Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Se stasera siamo qui di Catherine Dunne. Il romanzo è pubblicato in Italia da Guanda con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Se stasera siamo qui: trama del libro
Una riunione tra quattro amiche del cuore per festeggiare la loro amicizia: un quarto di secolo di intimità condivise, tradimenti superati, differenze appianate. C’è Claire, con i suoi uomini sempre sbagliati; e la certezza che la vita non le darà mai l’unica cosa che ha sempre voluto. Nora, la casalinga perfetta, che ha tenuto nascosto un segreto alle amiche per più di venticinque anni. Maggie, che è sposata infelicemente con Ray da più tempo di quanto voglia ricordare. E poi Geòrgie, altezzosa e supponente, che ha fatto a modo suo più di quanto le sarebbe convenuto. Ma stasera la complessa trama di mariti, amanti e segreti che le ha tenute insieme sta per dipanarsi. E una delle quattro donne non ha intenzione di esserci. A questo punto, le cose non potranno più essere le stesse…
Approfondimenti sul libro
Se stasera siamo qui è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 7,99.
Venerdì mattina, alle cinque. Aspetto in veranda, la valigia posata a terra. L’aria fredda si irradia da sotto la porta a vetri e mi si infila nei vestiti, ma non ho tempo per tornare dentro a prendere un giaccone. Vedo già il taxi sbucare dall’angolo e rallentare. Seguo con gli occhi il suo cauto avvicinarsi mentre imbocca la salita, poi scende, il raggio dei fari che si alza e si abbassa come un segnalatore luminoso.
Esco subito e opto per sollevare la Samsonite: a quest’ora del mattino le ruote fanno troppo rumore sulla ghiaia. Quando arrivo al cancello, l’autista è già saltato fuori e ha aperto il bagagliaio.
«’Giorno» dice, afferrando la valigia. «C’è altro?»
Scuoto la testa. «No. È tutto qui.»
Mette la valigia nel baule e chiude il cofano con forza. Non aspetto che mi apra la portiera. Mi infilo rapida sul sedile posteriore, strattonando la cintura di sicurezza finché non si allunga. Quando sbircio dal finestrino, vedo Raffles che attraversa guardingo l’erba ghiacciata. Posa le soffici zampette una alla volta con grande circospezione. Raffles diffida del freddo. Per un istante, mi pare di sentire il tintinnio del campanellino che porta al collo, ma naturalmente è una mia fantasia. «L’avvisauccelli» di Carla. Distolgo lo sguardo.
«All’aeroporto, giusto?» L’autista mi lancia un’occhiata nello specchietto retrovisore. È sulla cinquantina, con una calvizie incipiente. Il malumore gli pende addosso come una maglia bagnata.
«Giusto» dico.
L’abitacolo sa di deodorante al pino silvestre, sedili logori e sudore stantio. L’autista accende la radio per ascoltare le previsioni del tempo. «… E non si prevedono miglioramenti sulla capitale per la mattinata. Pioggia e nevischio fino al primo pomeriggio, temperature massime intorno ai tre gradi. Si raccomanda di guidare con prudenza…» Il cielo adesso è di un colore arancio sporco, dall’interno del paese ci sta già piombando addosso la perturbazione in arrivo dall’Atlantico.
«Città di merda» dice il taxista, cercando di intercettare il mio sguardo.
Colgo la sua espressione nello specchietto, sento che vuole attaccare discorso. Ma io mi metto a frugare dentro la borsa, febbrile, distratta, come se cercassi con urgenza qualcosa.
«Un’ora e sarà tutto un unico ingorgo» continua imperturbabile, in un tono di compiaciuto scontento. Si agita sul sedile e si passa una mano tra quel che gli resta della capigliatura. Poi alza il riscaldamento e il soffio cancella i residui di condensa all’interno del parabrezza. Fuori, il tergicristallo strilla improvviso da un lato all’altro del vetro. La nausea mi assale allo stomaco.
