Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, il romanzo Premio Strega edito in Italia da Mondadori con un prezzo di 18,00 euro per la versione con copertina rigida (ma online lo si acquista con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
La solitudine dei numeri primi: trama del libro
Alice è una bambina obbligata dal padre a frequentare la scuola di sci. È una mattina di nebbia fitta, lei non ha voglia, il latte della colazione le pesa sullo stomaco. Persa nella nebbia, staccata dai compagni, se la fa addosso. Umiliata, cerca di scendere, ma finisce fuori pista spezzandosi una gamba. Resta sola, incapace di muoversi, al fondo di un canale innevato, a domandarsi se i lupi ci sono anche in inverno. Mattia è un bambino molto intelligente, ma ha una gemella, Michela, ritardata. La presenza di Michela umilia Mattia di fronte ai suoi coetanei e per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia abbandona Michela nel parco, con la promessa che tornerà presto da lei. Questi due episodi iniziali, con le loro conseguenze irreversibili, saranno il marchio impresso a fuoco nelle vite di Alice e Mattia, adolescenti, giovani e infine adulti. Le loro esistenze si incroceranno, e si scopriranno strettamente uniti, eppure invincibilmente divisi. Come quei numeri speciali, che i matematici chiamano “primi gemelli”: due numeri primi vicini ma mai abbastanza per toccarsi davvero. Un romanzo d’esordio che alterna momenti di durezza e spietata tensione a scene rarefatte e di trattenuta emozione, di sconsolata tenerezza e di tenace speranza.
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«Allora, lo bevi o no questo latte?» la incalzò di nuovo suo padre.
Alice ingurgitò tre dita di latte bollente, che le bruciò prima la lingua, poi l’esofago e lo stomaco.
«Bene. E oggi fai vedere chi sei» le disse.
E chi sono?, pensò lei.
Poi la spinse fuori, mummificata nella tuta da sci verde, costellata di gagliardetti e delle scritte fluorescenti degli sponsor. A quell’ora faceva meno dieci gradi e il sole era solo un disco un po’ più grigio della nebbia che avvolgeva tutto. Alice sentiva il latte turbinare nello stomaco, mentre sprofondava nella neve con gli sci in spalla, che gli sci bisogna portarseli da soli, finché non diventi talmente bravo che qualcuno li porta per te.
«Tieni le code in avanti, che altrimenti ammazzi qualcuno» le disse suo padre.
A fine stagione lo Sci Club ti regalava una spilla con delle stelline in rilievo. Ogni anno una stellina in più, da quando avevi quattro anni ed eri abbastanza alta per infilare tra le gambe il piattello dello skilift, a quando ne compivi nove e il piattello riuscivi ad acchiapparlo da sola. Tre stelle d’argento e poi altre tre d’oro. Ogni anno una spilla per dirti che eri un po’ più brava, un po’ più vicina alle gare agonistiche che terrorizzavano Alice. Ci pensava già allora, che di stelline ne aveva solo tre.
L’appuntamento era di fronte alla seggiovia alle otto e mezzo in punto, per l’apertura degli impianti. I compagni di Alice erano già lì, a formare una specie di cerchio, tutti uguali come soldatini, imbacuccati nella divisa e rattrappiti dal sonno e dal freddo. Puntavano i bastoncini nella neve e ci si appoggiavano sopra, ancorandoli alle ascelle. Con le braccia a penzoloni sembravano tanti spaventapasseri. Nessuno aveva voglia di parlare, men che meno Alice.
Suo padre le diede due colpi troppo forti sul casco, manco volesse piantarla nella neve.
«Stendili tutti. E ricorda: peso in avanti, capito? Pe-so-in-a-vanti» le disse.
Peso in avanti, rispose l’eco nella testa di Alice.
Poi lui si allontanò, soffiandosi tra le mani chiuse a coppa, lui che se ne sarebbe presto tornato al calduccio di casa a leggere il giornale. Due passi e la nebbia se lo inghiottì.
