Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Sol levante di Michael Crichton. Il romanzo è pubblicato in Italia da Garzanti con un prezzo di copertina di 9,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Sol levante: trama del libro
Los Angeles, grattacielo Nakamoto: mentre si festeggia l’inaugurazione dell’avvenniristica sede della multinazionale giapponese, nella sala riunioni viene scoperto il cadevere di giovane donna. Un delitto a sfondo sessuale o rituale? Il caso viene affidato all’anziano capitano Connor, esperto conoscitore del mondo nipponico, e al giovane e coriaco tenente Smith, che in un vertiginoso susseguirsi di colpi di scena sveleranno un oscuro intreccio di connivenze tra malavita e alta finanza.
Approfondimenti sul libro
L’ebook di Sol levante (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di euro 8,99.
Era una serata tranquilla; avevo messo a letto mia figlia verso le otto e, dopo aver sistemato il registratore sul letto, stavo ascoltando una briosa voce femminile che diceva cose tipo: “Buongiorno, sono un agente di polizia. Posso esserle d’aiuto?” e “Il menu, per favore”. S’interrompeva dopo ogni frase per darmi modo di ripeterla in giapponese. Tiravo avanti come meglio potevo. Poi quella diceva: “Il fruttivendolo è chiuso. Dov’è l’ufficio postale?”. Roba del genere. A tratti mi riusciva difficile concentrarmi, ma ci provavo. “Il signor Hayashi ha due figli”.
Cercavo di stare al passo. “Hayashi-san wa kodomo ga fur… futur…”.Imprecai. Ma ormai la donna aveva ripreso a parlare.
“Questo drink non è affatto buono”.
Avevo il manuale aperto sul letto accanto al pupazzo Testapatata che avevo riparato per mia figlia. E vicino al pupazzo un album e le foto del suo secondo compleanno. Erano passati quattro mesi dalla festa di Michelle ma non avevo ancora messo a posto le foto nell’album. Ci vuole un po’ di buona volontà per star dietro a queste cose.
“Alle quattordici ci sarà una riunione”.
Le foto sul letto non rispecchiavano più la realtà. A quattro mesi di distanza, Michelle era completamente cambiata. Era più alta e il lussuoso vestito di velluto nero con colletto di pizzo bianco che la mia ex moglie le aveva portato non le andava più bene.
Nelle foto la mia ex moglie ha un ruolo di primo piano: regge la torta mentre Michelle spegne le candeline e aiuta la bambina a scartare i regali. Sembra una mammina devota. Di fatto, mia figlia vive con me e la mia ex moglie non la vede più di tanto. Metà delle volte non si presenta durante i weekend concordati per le visite e spesso dimentica i contributi per il mantenimento della bambina.
Ma dalle foto non lo si direbbe proprio.
“Dov’è la toilette?”.
“Ho la macchina. Possiamo andare insieme”.
Continuai a studiare. Ufficialmente quella sera ero di servizio: dovevo essere reperibile per il quartier generale della Divisione Servizi Speciali di Los Angeles-centro. Ma quel giovedì nove febbraio era una serata tranquilla e non mi aspettavo grandi eventi. Erano già le nove e avevo ricevuto solo tre chiamate.
I Servizi Speciali comprendono anche la sezione diplomatica del dipartimento di polizia; ci occupiamo di problemi riguardanti i diplomatici e le celebrità, e forniamo interpreti e agenti di collegamento agli stranieri che per una ragione o per l’altra vengano a trovarsi in contatto con la polizia. È un lavoro vario ma non stressante: di solito, nei turni in cui devo essere reperibile, ricevo una mezza dozzina di chiamate, nessuna delle quali urgente. Capita di rado ch’io debba precipitarmi sul posto. È molto meno impegnativo del lavoro che svolgevo prima, presso l’ufficio stampa della polizia.
Torniamo alla sera del nove febbraio. La prima chiamata riguardava Fernando Conseca, il vice-console del Cile, che era stato fermato da un’auto di pattuglia. Ferny era troppo sbronzo per guidare, ma si appellava all’immunità diplomatica. Dissi agli agenti di riaccompagnarlo a casa e mi ripromisi di rinnovare le mie rimostranze presso il consolato la mattina seguente.
Un’ora più tardi, ricevetti una chiamata dal nucleo investigativo di Gardena. Dopo una sparatoria in un ristorante avevano fermato un tizio che parlava solo samoano e volevano un interprete. Risposi che avrei potuto benissimo trovarne uno, ma che non c’era samoano che non parlasse inglese: parte dell’arcipelago è da anni un possedimento degli USA. Gli agenti dissero che si sarebbero arrangiati. In seguito mi venne segnalato che alcuni furgoni di unità televisive mobili bloccavano gli accessi agli idranti antincendio al concerto degli Aerosmith; dissi agli agenti di rivolgersi al dipartimento dei vigili del fuoco. Nell’ora che seguì tutto tacque. Tornai al mio manuale e alla voce cantilenante che diceva cose tipo: “Ieri il tempo era piovoso”.