«Chissà perché, quando piove, nessuno sa più tenere il volante in mano in questo paese» dice, scuotendo la testa. «Con questo cazzo di tempo che c’è sempre.» Poi con una svolta a sinistra si immette sulla superstrada, portandosi immediatamente sulla corsia di sorpasso. Dietro e accanto a noi si leva lo strepito dei clacson, la cacofonia della frustrazione mattutina. «Visto? Che le avevo detto?»
Non rispondo. Voglio essere un passeggero anonimo, di quelli che non si distinguono facilmente da tutti gli altri della giornata. Già è spiacevole che io sia la sua prima corsa di oggi. Tengo la bocca chiusa.
«Dove va di bello?» chiede, dopo una pausa di cortesia.
Chino la testa. «A un funerale.»
«Oh, mi perdoni, signora.»
E la smette.
Dublino non mi mancherà. Questo è sicuro. Ma certe cose, sì, mi mancheranno. Certe persone. Maggie, per esempio. Be’, forse anche le altre amiche, ma Maggie più di tutte. Siamo quelle che si conoscono da più tempo. E stasera non saremo insieme, non sarò lì a festeggiare con lei. Ma so perfettamente come si svolgerà tutto quanto. Tocca a Claire ospitare. Intorno alle otto tirerà fuori la prima bottiglia di prosecco dal frigo, la metterà in quel pratico ma elegante secchiello per il ghiaccio che si è portata una volta da Copenaghen e le annoderà un tovagliolino bianco attorno al collo. Ogni movimento sarà aggraziato, composto. Poi probabilmente recluterà Maggie perché l’aiuti a dare un’ultima occhiata ai quattro coperti, ad apportare minimi aggiustamenti alla disposizione delle posate e dei bicchieri, all’inclinazione dei fiori. Come le ho visto fare innumerevoli volte in questi venticinque anni. È una serata speciale, dirà, una data importante. Bisogna festeggiare la nostra lunga amicizia. L’anniversario d’argento di noi ragazze. Già allora quella frase mi aveva fatto accapponare la pelle.
«Non ti sembra vero, eh?» le ho detto la sera in cui ci ha distribuito le buste. Per Claire lo stile è una questione d’onore. Gli inviti erano su carta goffrata fatta a mano, le lettere nere lucide come lacca cinese. Lei sorrideva, gli occhi accesi di malizia. Ma non so che impulso mi abbia indotto a far scoppiare la bolla. «È proprio necessario ricordarci quanto siamo vecchie, noi quattro?»
Maggie mi ha lanciato un’occhiata di avvertimento. Una di quelle occhiate a cui mi sono abituata nel corso degli anni. Ma non avevo intenzione di fare ammenda per la battuta. Né di mitigarla. E Maggie sa quando è il caso di lasciar perdere. Ha imparato molto tempo fa a capire quando simili tentativi sono inutili.
Claire è arrossita alla mia frecciata e ha piegato la testa di lato. Mi è parso che mi guardasse quasi con timidezza. «Non essere odiosa, Georgie» ha mormorato. Poi ha cambiato discorso.
Sì, forse sono stata odiosa, ma a quel punto mi ero già allontanata, in tutti i sensi che contano, dalle amiche, dalla mia famiglia e dal modo in cui vivono la loro vita. Dal modo in cui tutte abbiamo vissuto la nostra vita. Venticinque anni sono tanti: quanto basta perché certe cose cambino e decisamente troppi perché tante altre restino uguali. Ho riflettuto a lungo, soprattutto in queste ultime settimane, su che cosa sia l’amicizia, che cosa significhi per me ora, che cosa abbia significato negli anni. Ricordo ancora la sera in cui abbiamo stretto il nostro patto: un po’ come i tre moschettieri, solo che noi eravamo quattro. Una per quattro. Quattro per una. Il nostro motto, finché le cose sono andate in pezzi. Del resto, nulla dura per sempre.
