Souvenir per i Bastardi di Pizzofalcone: la trama
A ottobre il tempo è ancora indeciso. Un giorno fa caldo, quello dopo il freddo e l’umidità ridestano la gente dall’illusione di una vacanza perenne e la riportano alla realtà. Anche il crimine, però, si risveglia. Un uomo viene trovato in un cantiere della metropolitana privo di documenti e di cellulare; qualcuno lo ha aggredito e percosso con violenza. Trasportato in ospedale, entra in coma senza che nessuno sia riuscito a parlargli. Di far luce sull’episodio sono incaricati i Bastardi, che identificano la vittima: è un americano in villeggiatura a Sorrento con la sorella e la madre, un’ex diva di Hollywood ora affetta da Alzheimer. Recandosi a piú riprese nella cittadina del golfo, vestita fuori stagione di un fascino malinconico, i poliziotti si convincono che la chiave del caso sia da ricercare in fatti accaduti là molti anni prima. Incrociando il presente con un passato che hanno conosciuto solo al cinema, i poliziotti di Pizzofalcone, ciascuno sempre alle prese con le proprie vicende personali, porteranno alla luce un segreto custodito con cura per cinquant’anni, una storia d’amore e di sacrificio indimenticabile come un vecchio film.
Era di per sé uno spettacolo e avrebbe meritato tutta l’attenzione di un pubblico, anche perché gli alberi e la leggera brezza si impegnavano a fornirle una cornice degna della fama del luogo. E in effetti la ragazza che passeggiava lenta nel giardino in direzione del parapetto sembrava essere lí proprio per questo, per assistere alla rappresentazione della natura che inscenava il celebre viale d’argento sulla distesa scura, con un mormorio di foglie in sottofondo e una canzone appassionata in lontananza.
Forse, però, qualcosa non funzionava nello spettacolo diretto dalla luna, poiché la ragazza, invece di affacciarsi sospirando sul panorama mozzafiato, lanciò un rapida occhiata attorno a sé e s’incamminò svelta dal lato opposto, verso un piccolo fabbricato in muratura. La luna, e il mare che luccicava sotto, si guardarono perplessi e non dissero niente, attendendo gli eventi.
Avevo il cuore in gola. Te l’ho scritto mille volte, lo so, ma ciò che ricordo di quel momento sono il rumore del battito nelle orecchie e il respiro corto che mi portava la fragranza di tutti quei fiori.
La ragazza, dopo un ultimo sguardo dietro le spalle, aprí la porticina di legno e s’infilò all’interno. Un ambiente quadrato, la parete di fronte trovata a tentoni, la mano che tasta il muro in cerca di un pulsante. Il rumore sordo del macchinario che si mette in funzione.
Un fruscio all’esterno, il fiato che si blocca, gli occhi spalancati nel buio. Niente. Magari un gatto, un ramo che asseconda il vento. La ragazza contava i secondi. Poi il ronzio si fermò. Veloce, lei s’infilò nell’ascensore.
Mai. Non arrivavi mai. Mi chiedevo se saresti venuta, alla fine. Poteva essere successo di tutto, lui poteva averti fermata, potevi non essere riuscita a liberarti. Potevi semplicemente aver cambiato idea.
Nell’ascensore c’erano una lampadina impolverata, che emetteva una luce fioca, e uno specchio. La ragazza si guardò. I capelli rossi fiammeggiavano fluenti, il piccolo naso impertinente tirava appena in su il labbro superiore. Si intravedevano le minuscole lentiggini da bambina sulle guance. Gli occhi verdi ispezionarono gli abiti: la lunga gonna a pieghe, la cintura alta, la camicetta bianca. Slacciò un altro bottone, mostrando l’attaccatura del florido seno. Strinse le labbra, trasse un sospiro e, con un gesto rapido, alzò la gonna, si sfilò le mutandine e se le appallottolò in tasca.
Le cose, pensò, o si fanno o non si fanno. E poi, non c’è tempo.
Lo decisi in un attimo, davanti allo specchio dell’ascensore. Lo so, avrai pensato che ero una donna facile. Che ero la tipica straniera frivola che voleva divertirsi, chissà quante volte ti è capitato, prima e dopo. Invece no, non era cosí. Era solo che ti volevo, ti volevo tanto. E non c’era tempo.
Con un sussulto la cabina si fermò. Aprí la porta e si ritrovò in un tunnel scavato nella roccia; in fondo si intravedeva il chiarore della luna, che non aveva smesso di chiedersi dove fosse finita quella ragazzina sfacciata che non le aveva concesso attenzione. Si frugò nella tasca, prese un accendino e lo fece scattare, per illuminare il percorso.
Mi hai scritto che pensi che io ti abbia ritenuta una facile. E invece mai, mai ho pensato una cosa del genere. Io, dall’istante in cui ti ho vista al ristorante e prima che ti voltassi a guardarmi, e che mi facessi quel sorriso, ho pensato che eri una meraviglia della Terra, la rosa piú profumata del giardino del Paradiso, che mai avrei ammirato niente di piú bello di te. E cosí è stato. Quella cosa che dici, quel regalo meraviglioso, non contò nulla. Noi siamo stati nudi, io e te, dal momento in cui ci siamo incontrati.
Quando arrivò al termine del tunnel spinse il cancelletto e lo trovò aperto. Quindi c’era. Quindi era venuto. Quindi non aveva sognato, stava accadendo davvero. Appoggiò la mano sulla roccia nuda, si tolse le scarpe e, tenendole per i cinturini, mise i piedi sulla sabbia.
Era fresca, umida. L’estate era solo una promessa, la sera sapeva ancora di incertezze, ma il mare mormorava piú forte e piú vicino, adesso. L’odore magico e misterioso di sale e di alghe e di scogli le invase le narici rendendola viva e felice.
Si avviò a sinistra, lasciandosi il faro alle spalle. Concentrata, silenziosa, nessuna esitazione nei piedi, nelle gambe toniche e nervose, appena un respiro ansioso a sollevarle il seno. Era buio, e la luna e il mare, i soli che avevano il privilegio di vederla, pensarono all’unisono che era bellissima.
Ma com’è possibile, secondo te, che una notte, una singola notte, si espanda per sempre? Che si allarghi e si allunghi come un velo invadendo l’intera vita di una persona? Come può un ricordo, un singolo ricordo, piantarsi in un’anima cosí in profondità che nessuna corrente, nessun evento successivo è piú in grado di scalfirlo?
Le aveva detto: la terza grotta. Quelle che usano i pescatori d’inverno per tirare in secca le barche, hai presente? Gliel’aveva detto in un soffio, e lei non era nemmeno sicura di aver capito bene. Ma aveva solo quella notte, anzi, quel pezzo di notte, perché poi non avrebbero girato piú senza di lei, e tutto sarebbe stato difficile, forse impossibile. A lei toccava all’alba, di lí a tre ore almeno; adesso erano tutti presi dalle bizze del protagonista, che voleva si vedessero i bicipiti al chiaro di luna.
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