Poi mi chiamò Tom Graham.
«Sono quegli stronzi di giapponesi», disse Graham. «Mi sembra incredibile che facciano tutto questo casino. È meglio se vieni qui, Petey-san. Figueroa Boulevard, numero millecento, all’angolo con la Settima. È il nuovo palazzo Nakamoto».
«Che problemi ci sono?», mi sentii in dovere di chiedere. Graham è un buon agente ma ha un pessimo carattere, e tende a ingigantire le cose.
«Il problema è che questi stronzi di giapponesi vogliono vedere quello stronzo dei Servizi Speciali addetto ai collegamenti», rispose Graham. «Che saresti tu, amico mio. Dicono che la polizia non può intervenire sino a che non arriva l’agente di collegamento».
«Non può intervenire in cosa? Perché? Che cos’è successo?».
«Omicidio», rispose Graham. «Donna bianca, sui venticinque anni, probabile codice sei-zero-uno. Secca stecchita proprio nella sala del consiglio d’amministrazione. Non ti dico che spettacolo. È meglio se vieni il più presto possibile».
«È musica quel rumore di fondo?», chiesi.
«Maledizione, sì», rispose Graham. «C’è una gran festa al piano di sotto. È la sera dell’inaugurazione del palazzo Nakamoto, e danno un ricevimento. Insomma, ti decidi a venire?».
Gli risposi di sì. Chiamai la mia vicina per chiederle se poteva badare alla bimba durante la mia assenza; la signora Ascenio ha sempre bisogno di qualche soldarello extra. Mentre l’aspettavo, mi cambiai la camicia e indossai il completo delle grandi occasioni. Poi telefonò Fred Hoffmann. Era caposezione al quartier generale di Los Angeles-centro; un tipo energico, basso, coi capelli grigi. «Senti, Pete, credo che in questo caso ti servirà un po’ d’aiuto».
«Perché?», chiesi.
«Sembra che si tratti di un omicidio in cui sono coinvolti dei cittadini giapponesi. Potrebbe essere una faccenda delicata. Da quanto tempo lavori in questo settore?».
«Circa sei mesi».
«Al tuo posto mi farei dare una mano da un esperto. Chiama Connor e portalo con te».
«Chi?».
«John Connor. Mai sentito nominare?».
«Certo», risposi. Tutti, nella mia divisione, avevano sentito parlare di Connor. Era l’agente più in gamba dei Servizi Speciali, una vera e propria leggenda. «Ma non è andato in pensione?».
«È in congedo illimitato, ma si occupa ancora di casi riguardanti i giapponesi. Penso che ti potrebbe essere d’aiuto. Facciamo così: lo chiamo io, tu basta che lo passi a prendere». Hoffmann mi diede l’indirizzo.
«D’accordo. Grazie».
«Ancora una raccomandazione. Solo linee telefoniche normali in questo caso. Chiaro, Pete?».
«Okay», risposi. «Da chi viene la richiesta?».
«È meglio così, e basta».
«Come vuoi tu, Fred».
Solo linee telefoniche normali voleva dire non servirsi della radio, per impedire che le nostre trasmissioni venissero captate da chi si inseriva nella banda di frequenza della polizia. In determinate situazioni era la prassi. Tutte le volte che Elizabeth Taylor veniva ricoverata in ospedale, dovevamo servirci solo del telefono. O se il figlio adolescente di qualche celebrità si schiantava in un incidente d’auto evitavamo di usare la radio per essere sicuri che i genitori venissero avvisati prima che le troupe televisive cominciassero a battere alla porta. Ricorrevamo al telefono per questo genere di cose. Non mi risultava che fosse stato mai richiesto in un caso di omicidio.
Nel tragitto verso il centro lasciai stare il radiotelefono e ascoltai la radio. Davano la notizia di un bambino di tre anni paralizzato dalla cintola in giù da un colpo d’arma da fuoco. Il bimbo si era trovato sulla scena di una rapina in uno dei supermercati della catena 7-Eleven. Un proiettile vagante l’aveva colpito alla spina dorsale e ora…
Cambiai stazione e trovai un talk-show. Nella foschia davanti a me baluginavano le luci dei grattacieli del centro. Lasciai la tangenziale a San Pedro, l’uscita più vicina alla casa di Connor.
