Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La strada verso casa di Fabio Volo. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 6,99.
La strada verso casa: trama del libro
Marco non ha mai scelto, perché ha paura che una scelta escluda tutte le altre. Non ha mai dato retta a nessuno, solo a se stesso. Sembra dire a tutti: amatemi pure, ma tenetevi lontani. Andrea, suo fratello maggiore, ha deciso da subito come doveva essere la sua vita, ha sempre fatto le cose come andavano fatte. È sposato con Daniela, una donna sobria ed elegante. Insieme avrebbero potuto essere perfetti. Marco invece ha molte donne, e Isabella. Lei è stata la sua prima fidanzata. Con lei ha passato quelle notti di magia in cui la bellezza dilata il tempo e la felicità strappa le promesse. Ma neanche con lei è mai riuscito a decidersi, a capire che la libertà non è per forza mancanza di responsabilità. E così continua a vivere in folle, senza mai mettere una marcia, fare una scelta. Se non che a volte la vita che hai sempre tenuto sotto controllo inizia a cadere a pezzi.
Si rideva al lavoro, a scuola, con gli amici e soprattutto si rideva in TV. Quegli anni erano un’epoca favolosa. L’Italia vinceva i Campionati del mondo in Spagna, la musica la facevano i DJ e il suo ritmo dance pulsava dalle radio e dalle discoteche. Perfino il papa sciava in quegli anni. Ci si sentiva liberi, sarebbe caduto il muro di Berlino.
Il culto del corpo aveva generato un’esplosione di palestre, corsi di aerobica per donne, body building per uomini, centri di abbronzatura. Bisognava avere un fisico scolpito, color bronzo, da portare in giro in vestiti firmati e occhiali a specchio.
A qualsiasi ora del giorno potevi accendere la televisione e trovare qualcuno che era stato messo lì per farti ridere, per distrarti un po’, per regalarti dei premi o anche solo per dirti una serie di frasi divertenti, tormentoni pronti per l’uso. Era piena di gettoni d’oro, di coriandoli, di trombette, di gonnelline luccicanti e di giacche colorate. Era piena di sorrisi splendenti, piena di labbra e di bocche che soffiavano baci ai telespettatori. Era piena di prodotti in vendita. Negli anni Ottanta si aveva la sensazione che si potesse comprare tutto. Anche l’allegria. I poveri potevano sembrare ricchi. Prima degli anni Ottanta nelle case si sentivano frasi come: “Non possiamo permettercelo” oppure “Questa è una cosa fuori dalle nostre possibilità”. Gli anni Ottanta sembrava avessero spazzato via tutto questo, insieme alla cultura del risparmio. Quello che guadagnavi spendevi, e se non bastava potevi fare un leasing. La vita non era più costruirsi un futuro ma comprare un grosso biglietto della lotteria. Forse è stato in quegli anni che le parole hanno iniziato a perdere il loro vero significato, a diventare maschere senza dietro un volto. Tutto era accrescitivo e superlativo.
Forse per questo la famiglia Bertelli, padre, madre e due figli maschi, viveva un senso di inadeguatezza. Era una famiglia fuori tempo, fuori dal tempo. Loro erano un brano di musica sincopata.
Non tanto per i genitori, quanto per i figli. Avevano proprio la sensazione che, mentre il mondo stava festeggiando, loro a quella festa non fossero stati invitati. E, di fronte a questa convinzione, ognuno di loro reagiva come poteva cercando il proprio angolo di intimità.
Marco, il figlio più piccolo, conosceva due modi per tenersi fuori dal mondo, dentro la sua solitudine interiore. Il primo era starsene a letto ad ascoltare musica. Stanco di canticchiare La Bamba da circa un anno aveva sequestrato tutti i dischi del padre e li aveva portati in camera sua insieme a quelli che aveva comprato lui. Stava lì sdraiato sul letto con le cuffie a farsi riempire la testa di musica che per farcela stare tutta doveva cacciare fuori ogni altro pensiero o immagine. Tranne le visioni che la musica riusciva a evocare in lui. Erano sempre immagini di viaggi, di posti che aveva visto in TV o al cinema e che sognava un giorno di vedere realmente: girare la California in moto o con una macchina decapottabile, fare surf in Australia, visitare il Messico zaino in spalla, fumare sigari a Cuba. Quel modo di evadere era un bell’esercizio di fantasia e quando si addormentava era sempre più leggero, come solo un cuore pieno di curiosità e di avventure può essere.
L’altro modo invece era starsene in silenzio, senza suoni se non quelli interiori: dei pensieri, del battito del cuore, del respiro, nel tentativo di ascoltare e origliare se stesso, andando nelle zone più profonde di sé alla ricerca di risposte ultime, come uno speleologo dell’anima, e per sperimentare, se mai ci fosse, un modo di poter nascere due volte. Riuscire ad arrivare nel punto in cui finiscono le voci degli altri e inizia la propria, quella vera. Unica. Incondizionata. Una voce guida, maestra, che potesse aiutarlo ad affrontare inquietudini e perplessità.