Alice lasciò cadere malamente gli sci a terra, che se suo padre l’avesse vista gliele avrebbe suonate lì, davanti a tutti. Prima di infilare gli scarponi negli attacchi, li batté sul fondo con il bastoncino, per far venir giù le zolle di neve appiccicate.
Le scappava già un po’. La sentiva spingere sulla vescica, come uno spillo conficcato dentro la pancia. Non ce l’avrebbe fatta nemmeno oggi, ne era sicura.
Ogni mattina lo stesso. Dopo colazione si chiudeva nel bagno e spingeva, spingeva, per svuotarsi di tutta la pipì. Rimaneva sul water a contrarre gli addominali finché dallo sforzo non le prendeva una fitta alla testa e le sembrava che gli occhi le sgusciassero dalle orbite, come la polpa dell’uva fragola se schiacci l’acino. Apriva al massimo il rubinetto dell’acqua perché suo padre non sentisse i rumori. Spingeva stringendo i pugni, per spremere anche l’ultima goccia.
Rimaneva seduta così finché suo padre non bussava forte alla porta del bagno e gridava allora signorina, abbiamo finito che siamo in ritardo anche oggi?
Tanto non serviva a niente. Arrivata in fondo alla prima seggiovia le scappava sempre così forte che era costretta a sganciarsi gli sci, ad accovacciarsi nella neve fresca, un po’ in disparte, a fingere di stringersi gli scarponi e intanto a fare la pipì. Ammucchiava un po’ di neve addosso alle gambe tenute strette e si pisciava addosso. Dentro la tuta, nella calzamaglia, mentre tutti i suoi compagni la guardavano ed Eric, il maestro, diceva come sempre aspettiamo Alice.
È proprio un sollievo, si trovava a pensare ogni volta, con quel bel tepore che le si squagliava tra le gambe infreddolite.
Sarebbe un sollievo. Se solo non stessero tutti lì a guardarmi, pensava Alice.
Prima o poi se ne accorgeranno.
Prima o poi lascerò una chiazza gialla sulla neve.
Mi prenderanno tutti in giro, pensava.
Uno dei genitori si avvicinò a Eric e gli chiese se quel giorno non ci fosse davvero troppa nebbia per salire in quota. Alice tese le orecchie speranzosa, ma Eric esibì il suo sorriso perfetto.
«La nebbia è solo qui» disse. «In cima c’è un sole che spacca le pietre. Coraggio, tutti su.»
In seggiovia Alice fece coppia con Giuliana, la figlia di uno dei colleghi di papà. Durante il tragitto non parlarono. Non si stavano né simpatiche né antipatiche. Non avevano nulla in comune, se non il fatto di non voler essere lì, in quel momento.
Il rumore era quello del vento che spazzava la cima del Fraiteve, ritmato dallo scorrere metallico del cavo d’acciaio a cui Alice e Giuliana stavano appese, con il mento cacciato nel bavero della giacca per scaldarsi con il fiato.
È solo il freddo, non ti scappa veramente, si ripeteva Alice.
Ma più si avvicinava la cima, più lo spillone che aveva in pancia penetrava nella carne. Anzi, era qualcosa di più. Forse stavolta le scappava qualcosa di serio.
No, è solo il freddo, non può scapparti ancora. L’hai appena fatta, dài.
Un rigurgito di latte rancido le salì in uno spruzzo fino all’epiglottide. Alice lo ricacciò giù con disgusto. Le scappava, le scappava da morire.
Ci sono altri due impianti prima del rifugio. Non la tengo così tanto, pensò.
Giuliana sollevò la sbarra di sicurezza e tutte e due spostarono il sedere un po’ in avanti per scendere. Quando gli sci toccarono terra Alice si diede una spinta con la mano per staccarsi dal seggiolino.
Non si vedeva a più di due metri, altro che sole che spacca le pietre. Tutto bianco, solo bianco, sopra, sotto, di lato. Era come stare avvolti in un lenzuolo. Era il contrario esatto del buio, ma ad Alice faceva la stessa paura.