Fu poco dopo la nascita di Robbie, il primo figlio di Nora. Maggie e io eravamo sedute sull’ultrasoffice, ultraimbottito divano in pelle. Nora teneva banco, impettita in poltrona. Claire come al solito s’era accoccolata in terra, con le braccia attorno alle ginocchia. La lampada falso Tiffany sul tris di tavolini alle sue spalle, illuminandola da dietro, dava alla sua chioma rossa una sfumatura perfetta. Era splendida, come una delle sante di Tiziano in procinto di essere assunte in un luogo molto più interessante del soggiorno borghese di Nora.
«Facciamo un patto?» stava dicendo la padrona di casa, stringendo tra le mani a coppa il suo unico bicchiere di vino della serata.
«Che tipo di patto?» chiese Claire sognante, inclinando il capo per metterla a fuoco meglio. La luce alle sue spalle le sottolineava gli zigomi e rendeva lustri gli occhi. Maggie mi diede di gomito, con un gesto quasi impercettibile nella sua direzione.
«Non dà sui nervi?» bisbigliò. Sorrisi divertita. Sapevo perfettamente che cosa intendeva dire.
Nora stava ancora parlando. «Perché non stabiliamo di vederci una volta ogni quattro, sei settimane? Un impegno fisso, da segnare sull’agenda. Così siamo sicure di prenderlo sul serio e questo impedirà che ci perdiamo di vista.» E rivolse a ciascuna di noi, a turno, uno dei suoi più smaglianti sorrisi. Nessuna disse nulla.
«Possiamo farlo qui da me» continuò, e a me parve quasi che il suo entusiasmo fosse una quinta presenza nella stanza. «Voi siete ancora all’università e non avete spazio. Per me cucinare per tutte è molto più semplice.»
«Oh, ma non sarebbe giusto» obiettò Maggie. Nel dirlo, ebbe uno scatto inconsulto della gamba e la punta della scarpa le andò a sbattere contro il bicchiere che avevo posato sul pavimento accanto a me. Cara, goffa Maggie, che disastro sei sempre stata. Rimasi a fissare la macchia rossa che si allargava al rallentatore sulla moquette beige, acquistando i contorni di un’Australia un po’ sbilenca.
«Oh, merda, merda, merda. Nora, sono desolata. Vado a prendere uno straccio.» Maggie lottava per liberarsi dall’abbraccio profondo del divano. Ma Nora era già schizzata in cucina.
«Dio, dio, dio» mormorava Maggie, scuotendo la testa. «Perché devo sempre essere io?»
Nel frattempo Nora si era messa in ginocchio, impugnando il rotolo di scottex in una mano e la saliera nell’altra, come fossero due rivoltelle. Aveva le labbra più serrate del solito. Maggie continuò a recriminare, finché le diedi una gomitata perché la smettesse. Ce n’era già abbastanza.
Tampone di carta, spruzzata di sale. Tampone, spruzzata. Claire guardava affascinata. I pezzi di scottex fradici si ammucchiavano sul giornale. Sembravano resti di un massacro.
«Oh, a me piace cucinare» disse Nora. Passò la mano sul mucchietto di sale, premendo per farlo aderire alla moquette. Fissavamo tutte i cristalli che cominciavano a tingersi di rosso, levando la macchia dalla superficie beige come per magia. «Mi piace ricevere. E con un bambino piccolo, non potrò uscire molto. Mi farete un favore a venire. Dico sul serio.» E guardò Maggie dritto negli occhi.
Vittoria su tutta la linea, pensai. Anche se avevo solo diciannove anni, notai l’abilità di Nora. E non potei fare a meno di ammirarla. Maggie, anima buona, si lasciò accalappiare da quella perniciosa rete di ospitalità: sapeva che era inutile resistere. Ogni tentativo di dibattersi non avrebbe fatto altro che stringere le maglie, avviluppandola sempre più. Sicché si limitò ad annuire, volgendo lo sguardo da Nora a me in cerca di conferma. «Ah, be’, se è così, allora sì… sì, d’accordo. Sarà un piacere incontrarsi qui.»