Quella sera Marco aveva scelto la via della musica, era sdraiato sul letto e guardava il soffitto, giocherellando con il filo delle cuffie. Era una sera d’estate, una sera di fine luglio. Faceva caldo. La finestra della camera era aperta, l’antifurto di una macchina parcheggiata sotto casa aveva appena smesso di suonare e i cani di abbaiare. Tutto era immobile, tranne i movimenti circolari del filo delle cuffie. Bob Dylan cantava I’ll Be Your Baby Tonight e quella sera l’uomo dalla voce rugginosa sembrava più malinconico del solito.
Quando ascoltava Bob Dylan, Marco respirava l’aria fredda di New York, la città dove sognava di andare con Isabella, la sua ragazza, e di passeggiare nella neve abbracciati proprio come Dylan e la sua fidanzata Suze Rotolo sulla copertina di The Freewheelin’. L’album del 1963 che tanto piaceva a sua madre. L’album in cui era nominata anche Sophia Loren. Gli piaceva quando trovava nomi o pezzi di Italia citati in giro per il mondo. Si inorgogliva come se si trattasse di qualcuno che conosceva. Gli accadeva anche quando nei titoli di coda di film americani leggeva cognomi italiani, e allora immaginava che quelli fossero figli di immigrati che ce l’avevano fatta. Ed era contento per loro.
Quella sera nella sua testa erano entrati dei brutti pensieri. Tutte le paure che stavano dietro l’angolo, nascoste nelle pieghe, lo avevano attaccato, proprio come fa un branco quando vede un animale ferito. Per reagire a quell’oppressione che sentiva sul petto aveva immaginato di alzarsi dal letto con uno scatto deciso, uscire dalla stanza, precipitarsi giù dalle scale e correre più veloce che poteva senza mai fermarsi, attraversare tutta la città e arrivare sotto casa di Isabella. Gridare il suo nome, chiederle di scendere, prenderla e portarla via. Portarla in un mondo più giusto senza le stupide complicazioni degli adulti. Le regole, i disagi e le continue ipocrisie. Era stata una serata difficile, c’era stata tensione durante la cena. In quella casa ormai si respirava male. Avrebbe voluto piangere, piangere e accendersi una sigaretta, ma erano due cose che poteva fare solamente quando era solo. Fumare, un gesto adulto che gli era ancora proibito. Piangere, una debolezza infantile ugualmente vietata. Quella sera si sentiva nella terra di mezzo.
Non era un fumatore, non ancora. Fumava di nascosto quando si trovava in giro con gli amici, in casa praticamente mai, solo qualche rara volta chiuso in bagno con la finestra spalancata. Lo aveva fatto cinque o sei volte, non di più, e dopo avere fumato lanciava la sigaretta il più lontano possibile con il movimento classico tra pollice e medio, poi si lavava subito i denti e si metteva in bocca delle gomme alla menta. La prima volta che aveva fumato in bagno aveva fatto l’errore di buttare il mozzicone nel water, ma tirando l’acqua si era accorto che il mozzicone era ancora lì che galleggiava. Allora aveva provato a buttare della carta e a tirare di nuovo lo sciacquone, ma nulla. Era stato costretto a prenderlo infilando le mani nel cesso e a gettarlo dalla finestra.
Fumare in camera quella sera sarebbe stata proprio tutta un’altra cosa, tutto un altro discorso. In quel caso non sarebbe stato solo per il piacere del fumo inspirato e spinto giù nei polmoni o per il gusto della trasgressione, la giusta ribellione che accompagna le sigarette a quell’età. No, stavolta, se avesse compiuto quell’atto, lo avrebbe fatto per ufficializzare un’identità, una presa di posizione. Varcare un confine e una linea d’ombra. Affermare se stesso.
In casa, nell’altra stanza, c’erano i genitori e in camera con lui Andrea, il fratello più grande di tre anni, che come sempre era seduto alla scrivania.
Niente musica per Andrea, solo studio o lettura, sempre cose complicate. Più erano difficili più le amava. Quello era il suo modo di rintanarsi, il suo modo di difendersi dalla cattiveria del mondo. Da sempre si faceva assorbire completamente dalle formule, dalle equazioni e dalle traduzioni, una vera fissazione.
Andrea aveva un talento innato per gli esercizi di pura astrazione.
Quel suo applicarsi in maniera totale lo aveva portato a essere il primo della classe e l’unico tra i suoi compagni a tradurre dal latino al greco senza passare dall’italiano. Un’acrobazia intellettuale del tutto inutile.
Marco aveva smesso di fissare il soffitto e adesso osservava il fratello, guardava la sua schiena piegata in avanti e si chiedeva chi fosse quel ragazzo che condivideva la camera con lui. Un estraneo. Un alieno. Perché erano così diversi pur essendo fratelli? Figli degli stessi genitori, figli della stessa educazione, dello stesso pudore. Lui per esempio non avrebbe mai appeso sopra il proprio letto l’immagine dell’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, anche se gli ricordava Jim Morrison ritratto in quella fotografia con le braccia aperte. Non che non riconoscesse la bellezza di quel disegno e la genialità di Leonardo, ma gli sembrava solo una scelta da anziano. Come cantare Nel blu dipinto di blu di Modugno. Era mai stato giovane? Era nato così?
Per la biografia e la bibliografia completa del conduttore e scrittore italiano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Fabio Volo.
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