Scivolò a bordo pista per cercare una montagnola di neve fresca dove liberarsi. Il suo intestino fece il rumore di quando azioni la lavapiatti. Si voltò indietro. Non vedeva più Giuliana, perciò Giuliana non poteva vedere lei. Risalì il pendio di qualche metro, mettendo gli sci a lisca di pesce, come la obbligava a fare suo padre quando si era messo in testa di insegnarle a sciare. Su e giù dalla pista dei piccoli, trenta-quaranta volte in un giorno. Su a scaletta e giù a spazzaneve, che comprare lo skipass per una pista sola era uno spreco di soldi e senza contare che così allenava anche le gambe.
Alice si sganciò gli sci e fece ancora qualche passo. Sprofondò con gli scarponi fino a metà polpaccio.
Finalmente era seduta. Smise di trattenere il fiato e rilassò i muscoli. Una piacevole scossa elettrica le si propagò per tutto il corpo per poi annidarsi sulle punte dei piedi.
Sarà stato il latte, di sicuro fu il latte. Sarà che aveva le chiappe mezzo congelate, a stare seduta nella neve a più di duemila metri. Non le era mai successo, almeno da quanto poteva ricordare. Mai, nemmeno una volta.
Se la fece addosso. Non la pipì. Non solo. Alice si cagò addosso, alle nove in punto di una mattina di gennaio. Se la fece nelle mutande e nemmeno se ne accorse. Almeno finché non sentì la voce di Eric che la chiamava, da un punto indefinito dentro il blocco di nebbia.
Si alzò di scatto e fu in quel momento che sentì qualcosa di pesante nel cavallo dei pantaloni. D’istinto si toccò il sedere, ma il guanto le toglieva ogni sensibilità. Comunque non ce n’era bisogno, tanto aveva già capito.
E ora che faccio?, si chiese.
Eric la chiamò di nuovo. Alice non rispose. Finché stava lì sopra, la nebbia l’avrebbe nascosta. Poteva abbassarsi i pantaloni della tuta e pulirsi alla bell’e meglio con la neve oppure scendere da Eric e dirgli nell’orecchio cosa le era capitato. Poteva dirgli che doveva tornare in paese, che il ginocchio le faceva male. Oppure fregarsene e sciare così, facendo attenzione a chiudere sempre la fila.
Invece rimase semplicemente lì, attenta a non muovere un muscolo, protetta dalla nebbia.
Eric la chiamò per la terza volta. Più forte.
«Sarà già andata allo skilift, quella stordita» rispose un ragazzino al posto suo.
Alice udì un vociferare. Qualcuno disse andiamo e qualcun altro disse ho freddo a stare fermo. Potevano essere lì sotto, a pochi metri o magari ancora all’arrivo della seggiovia. I suoni ingannano, rimbalzano sulle montagne, affondano nella neve.
«Accidenti a lei… Andiamo a vedere» disse Eric.
Alice contò lentamente fino a dieci, trattenendo la voglia di vomitare per l’impiastro molliccio che sentiva colare giù per le cosce. Arrivata a dieci ripartì da capo e contò ancora fino a venti. Non c’era più nemmeno un rumore.
Prese gli sci e li portò a braccia fin sulla pista. Ci mise un po’ a capire come doveva metterli per essere perpendicolare alla linea di massima pendenza. Con una nebbia così non capisci nemmeno da che parte sei girato.
Agganciò gli scarponi e strinse gli attacchi. Si sfilò la mascherina e ci sputò dentro perché si era appannata.
Poteva scendere a valle da sola. Non le importava nulla che Eric la stesse cercando in cima al Fraiteve. Lei, dentro quella calzamaglia imbrattata di merda, non ci voleva stare un secondo di più del necessario. Pensò al percorso. Non era mai scesa da sola ma, insomma, avevano preso solo la seggiovia e quella pista l’aveva fatta decine di volte.
Si mise a spazzaneve, era più prudente e poi con le gambe larghe le sembrava di essere meno impiastricciata là sotto. Giusto il giorno prima, Eric le aveva detto se ti vedo fare ancora una curva a spazzaneve, giuro che ti lego le caviglie insieme.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore italiano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Paolo Giordano.
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