Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La somma dei giorni di Isabel Allende. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La somma dei giorni: trama del libro
Sono gli anni che seguono la morte della figlia Paula. Isabel Allende adotta la forma “diario” per fare la cronaca della famiglia, faticosamente riunita in California dal 1992 al 2006. I ricordi si intrecciano alle riflessioni sulla vita, sulla sua opera e sul mondo contemporaneo. Due leitmotiv danno coesione all’insieme: la relazione amorosa con il secondo marito Willie e l’ansia di costituire e difendere una grande tribù familiare. Con intelligenza e autoironia Isabel ci mostra le difficoltà di tenere insieme un clan variegatissimo e di dominarlo; in una sorta di messa a nudo delle proprie inclinazioni, ci dice che un’innata generosità può facilmente travalicare in esercizio di potere e controllo nelle altrui vite per modificarne il corso. Gli episodi teneri, burleschi si intrecciano a quelli tragicomici o drammatici e la narratrice esibisce una tolleranza imperturbabile per le passioni e un’intolleranza viscerale nei confronti dell’ingiustizia. Non mancano le acute riflessioni sull’incombere della terza età, sulle proprie debolezze, sulla fatica di sbagliare. Si esce dalla lettura con la sensazione di aver attraversato una grande galleria di ritratti familiari, di aver vissuto una cronaca di affetti che ci riguarda da vicino.
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“Cos’è questa cosa?” chiese Alejandro.
“Tua zia Paula” le disse mia madre, singhiozzando. “Non sembra” commentò, confuso.
Comincerò a raccontarti quello che ci è successo dal 1993, quando te ne sei andata, e mi limiterò alla famiglia, che è ciò che ti interessa. Dovrò escludere due figli di Willie: Lindsay, che quasi non conosco, l’ho visto solo una dozzina di volte e non siamo mai andati oltre i formali scambi di cortesia, e Scott, perché non vuole comparire in queste pagine. Tu volevi molto bene a quel ragazzino solitario e magro, dagli occhiali spessi e i capelli arruffati. Ora è un uomo di ventotto anni, somiglia a Willie, e si chiama Harleigh; era stato lui a volersi chiamare Scott, a cinque anni, perché gli piaceva quel nome che usò per molto tempo, ma durante l’adolescenza recuperò il suo.
La prima persona che mi viene alla mente e al cuore è Jennifer, l’unica figlia femmina di Willie, che agli inizi di quell’anno era appena fuggita per la terza volta da un ospedale, dove era andata a finire per l’ennesima infezione, tra le molte che dovette sopportare nella sua breve vita. La polizia non accennò nemmeno a cercarla, c’erano troppi casi come quello, e questa volta non servirono a nulla le conoscenze di Willie tra gli uomini della legge. Il medico, un filippino alto e discreto che l’aveva salvata a suon di perseveranza quando era arrivata all’ospedale avvelenata dalla febbre, e che la conosceva già perché gli era toccato assisterla in un paio di occasioni precedenti, spiegò a Willie che doveva trovare sua figlia immediatamente o sarebbe morta. Con dosi massicce di antibiotici per varie settimane avrebbe potuto salvarsi, disse, ma bisognava evitare una ricaduta, che sarebbe stata mortale. Ci trovavamo in una sala dalle pareti gialle, con sedie di plastica, cartelloni di mammografie ed esami per l’Aids, piena di pazienti che aspettavano il loro turno per essere visitati. Il medico si tolse gli occhiali rotondi con la montatura metallica, li pulì con un fazzoletto di carta e rispose con prudenza alle nostre domande. Non aveva simpatia né per Willie né per me, che probabilmente venivo confusa con la madre di Jennifer. Ai suoi occhi eravamo colpevoli, l’avevamo trascurata e ora, troppo tardi, ci presentavamo a lui costernati. Evitò di entrare nei particolari, perché erano informazioni riservate, ma Willie riuscì a sapere che oltre alle ossa trasformate in schegge e alle molteplici infezioni, sua figlia aveva il cuore sul punto di scoppiare. Era da nove anni che Jennifer si ostinava a toreare con la morte.
L’avevamo vista in ospedale nelle settimane precedenti, legata per i polsi perché non si strappasse le sonde nei deliri della febbre. Era dipendente da quasi tutte le droghe esistenti, dal tabacco all’eroina; non so come il suo corpo potesse resistere a tanti eccessi. Non avendo trovato una vena sana per iniettare le medicine, avevano optato per posizionare una flebo in un’arteria del petto. Dopo una settimana Jennifer era stata trasferita dal reparto di terapia intensiva in una camera a tre letti, che condivideva con altre pazienti, dove non era più legata e non veniva sorvegliata come prima. Avevo cominciato a farle visita quotidianamente, portandole quello che mi chiedeva, profumi, camicie da notte, musica, ma spariva tutto. Immagino che quelli del suo giro arrivassero a ore improbabili per rifornirla di droga, che lei, in mancanza di denaro, pagava con i miei regali. Come terapia le somministravano anche del metadone che l’aiutasse a sopportare l’astinenza, ma lei si iniettava nella flebo anche quanto i suoi fornitori le portavano di nascosto. Mi capitò di doverla lavare. Aveva le caviglie e i piedi gonfi, il corpo pieno di lividi, segni di aghi infetti, cicatrici e una grossa cucitura da pirata sulla schiena. “Una coltellata” era stata la sua laconica spiegazione.
