Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La signora del lago di Andrzej Sapkowski. Il romanzo è pubblicato in Italia da Nord con un prezzo di copertina di 19,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 11,99.
La signora del lago: trama del libro
L’inverno si avvicina. Stremati, Geralt e i suoi compagni sono costretti a fermarsi a Toussaint, un piccolissimo regno d’incredibile bellezza, risparmiato dalla guerra grazie alla sua posizione isolata. Lì, lo strigo spera di trovare un posto sicuro per recuperare le forze, e soprattutto informazioni che possano aiutarlo nella ricerca di Ciri. Geralt non sa se le voci secondo cui la ragazza sarebbe stata catturata dall’esercito imperiale siano vere. Una cosa è certa: ha bisogno di lui. Tuttavia Ciri non è l’unica a essere in grave pericolo: le spie di Nilfgaard sono ovunque, e persino in un luogo idilliaco come Toussaint c’è qualcuno che trama nell’ombra perché Geralt non ne esca vivo… L’hanno ribattezzata la Signora del Lago. Per sfuggire alle truppe di Nilfgaard, Ciri ha varcato il portale magico nascosto nella Torre della Rondine e, da quel giorno, gli elfi si sono presi cura di lei, guarendo le sue ferite e trattandola come un vera principessa. Ciri quindi ha abbassato la guardia e non si è subito resa conto di non essere affatto una loro gradita ospite, bensì una prigioniera. Ma, adesso che ha scoperto il gioco degli elfi, deve assolutamente riuscire a evadere. Perché lei è la Fiamma di cui parlano le profezie. Ed è giunto il tempo che il suo destino si compia.
Tanto per cominciare, era vicinissimo allo sbocco della valle maledetta di Cwm Pwcca, una valle misteriosa perennemente avvolta nella nebbia, famosa per gli incantesimi e i fenomeni magici.
E poi bastava guardare.
La superficie dell’acqua era di un azzurro carico, intenso, limpido, proprio come quello di uno zaffiro levigato. Era liscia come uno specchio, al punto che le cime del massiccio dell’Y Wyddfa apparivano più belle nella loro immagine riflessa che nella realtà. Dal lago, spirava un freddo alito vivificante, e non c’era nulla a turbarne il silenzio solenne, neppure il guizzo di un pesce o il grido di un uccello acquatico.
Il cavaliere trasalì, impressionato. Ma, anziché proseguire lungo la cresta della collina, diresse il cavallo in basso, verso il lago. Come attratto dalla forza magnetica di un incantesimo celato laggiù, sul fondo, nell’abisso delle acque. Il cavallo avanzava timoroso tra le rocce frantumate, lasciando intendere con uno sbuffo sommesso che percepiva anche lui quell’aura magica.
Una volta raggiunta la spiaggia, il cavaliere smontò, poi, tirando il destriero per le redini, si avvicinò al limitare dell’acqua, dove piccole onde giocavano tra i ciottoli colorati.
S’inginocchiò facendo stridere il giaco e raccolse l’acqua nelle mani a coppa tra il fuggi fuggi degli avannotti, piccoli e lesti come aghi. Beveva con cautela, adagio, il liquido gelido gli intorpidiva le labbra e la lingua, gli provocava fitte ai denti.
Mentre attingeva altra acqua, sentì un suono giungere attraverso la superficie del lago. Sollevò la testa. Il cavallo soffiò, come per confermare che lo aveva sentito anche lui.
Tese l’orecchio. No, non era un’illusione. Udiva un canto. A cantare era una donna. O piuttosto una fanciulla.
Come ogni cavaliere che si rispetti, il cavaliere era cresciuto tra le canzoni dei bardi e i racconti cavallereschi. Nei quali, nove volte su dieci, i canti o i lamenti delle fanciulle erano un’esca e i cavalieri che li seguivano cadevano regolarmente in una trappola. Non di rado mortale.
Ma la curiosità ebbe la meglio. In fin dei conti, il cavaliere aveva solo diciannove anni. Era molto coraggioso e molto avventato. Per una cosa era famoso, per l’altra solo noto.
Verificò che la spada scivolasse a dovere nel fodero, quindi tirò il cavallo e si avviò lungo la spiaggia, verso il punto da cui giungeva il canto. Non dovette andare lontano.