Di lui sapevo solo che la sua conoscenza della lingua e della cultura giapponesi erano frutto di un lungo soggiorno in quel paese. Negli anni Sessanta era il solo funzionario di polizia che parlasse correntemente il giapponese, sebbene a Los Angeles ci fosse la più alta concentrazione di giapponesi al di fuori della madrepatria.
Adesso, ovviamente, il dipartimento ha più di ottanta agenti che sanno il giapponese… e altri, come me, che cercano d’impararlo. Connor era andato in pensione da qualche anno. Ma tutti gli agenti di collegamento che avevano lavorato con lui concordavano nel ritenerlo il migliore. Si diceva che sul lavoro fosse un fulmine: spesso risolveva un caso in poche ore. Aveva fama di essere abile nelle indagini e straordinario negli interrogatori: nessuno come lui riusciva a far parlare i testimoni. Ma soprattutto i colleghi lodavano il suo atteggiamento equanime. Uno mi aveva detto: «Lavorare coi giapponesi è come camminare su una fune. Prima o poi si cade o da un lato o dall’altro. C’è chi si convince che i giapponesi sono straordinari e che non sbaglino mai. Altri invece decidono che sono degli stronzi malintenzionati. Connor invece è sempre equilibrato e si tiene nel giusto mezzo. Sa sempre esattamente quello che fa».
John Connor abitava nella zona industriale nei dintorni della Settima Strada, in un grande deposito in mattoni accanto a una rimessa di autotreni. Il montacarichi dell’edificio era rotto. Salii a piedi sino al terzo piano e bussai alla porta.
«È aperto», disse una voce.
Entrai nel piccolo appartamento. Il soggiorno era vuoto e arredato in stile giapponese: stuoie, divisori scorrevoli e pareti rivestite da pannelli di legno. Un rotolo per esercizi di calligrafia, un tavolino di lacca nera, un vaso con una sola, squillante nota di bianco: un’orchidea.
Accanto alla porta vidi due paia di scarpe. Uno da uomo, con la mascherina perforata, all’inglese. L’altro era da donna, con i tacchi alti.
Chiamai: «Capitano Connor?».
«Sì, un attimo».
Si aprì un’anta scorrevole e comparve Connor. Molto alto, circa un metro e novanta, indossava una yukata, una vestaglia giapponese di cotone azzurro. Calcolai che doveva essere sui cinquantacinque anni. Spalle larghe, capelli radi, baffi ben curati, un volto dai tratti decisi, occhi penetranti. Voce profonda. Calma.
«Buona sera, tenente».
Ci scambiammo una stretta di mano. Connor mi scrutò da cima a fondo e fece un cenno d’approvazione. «Ottimo. Più che presentabile».
«Lavoravo nell’ufficio stampa», risposi. «Non si sa mai quando può capitare di trovarsi davanti a una telecamera».
Annuì. «E adesso è nei Servizi Speciali?».
«Sì».
«Da quanto tempo lavora come agente di collegamento?».
«Sei mesi».
«Parla giapponese?».
«Un po’. Sto prendendo lezioni».
«Mi dia qualche minuto per cambiarmi». Si voltò e sparì dietro il pannello scorrevole. «Si tratta di un omicidio?».
«Sì».
«Chi l’ha contattata?».
«Tom Graham. Dirige le prime indagini sul luogo del delitto. Mi ha detto che i giapponesi hanno insistito perché venisse chiamato un agente di collegamento».
«Capisco». Ci fu una pausa. Sentii lo scrosciare dell’acqua.
«È una richiesta normale?».
«No. A dir la verità non mi risulta che sia mai capitato. Di solito la polizia si rivolge ai Servizi Speciali quando ci sono problemi di lingua. Mai sentito di un giapponese che chiedesse un agente di collegamento».
«Neppure io», disse Connor. «Gliel’ha detto Graham di convocarmi? Tra me e lui non sempre corre buon sangue».
«No», risposi. «È stato un suggerimento di Fred Hoffmann. Ha l’impressione che io non abbia abbastanza esperienza e mi ha detto che le avrebbe telefonato al posto mio».
«Sicché l’hanno chiamata ben due volte a casa», disse Connor.
«Sì».
«Capisco». Ricomparve con indosso un completo blu, e si stava annodando la cravatta. «A quanto pare la tempestività è essenziale». Diede un’occhiata all’orologio. «Quando l’ha chiamata Graham?».
«Verso le nove».
«Sono già passati quaranta minuti. Andiamo, tenente. Dov’è la sua macchina?».
Ci precipitammo giù per le scale.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore e regista statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Michael Crichton.
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