Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Serenata senza nome di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 19,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Serenata senza nome: trama del libro
Sono passati piú di quindici anni da quando Vinnie Sannino è emigrato in America, imbarcandosi di nascosto su una nave. Là ha avuto successo, è diventato campione mondiale di pugilato nella categoria dei mediomassimi. Ma il suo ultimo avversario, un pugile di colore, è morto, e lui non se l’è piú sentita di continuare. Adesso è tornato per inseguire l’amore mai dimenticato, Cettina, la ragazza che alla sua partenza aveva pianto disperata. La vita, però, è andata avanti anche per lei, che ora è donna e moglie. Vedova, anzi: perché il marito, un ricco commerciante, viene trovato morto. Qualcuno lo ha assassinato finendolo con un pugno alla tempia, simile a quello che, in una sera maledetta, Vinnie ha vibrato sul ring dall’altra parte del mondo. Per Ricciardi e Maione, e per i loro cuori, sarà davvero una brutta settimana di pioggia.
Approfondimenti sul libro
In ebook Serenata senza nome (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro. Qui potete trovare la lista di tutti i libri del Commissario Ricciardi.
All’inizio credeva fosse perché il vecchio è quasi cieco, con quegli occhi velati di bianco. Adesso, però, non ne è piú tanto sicuro. Certo, quelli che vedono poco si orientano senza problemi negli ambienti a loro familiari, sembra quasi ci si muovano meglio di chi invece ci vede benissimo. Ma quel vecchio, il ragazzo ormai lo sa, è speciale. Sotto un sacco di aspetti.
Lo riceve sempre nel pomeriggio e gli chiede subito di aprire le imposte, che in genere tiene accostate. Lui, il ragazzo, ormai sa a memoria il percorso che porta alla finestra fra cataste di libri e vecchi giornali, dischi e scatole dal misterioso contenuto ammucchiate senza ordine, cosí ci arriva senza fare troppi danni. Ma continua a pensare che non ci sia abbastanza luce, in quella stanza.
Il messaggio gli è arrivato che aveva appena finito di suonare. Mentre andava in camerino, accompagnato dagli applausi e con tutti quelli che cercavano di fermarlo per una firma o un saluto, ha scorto la donna nella penombra, un biglietto in mano. Non l’ha riconosciuta subito, quando vedi qualcuno fuori contesto la mente non collega. Poi ha capito, e un battito è saltato. In fondo è vecchio. Molto vecchio.
Ha scansato le mani e i sorrisi e le si è avvicinato. Ogni volta lei gli apre la porta in silenzio e lo conduce all’interno, ma il ragazzo, se ne accorge in quel momento, non l’ha mai guardata bene. È una donnetta insignificante, i capelli raccolti, gli occhi bassi. Indossa un soprabito scuro e se ne sta nell’angolo buio del corridoio che porta dal palco al retroscena.
Il ragazzo ha atteso, con l’anima piena di pensieri sinistri. La donna gli ha allungato il biglietto. La grafia inclinata, incerta: domani alle diciotto.
Sono mesi che il ragazzo va dal vecchio. Ha sempre sollecitato lui gli incontri, chiedendo con insistenza di essere ricevuto. E piú volte si è trovato davanti la donna che gli ha mormorato: il Maestro oggi non può, tornate domani. Ora, all’improvviso, una convocazione; addirittura. Il ragazzo ha domandato se fosse successo qualcosa, se il Maestro stesse bene, ma lei si è stretta nelle spalle ed è andata via senza salutare.
Oggi è domani, e il ragazzo, sulla porta, sbatte gli occhi perché la luce è troppa.
La finestra è aperta. Il vecchio è in piedi, le braccia conserte; i radi capelli bianchi e lunghi si muovono pigri nel vento. Il ragazzo rabbrividisce.
Buonasera, Maestro, dice, stringendo il bavero del soprabito. Lassú l’aria pare diversa rispetto alla strada: tagliente, fredda. Il tramonto spezza il cielo, la notte e le nuvole premono dall’altro lato. Il mare, che il ragazzo distingue dalla soglia, si muove inquieto.
Pensa che avrà visto il vecchio in piedi non piú di un paio di volte, in quei mesi. È sempre su quella poltrona sformata, immerso in un apparente dormiveglia, salvo che poi all’improvviso gli parla, come se leggesse nella sua mente. E di solito è ben coperto, anche nei giorni caldissimi dell’estate, la camicia abbottonata fino al collo, un gilet e una coperta leggera sulle gambe. Adesso invece se ne sta là, nella corrente d’aria che entra impetuosa nella stanza. Qualche foglio dal mucchio alle sue spalle cade a terra. Il ragazzo tossicchia, fa un passo avanti e dice: Maestro, vi prego, fa freddo. Chiudiamo la finestra, venite a sedervi. Non sentite il vento?
