale di Fortino, in provincia di Salerno, una mattina di luglio di un quarto di secolo prima. Il piccolo Luigi Alfredo era l’unico figlio del barone Ricciardi di Malomonte; del padre, morto giovanissimo, non avrebbe avuto mai un ricordo. La madre fu sempre malata di nervi e morì in una casa di cura quando lui, adolescente, studiava in collegio dai gesuiti; ne avrebbe conservato l’ultima immagine, la carnagione bruna, i capelli già bianchi a trentott’anni, gli occhi febbrili. Minuta, in un letto troppo grande.
Ma fu quella mattina di luglio a cambiare definitivamente la sua vita. Aveva trovato un pezzo di legno, che si era trasformato nella sciabola di Sandokan, la Tigre della Malesia: facevano presto a diventare realtà i racconti di Mario, il fattore appassionato di Salgari con cui passava lunghe ore, a occhi sbarrati e col respiro sospeso. Così armato non temeva belve o nemici feroci, ma aveva bisogno di una giungla. C’era un piccolo vigneto accanto al cortile, dove gli era concesso andare: gli piacevano l’ombra delle larghe foglie della vite, il fresco inatteso, il ronzio degli insetti. Il piccolo Sandokan, spavaldo con la sua sciabola, s’inoltrò nell’oscurità, avanzando silenzioso nella sua foresta immaginaria: al posto di cicale e calabroni si figurava pappagalli dai mille colori e quasi sentiva i loro richiami esotici. Una lucertola si slanciò lungo il vialetto solcando la ghiaia, lui la seguì, lievemente piegato in avanti, la lingua che spuntava tra le labbra, gli occhi verdi concentrati. La lucertola svoltò, cambiando traiettoria.
Seduto sotto un tralcio, per terra, vide l’uomo: era in una zona di penombra, come a voler trovare ristoro dalla feroce calura di quel terribile luglio nella giungla. La testa reclinata, le braccia abbandonate lungo il busto, le mani che toccavano il suolo. Sembrava addormentato, ma la schiena era rigida e le gambe, allungate sul vialetto, lievemente scomposte. Era vestito all’uso dei braccianti, ma come fosse inverno: il panciotto di lana, un camiciotto di flanella senza collo, pantaloni di tela pesante legati in vita con lo spago. Il piccolo Sandokan, con la sua sciabola in pugno, registrò quei particolari senza rilevarne l’incongruenza: poi vide il manico del coltellaccio da potatura spuntare dal torace dell’uomo, sul lato sinistro, come il ramo da un albero. Un liquido scuro macchiava la camicia gocciolando fino a terra dove si era formata una piccola pozzanghera: adesso la Tigre della Malesia la vedeva bene nonostante l’ombra delle viti. Un po’ più in là, la lucertola si era fermata e lo osservava, quasi delusa per l’interruzione dell’inseguimento.
L’uomo, che doveva essere morto, alzò lentamente la testa e la girò verso Luigi Alfredo, con un lieve scricchiolio delle vertebre: lo guardò con gli occhi velati e semichiusi. Le cicale smisero di frinire. Il tempo si fermò.
“Perdio, non l’ho nemmeno toccata la tua donna.”
Non fu per l’incontro inatteso, né per il manico del coltellaccio o per tutto quel sangue. Luigi Alfredo scappò urlando per lasciarsi alle spalle tutto il dolore che il cadavere del bracciante gli aveva buttato addosso. Nessuno gli disse mai che il delitto avvenuto nel vigneto cinque mesi prima era frutto della gelosia di un altro bracciante, fuggito dopo aver ucciso anche la giovane moglie; si diceva si fosse aggregato a un gruppo di briganti in Lucania. Attribuirono lo spavento e il terrore del bambino alla sua fantasia spiccata, al carattere solitario e alle chiacchiere delle comari che, la sera, cucivano sotto la finestra della sua stanza cercando un po’ di fresco nel cortile. Ne parlavano come del “fatto”.
Luigi Alfredo si abituò a pensare alla cosa che gli era successa proprio con quel nome: il Fatto. Da quando gli era capitato il Fatto, come aveva capito dal Fatto. Il Fatto che gli aveva orientato l’esistenza. Nemmeno Rosa, la tata che gli aveva dedicato tutta la vita e che ancora viveva con lui, gli aveva creduto, allora; negli occhi di lei era affiorata la tristezza e poi un lampo di paura, come per il presagio che anche il piccolo fosse destinato a soffrire il male della madre. E lui aveva compreso che non avrebbe mai più potuto parlarne con nessuno, che questo marchio sull’anima ce l’aveva solo lui: una condanna, una dannazione.
Negli anni che seguirono, lui andò definendo i confini del Fatto. Vedeva i morti. Non tutti e non a lungo: solo quelli morti violentemente, e per un periodo di tempo che rifletteva l’estrema emozione, l’energia improvvisa dell’ultimo pensiero. Li vedeva come in una fotografia che fissava il momento in cui si era conclusa la loro esistenza, con i contorni che andavano man mano sbiadendo fino a scomparire: anzi, come in una pellicola, di quelle che aveva visto qualche volta al cinematografo, che però replicava sempre la stessa scena. L’immagine del morto con i segni delle ferite e l’espressione dell’ultimo attimo prima della fine; e le ultime parole, ripetute incessantemente, come a voler finire un lavoro cominciato dall’anima prima di essere strappata via.
Sentiva l’emozione, più di tutto: coglieva di volta in volta il dolore, la sorpresa, la rabbia, la malinconia. Perfino l’amore: ricordava spesso, nelle notti in cui la pioggia batteva alla sua finestra e lui non riusciva a prendere sonno, la scena di un delitto in cui l’immagine di un bambino, seduto nel catino in cui era morto affogato, allungava la mano proprio verso il punto in cui si trovava la madre, a cercare aiuto dalla sua stessa assassina. Ne aveva percepito tutto l’amore incondizionato ed esclusivo. Un’altra volta si era trovato davanti al cadavere di un uomo pugnalato dall’amante pazza di gelosia nel momento dell’orgasmo: ne aveva colto l’intensità del piacere ed era dovuto uscire in tutta fretta dalla stanza, il fazzoletto premuto sulla bocca.
Così era il Fatto, la sua condanna: gli arrivava addosso come il fantasma di un cavallo in corsa, senza dargli il tempo di evitarlo; nessun avvertimento lo precedeva, nessuna sensazione fisica lo seguiva se non il ricordo. Ancora una cicatrice sulla sua anima.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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