La riva era disseminata di massi scuri, resi lustri dal continuo attrito dell’acqua; si sarebbero detti giocattoli di giganti gettati via con noncuranza o dimenticati dopo averli utilizzati. Alcuni di essi, immersi nel lago, nereggiavano sotto la superficie trasparente. Altri, lambiti dalle onde, ne sporgevano come groppe di leviatani. Ma per lo più giacevano sulla riva, tra la spiaggia e il bosco. Parzialmente sepolti nella sabbia, lasciavano solo intuire le loro reali dimensioni.
Il canto giungeva proprio da dietro questi ultimi. Ma della fanciulla che lo eseguiva non c’era traccia. Il cavaliere tirò il cavallo, tenendolo per il morso e le froge, per impedirgli di nitrire o sbuffare.
I vestiti della fanciulla erano su uno dei massi che si trovavano nel lago, piatto come il piano di un tavolo. Quanto a lei, nuda, immersa nell’acqua fino alla vita, si lavava sguazzando e canticchiando. Il cavaliere non capiva le parole.
E non c’era da stupirsi.
La fanciulla, ci avrebbe scommesso la testa, non era una persona in carne e ossa. Lo dimostravano il corpo snello, lo strano colore dei capelli, la voce. Era certo che, se si fosse girata, avrebbe visto dei grandi occhi a mandorla. E che, se avesse scostato i capelli biondo cenere, avrebbe probabilmente scorto dei padiglioni auricolari a punta.
Era un’abitante di Faërie. Una fata. Una Tylwyth Têg. Una delle creature che i pitti e gli irlandesi chiamavano Daoine Sidhe, il Piccolo Popolo delle Colline. E che i sassoni chiamavano elfi.
La fanciulla smise per un istante di cantare, s’immerse fino al collo, sbuffò, soffiò e lanciò un’imprecazione alquanto volgare. Ma il cavaliere non si lasciò trarre in inganno. Le fate, era risaputo, sapevano imprecare come gli umani. A volte in maniera più oscena degli stallieri. E molto spesso le imprecazioni erano il preambolo di tiri maligni per i quali le fate avevano notoriamente una predilezione, come far diventare un naso grosso quanto un cetriolo o degli attributi maschili piccoli quanto semi di zucca.
Il cavaliere non era attratto né dalla prima né dalla seconda eventualità. Stava per filarsela alla chetichella, quando d’un tratto fu tradito dal cavallo. No, non dal suo destriero che, tenuto per le froge, se ne stava buono buono in silenzio, bensì da quello della fata, una giumenta morella che in un primo momento non l’aveva scorto. Ma adesso la giumenta nera come la pece raspò la ghiaia con lo zoccolo e nitrì in segno di saluto. Lo stallone del cavaliere gettò indietro la testa e rispose cortesemente. L’eco del suo nitrito risuonò sulla superficie del lago.
La fata balzò fuori dall’acqua, presentandosi per un momento agli occhi del cavaliere in tutto il suo splendore, quindi corse verso la roccia sulla quale aveva deposto i vestiti. Invece di prendere la camiciola e coprirsi pudicamente, l’elfa agguantò la spada e la estrasse con un sibilo dal fodero, maneggiandola con sorprendente abilità. Fu questione di un attimo, dopodiché si accovacciò, o forse s’inginocchiò, immergendosi in acqua fino al naso e allungando il braccio con la spada fuori della superficie.
Il cavaliere trasalì per lo stupore, si lasciò cadere nell’acqua e piegò un ginocchio sulla sabbia bagnata. Perché aveva subito capito con chi aveva a che fare. «Salute a voi», balbettò, tendendo le braccia. «È per me un grande onore… Un gran privilegio, Signora del Lago. Ricevo questa spada…»
«Magari potresti alzarti e girarti dall’altra parte?» disse la fata dopo aver sporto la bocca fuori dall’acqua. «E smetterla di fissarmi così? E permettere che mi vesta?»
Il cavaliere obbedì.
La sentì uscire dall’acqua sguazzando, la sentì armeggiare coi vestiti e imprecare piano mentre li infilava sul corpo bagnato. Osservò la giumenta morella dal manto liscio e lucente come il pelo di una talpa. Era senza dubbio una purosangue, senza dubbio veloce come il vento. Senza dubbio fatata. E sicuramente veniva anch’essa da Faërie, come la sua padrona.
«Ora puoi girarti.»
«Signora del Lago…»
«E presentarti.»