Il vecchio neanche si gira, gli occhi velati sembrano scrutare un angolo tra cielo e mare. Dice, serio: non è il vento, questo. È l’autunno. Lo conosci, l’autunno?
Il ragazzo ha imparato che per certe domande del vecchio, all’apparenza incomprensibili, non ci sono una risposta giusta e una sbagliata. Per un po’ ha creduto che fosse svanito, che non avesse un contatto stabile con la realtà e che non potesse insegnargli niente. Questo prima di capire che imparava di piú in un’ora passata in quella strana stanza piena di vecchiaia che in cento ore di corsi presso celebrati professori d’orchestra.
So quello che sanno tutti, Maestro. È una stagione intermedia, tra estate e inverno. Piove spesso, giornate calde e giornate fredde. Comincia la scuola. So questo.
Ma la musica?, pensa. Quando parliamo di musica? Io sono qui per questo. Perché mi hai mandato a chiamare?
Il vecchio si volta a metà.
Una stagione intermedia, dici. No. Non è cosí. L’autunno è l’inizio. L’autunno è la fine. E sai perché?
Ecco, la musica. Sta di nuovo parlando di musica, pensa il ragazzo con un brivido. Sta ricordando qualcosa che ha a che fare con la musica. Una volta, quando era ancora caldo e dalla finestra socchiusa entrava l’odore del mare, invece del vento freddo, il vecchio gli ha detto: se parliamo di sentimenti, parliamo di musica; non te lo scordare. E il ragazzo non se lo scorda.
Perché nell’autunno ci sta la perdita. Ecco perché.
Il vecchio lo dice con un tono diverso. Con un tono che ha dentro storie e ricordi. Con un tono che ha le partenze ma non i ritorni. Il ragazzo è pur sempre un artista, e la sua anima ha un lungo brivido.
La perdita, Maestro? La perdita? Quale perdita?
Il vecchio si volta del tutto e lo guarda per la prima volta. Il vento cambia il verso dei lunghi capelli bianchi. Mezza faccia illuminata dal tramonto, rosata di sangue; l’altra metà nera d’ombra e di sconfitte e di rughe. Il ragazzo si accorge dello strumento nella mano, finora nascosto, tenuto per il manico come se fosse un prolungamento del braccio: una protesi di legno d’abete, panciuta e con quattro coppie di corde.
Quando vede il mandolino il ragazzo avverte una specie di frustata. I muscoli si irrigidiscono, la pelle si prepara prima ancora della mente ad assorbire famelica ogni accordo, ogni variazione magica di quelle dita deformi capaci di trarre suoni eccelsi. È là per questo, il ragazzo. Per imparare quel suono unico. Perché tutta la gente che va a sentirlo cantare, che lo adora come un piccolo dio, non sa che la vera musica, quella che lui darebbe una gamba per saper suonare, abita in una stanzetta a mezza collina, tra le mani artritiche di un vecchio che non vuole condividerla con nessuno. E lui va là per rubarla, nota dopo nota, quasi sperando di esserne contagiato.
Parla cauto, gli occhi fissi sullo strumento come se temesse che, in preda a un raptus, il vecchio possa scagliarlo fuori dalla finestra aperta.
La perdita, sí. Me la raccontate, Maestro, la perdita che c’è nell’autunno?
Il vecchio gli sorride e all’improvviso sembra pazzo, di una pazzia dolce e disperata. Mica te la racconto io, la perdita. La perdita, lo sai, sta nella canzone.
Quale canzone?, chiede il ragazzo. Spera che il vecchio ne tiri fuori una sconosciuta; sarebbe una meraviglia inserirla nel repertorio. La gente rimarrebbe a bocca spalancata.