«Mi sembra una magnifica idea» intervenne Claire, con voce sommessa. E non so quale delle due avesse l’aria più contenta, se lei o Nora.
«Bene, allora è deciso» disse Nora, ancora inginocchiata accanto all’Australia. Non riusciva a nascondere la soddisfazione. «Prendo il calendario.»
Cominciò così. Un quarto di secolo di riunioni mensili. È capitato di tanto in tanto che una di noi mancasse un appuntamento. A me non è mai parso di perdere nulla di spettacolare. Ma devo dire che avevamo tutte paura che le altre parlassero di tante cose, tra cui di quella di noi che mancava. E per questo motivo, se non altro, nessuna voleva essere l’assente.
Quando il taxi accosta davanti al terminal delle partenze, tiro fuori il portafoglio. Do un’occhiata al tassametro e porgo venti euro all’autista. Lui comincia a rovistare in cerca dell’euro e ottanta che mi deve di resto.
«Va bene così» dico, aprendo la portiera. Lui apre il cofano e in un attimo mi è accanto.
«Molte grazie, signora» dice, posando la valigia per terra. Estrae il manico e lo blocca. «Le auguro che non sia una giornata troppo triste.»
Lo guardo stupita. Che diavolo intende dire? Poi reprimo a stento un sorriso. «Grazie» mormoro, afferrando il manico che mi porge. Mi aggiusto la tracolla della borsa sulla spalla. «Grazie infinite.»
Lui annuisce e richiude il cofano. «Non c’è di che» dice, mentre mi allontano. Tutt’a un tratto mi vedo con i suoi occhi e mi assale un’ondata improvvisa, un empito di vera e propria euforia. Se solo sapesse.
Mi dirigo al check-in. Non c’è coda. Porgo passaporto e biglietto alla sorridente signorina che mi fa tutte le domande di rito sul possesso di oggetti taglienti, bombe, armi.
«Francoforte è la sua destinazione finale?»
Scuoto la testa. «Firenze» dico.
«Vuole spedire il bagaglio direttamente?»
«No, grazie.» Mi rendo conto che ho usato un tono più secco del voluto. Ho avuto fin troppe esperienze di bagagli smarriti, ultimamente. «Lo ritiro a Francoforte, non si sa mai. Ho un mucchio di tempo tra un volo e l’altro.» Non voglio arrivare impreparata dove sto andando. Questa volta no. Non voglio ritrovarmi senza tutte le cose che rendono civile la vita di una donna.
«Buon viaggio» dice.
E io penso: sarà davvero un buon viaggio? Non è troppo tardi per tirarsi indietro, tornare a casa, fingere che tutto questo sia conseguenza di un momento di follia. È strana, l’improvvisa tensione che provo tra volere e non volere. Sento la forza di attrazione dei vecchi affetti e immediatamente dopo la spinta centrifuga dell’estraniazione. Penso a questa sera, in casa di Claire. Maggie e Nora ci saranno. Io, invece, non ci sarò. Ho scelto di non esserci. Ma mi piacerebbe essere là, in qualche modo: ombra vaga, baluginante fantasma che scivola tra una sedia e l’altra, si accomoda infine nell’unico posto vuoto e ascolta.
Ecco. Vedo il profilo della loro serata disteso davanti a me come un modello semplice, senza pretese, facile da riprodurre. Forse dovrò aggiungere una pince qui, riprendere un centimetro là, ma nell’insieme ho tutte le misure che servono. È vero, so che non avrò mai la certezza, che dovrò accontentarmi di immaginare. E quella certezza mi mancherà. Mi mancheranno quei confortevoli, prevedibili epiloghi. Brinderò a loro tutta la sera e me lo godrò immensamente, questo nostro ultimo incontro.
Compro un giornale, prendo un caffè. Sprofondo nel lusso del viaggiatore, l’attesa.
Georgie, Porgie, pudding and pie. Kissed the boys and made them cry.
Bene, ora vedremo chi piange.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice irlandese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Catherine Dunne.
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