«Sono Galahad di Caer Benic. Cavaliere di re Artù, signore del castello di Camelot, sovrano del Regno dell’Estate nonché di Dumnonia, Dyfneint, Powys, Dyfed…»
«E la Temeria?» lo interruppe. «La Redania, Rivia, Aedirn? E Nilfgaard? Questi nomi ti dicono qualcosa?»
«No. Non li ho mai sentiti.»
La fanciulla scrollò le spalle. In mano, oltre alla spada, aveva gli stivali e la camicia, lavata e strizzata. «Lo immaginavo. E quale giorno dell’anno è oggi?»
Vivamente meravigliato, il cavaliere spalancò la bocca. «È il secondo plenilunio dopo Beltane… Signora…»
«Ciri», disse macchinalmente lei, scuotendo le spalle, per sistemare meglio i vestiti sulla pelle ancora umida. Parlava in maniera strana, aveva grandi occhi verdi…
Allontanò con gesto istintivo i capelli bagnati dal viso, e al cavaliere sfuggì un sospiro. Non solo perché il suo orecchio era normale, umano, per nulla da elfa. Aveva la guancia orribilmente deturpata da una lunga cicatrice. Era stata ferita. Ma si poteva ferire una fata?
La fanciulla notò il suo sguardo, socchiuse le palpebre e arricciò il naso. «È uno sfregio, già!» esclamò col suo curioso accento. «Perché quell’espressione spaventata? È dunque una cosa tanto strana per un cavaliere, una cicatrice? O spaventosa?»
Lentamente, con tutte e due le mani, il cavaliere abbassò il cappuccio del giaco e scostò i capelli. «Non è certo una cosa strana per un cavaliere», rispose, non senza un certo orgoglio giovanile, mostrando uno sfregio appena cicatrizzato che andava dalla tempia alla mandibola. «Solo le cicatrici sull’onore sono brutte. Sono Galahad, figlio di Lancelot du Lac ed Elaine, figlia di re Pelleas, signore di Caer Benic. Questa ferita mi è stata inferta da Breunis Senza Pietà, ignobile persecutore di fanciulle, prima che lo sconfiggessi in un combattimento leale. In verità, sono degno di ricevere dalle vostre mani questa spada, Signora del Lago…»
«Come?»
«La spada. Sono pronto a riceverla.»
«È la mia spada. Non permetto a nessuno di toccarla.»
«Ma…»
«’Ma’ cosa?»
«Ma la Signora del Lago… Emerge sempre dalle acque per fare dono di una spada.»
Ciri rimase qualche istante in silenzio. «Capisco. Già, mogli e buoi dei paesi tuoi. Mi spiace, Galahad o come ti chiami, ma evidentemente non ti sei imbattuto nella Signora giusta. Io non elargisco nulla. Né permetto che mi si prenda nulla. Tanto per mettere le cose in chiaro.»
«Ma venite da Faërie, mia Signora, non è vero?» osò replicare il cavaliere.
«Vengo…» rispose lei dopo un breve silenzio, e i suoi occhi verdi sembravano fissare un abisso di spazio e tempo. «Vengo da Rivia, da una città che porta lo stesso nome. Su un lago, il Loc Eskalott. Sono arrivata in barca. C’era nebbia. Non vedevo le rive. Sentivo soltanto il nitrito di Kelpie… la mia giumenta, che mi è corsa dietro.» Distese la camicia bagnata su un sasso.
Il cavaliere trasse un altro sospiro. La camicia era stata lavata, ma non perfettamente. Vi si scorgevano ancora delle macchie di sangue.
«Mi ha portata qui la corrente di un fiume», proseguì la fanciulla, senza notare che il cavaliere aveva scorto le macchie, o fingendo di non averlo notato. «La corrente di un fiume e l’incantesimo di un unicorno… Come si chiama questo lago?»
«Non lo so», ammise lui. «Ci sono tanti di quei laghi nel Gwynedd…»
«Nel Gwynedd?»
«Già. Quelle montagne sono l’Y Wyddfa. Se si cavalca attraverso i boschi tenendole alla propria sinistra, dopo due giorni si arriva a Dinas Dinfleu, poi a Caer Dathal. Quanto al fiume… Il fiume più vicino è…»
«Non importa come si chiama il fiume più vicino. Hai qualcosa da mettere sotto i denti, Galahad? Sto letteralmente morendo di fame.»
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore polacco rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrzej Sapkowski.
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