Il vecchio, per tutta risposta, compie un gesto fluido e deciso, impugnando il mandolino con precisione assoluta. Il ragazzo si rende conto che quel gesto è stato ripetuto migliaia, forse milioni di volte. È semplice, definitivo. Lo ha sempre visto suonare da seduto, il vecchio; nemmeno pensava che avesse la forza di reggerlo, lo strumento, se non appoggiandolo sul ginocchio. E invece eccolo là, nella luce del tramonto e nel vento dell’autunno, senza tracolla e senza sostegni. Al solito non si guarda le mani, non guarda le corde. In genere gli occhi sono fissi su un punto lontano nel tempo e nello spazio, alle calcagna di chissà quale ricordo smarrito, di chissà quale illusione. Ora, invece, quelle pupille velate sono addosso a lui, al ragazzo, insieme a un mezzo, triste sorriso.
Il vecchio tira fuori un paio di accordi e il ragazzo li riconosce all’istante. Prova un po’ di delusione; non solo la canzone non è sconosciuta, è tra le piú famose, forse la piú famosa di tutte.
Ma come sempre, nella stanza polverosa dove abita la Musica, quel suono gli spacca il cuore in due. E la celebre introduzione diventa qualcosa di nuovo e antico, di dolcemente noto eppure mai sentito.
Il vecchio si ferma, come se qualcuno gli avesse parlato all’orecchio. Si gira ancora verso il vento. Sí, dice. Qui c’è la perdita. La disperazione della perdita.
Il ragazzo scuote il capo: Maestro, ma perché una perdita? Questa è una serenata, no? È un lamento, sí, la sofferenza, capisco; ma la perdita?
Il vecchio sospira. Si avvicina alla finestra, ormai la sera ha vinto sul tramonto. Va a sedersi, trascinando i piedi; si sistema la coperta sulle gambe, ma non lascia lo strumento.
Parla piano.
Questa canzone, dice. Questa canzone tu la suoni bene, e la canti bene. Eppure è quella che sbagli di piú.
Il ragazzo pensa agli applausi, al silenzio assorto del pubblico, al trionfo quando chiude. Al fatto che è quello il pezzo che gli viene piú richiesto, quello che riserva come ultimo bis. E si chiede, ancora una volta, quand’è stato che il vecchio lo ha sentito cantare.
Maestro, chiede: perché la sbaglio? Io mi attengo allo spartito originale, e la canto tutta intera… Ci stanno colleghi che fanno solo due strofe. Se mi potete spiegare…
La sbagli. Perché non ci metti la perdita che ci sta dentro. La chiave della storia raccontata dalla canzone è la perdita. Lui va a cantare sotto alla finestra di lei perché l’ha perduta.
Il ragazzo sussurra: ma no, Maestro. Non l’ha perduta. Infatti poi si sposano, e nella realtà…
Il vecchio batte la mano aperta sulla custodia del mandolino; un colpo secco, rabbioso. Come uno sparo.
No! Nel momento in cui scrive, lui l’ha perduta. Fai sempre lo stesso errore, credi che una canzone sia una canzone e che sia scritta per essere cantata. Non è cosí. La canzone è un messaggio, non lo capisci? Un messaggio. Lei si è sposata, lui l’ha perduta. Ed è autunno, e se non lo è, è come se lo fosse. È finita, non capisci? Finita!
Il ragazzo incassa la testa nelle spalle, sorpreso dalla potenza di quella voce che rimbomba nella stanza carica di livore e di rabbia. Che cazzo vuole, questo?, pensa. Adesso lo mando a quel paese e me ne vado, basta subire, chi si crede di essere?
Ma il vecchio continua.
È questo il motivo per cui canti, non lo vuoi capire? Tu canti per raccontare in eterno quella storia. Tu canti ogni sera per portare nel tempo quel sentimento. Non contano niente le ragazzine che vengono a sentirti, né gli uomini e le donne che ti applaudono in piedi. Non cambia di una virgola se canti da solo, nel cesso di casa, oppure su quel palco. La storia non è tua, ma sei tu che devi raccontarla. Lui è in strada, nella notte; lei è dietro una finestra, con l’uomo che le hanno messo al fianco. Lui sa del dolore di lei, ne conosce la rassegnazione; non vuole farle del male, però non può tacere. Non riesce a lasciarla. Non può lasciarla.
Ha scritto in un’ora, ha la febbre alta. Anche il suo amico ha tagliato e cucito la musica in un’ora sola. Nel buio silenzioso, nel vento freddo dell’autunno, chi canta è un uccello accecato che ha perso la compagna. Per sempre, non ha dubbi. Non sarà mai piú felice. È un condannato a morte che canta il rimpianto per la vita. Aspetta che la luce della finestra si spenga per dare inizio alla sua dannazione eterna, poi le dice perché è là. Le canta la perdita. Le canta l’autunno.
Stai a sentire.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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