La figlia di Willie era una ragazza bionda, con grandi occhi azzurri come quelli di suo padre, ma si erano salvate poche fotografie del passato e ormai nessuno la ricordava com’era, la migliore alunna della sua classe, obbediente e impeccabile. Sembrava eterea. L’avevo conosciuta nel 1988, poco tempo dopo essermi stabilita in California per vivere con Willie, quando lei era ancora bella, sebbene avesse già lo sguardo schivo e quella nebbia ingannevole che la avvolgeva come un alone oscuro. Esaltata da quell’amore nuovo di zecca per Willie, non mi aveva stupito che una domenica di inverno lui mi avesse portato in un carcere, a est della Baia di San Francisco. Attendemmo a lungo in un cortile inospitale facendo la fila con altri visitatori, per la maggioranza neri e latinoamericani, finché non si aprirono le sbarre e ci fu consentito entrare in un lugubre edificio. Separarono i pochi uomini dalle molte donne e bambini. Non so quale fu l’esperienza di Willie, ma a me un’agente in uniforme prima confiscò il portafogli, e poi mi spinse dietro una tenda e mi mise le mani dove nessuno aveva mai osato, con una rudezza di cui non c’era affatto bisogno, forse perché il mio accento mi rendeva sospetta. Fortunatamente una contadina salvadoregna, una visitatrice come me, mi aveva avvertito mentre eravamo in fila di non fare storie, perché avrei peggiorato le cose. Alla fine Willie e io ci incontrammo in un container allestito per le visite delle detenute, uno spazio allungato e angusto, diviso da una rete da pollaio, dietro alla quale stava Jennifer. Era in prigione da un paio di mesi; pulita e ben alimentata, sembrava una scolaretta alla domenica, con un aspetto che contrastava con quello rozzo delle altre recluse. Accolse suo padre con insopportabile tristezza. Negli anni successivi ebbi modo di verificare che piangeva sempre quando stava con Willie, non so se per la vergogna o il rancore. Willie mi presentò velocemente come “un’amica”, nonostante vivessimo insieme già da un po’ di tempo, e rimase in piedi, davanti alla rete da pollaio, con le braccia conserte e lo sguardo inchiodato a terra. Io li osservavo poco distante, riuscendo a cogliere frammenti del dialogo fra le altre voci.
“Perché questa volta?”
“Lo sai; perché me lo chiedi? Tirami fuori di qui, papà.”
“Non posso.”
“Non sei forse un avvocato?”
“L’ultima volta ti avevo avvertito che non ti avrei più aiutato. Se hai scelto questa vita, pagane le conseguenze.”
Lei si asciugò le lacrime con la manica, ma continuarono a scorrerle sulle guance mentre chiedeva dei suoi fratelli e della madre. Poco dopo si salutarono e lei uscì scortata dalla stessa donna in divisa che mi aveva requisito il portafogli. A quel tempo le rimaneva ancora un residuo di innocenza, ma sei anni dopo, quando sfuggì alle cure del medico filippino dell’ospedale, non c’era più nulla della ragazza che avevo conosciuto in quel carcere. A ventisei anni sembrava una donna di sessanta.
Quando uscimmo pioveva e Willie e io percorremmo di corsa, fradici, i due isolati che ci separavano dal parcheggio dove avevamo lasciato la macchina. Gli chiesi perché trattava sua figlia con tanta freddezza, perché non la inseriva in un programma di recupero, invece di lasciarla dietro le sbarre.
“Lì è più al sicuro” rispose.
“Non puoi fare nulla? Ma ci deve essere una cura!”
“È inutile, non ha mai voluto essere aiutata e non posso più obbligarla, è maggiorenne.”
“Se fosse mia figlia, smuoverei cielo e terra per salvarla.”
“Non è tua figlia” mi disse con una specie di sordo risentimento. A quell’epoca ronzava intorno a Jennifer un ragazzo cristiano, uno di quegli alcolisti redenti dal messaggio di Gesù che mettono nella religione lo stesso fervore che prima dedicavano alla bottiglia. Lo incrociammo qualche volta in prigione, nei giorni di visita, sempre con la sua Bibbia in mano e il sorriso beato degli eletti da Dio. Ci salutava con la compassione riservata a quelli che vivono nelle tenebre dell’errore, cosa che faceva imbestialire Willie, ma che in me provocava l’effetto voluto: mi faceva provare vergogna. Basta un nonnulla perché io mi senta colpevole. A volte faceva in modo che ci appartassimo per parlarmi e mentre lui citava il Nuovo Testamento – “Gesù disse a coloro che stavano per lapidare la donna adultera: ‘Chi è libero dal peccato scagli la prima pietra’” – io osservavo affascinata la sua brutta dentatura e cercavo di proteggermi dagli schizzi di saliva. Non so quanti anni avesse. Se stava zitto sembrava molto giovane, per via dell’aspetto da grillo e della pelle lentigginosa, ma quell’impressione svaniva non appena cominciava a predicare con voce stentorea e gesti plateali. Inizialmente aveva cercato di attrarre Jennifer tra le fila dei giusti mediante la logica della sua fede, dalla quale lei era immune. Poi aveva optato per regali modesti, che ottenevano migliori risultati: per un po’ di sigarette lei si sciroppava una sessione di letture evangeliche.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice di origine cilena rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Isabel Allende.
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