Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Suttree di Cormac McCarthy. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 15,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Suttree: trama del libro
Per vivere Suttree pesca pesci gatto nelle acque limacciose del fiume Tennessee. E sul fiume vive, in una baracca galleggiante ai margini della città di Knoxville, fra ratti reali e metaforici. Ci si è trasferito dopo aver abbandonato un’esistenza di privilegi borghesi e pastoie religiose; l’ha fatto per vivere. Ora nel suo nuovo mondo impara ciò che il fiume insegna: che nel tutto in movimento – quel flusso ora grigio, ora bruno, nero, marrone, color peltro, ardesia, inchiostro o carbonio della cloaca maxima – “il colore di questa vita è acqua” e perciò solo “le forme più primitive sopravvivono”. Alcune di esse finiscono impigliate nelle sue reti di pescatore e, volente o più spesso nolente, Suttree deve tentare di portarle in secca, magari immergendosi con loro in liquidi a più alta gradazione. Prima fra tutte la forma di uno spassoso troglodita come Harrogate, giovane topo di campagna con una passione contronatura per i cocomeri e una determinazione tanto candida quanto feroce a trasformarsi in ratto di città. A fianco di questo novello Huckleberry Finn e dei suoi guai Suttree impara altri colori dell’infinito scorrere.
Approfondimenti sul libro
In ebook Suttree (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 7,99 euro.
Con la mandibola nella piega del braccio osservava pigramente i fenomeni sulla superficie, chiazze di liquame che si muovevano appena, coaguli grigi di rifiuti senza nome e preservativi gialli che affioravano dall’oscurità in lenti rimestii come versioni giganti di fasciole o tenie. Il volto dello spettatore ondeggiava accanto alla barca, un volto seppiato che straorzava nella schiuma, occhi sfreccianti e una smorfia annacquata. Una correggia si torse mollemente sul pelo dell’acqua come se in profondità qualcosa di invisibile si fosse mosso e piccole bolle di gas esplosero in spettri oleosi.
Sotto il ponte si mise in piedi, raccolse i remi e cominciò a vogare verso la sponda sud. Qui fece virare lo schifo, infilò la poppa in una macchia di salici e procedendo a marcia indietro tirò su dall’acqua una grossa corda assicurata alla riva tramite un tubo di ferro conficcato nel fango. La fece passare dentro uno scalmo aperto fissato allo specchio di poppa. Poi ripartí, remando piano, con la corda che si sollevava dallo scalmo liscia e bagnata per tornare a immergersi nel fiume. Quando fu a circa trenta piedi da riva emerse la prima mosca, che agganciò la lenza finché lui si sporse a liberarla. Proseguí, con lo schifo di tre quarti controcorrente, gli ami che a uno a uno risalivano attraverso lo scalmo coi loro bocconi di carne slavati e a brandelli. Quando sentí il peso del primo pesce disarmò i remi gocciolanti, afferrò la lenza e la ritirò manualmente. Una grossa carpa fendette l’acqua, ruvido fianco corazzato, bronzeo e luccicante. Si puntellò su un ginocchio e tirò in secco il pesce, tagliò la lenza e infilò un’esca su un amo nuovo che lanciò oltrebordo e proseguí, vogando con un remo solo, mentre la carpa si contorceva sbattendo pesantemente sul tavolato.
Quando ebbe finito di raccogliere la lenza aveva raggiunto l’altra sponda del fiume. Innescò l’ultimo amo e lasciò scorrere la spessa funicella, guardandolo inabissarsi nell’acqua torbida in un nimbo splendente di scaglie di sole, una corona spezzata attraverso la quale brillò per un attimo l’ultimo boccone pallido di carne rancida. Disarmò i remi e di nuovo si stravaccò a prendere il sole sui sedili. Lo schifo oscillava piano, trasportato dalla corrente. Sbottonò la camicia fino alla cintola e si portò un avambraccio sugli occhi. Poteva sentire il fiume confabulare flebilmente sotto di lui, vecchio e denso fiume coperto di rughe. Sotto il flusso dell’acqua cannoni e affusti, orecchioni incagliati che arrugginivano nel fango, barche a chiglia decomposte in mucillagine. Leggendari storioni dal corpo corneo e pentagonale, pesci gatto e carpe cupree e lucenti come lasche, con il loro ventre pallido e senza sprue, una densa fanghiglia tempestata di vetri rotti, ossa e barattoli arrugginiti e cocci di stoviglie venati di crepe nere di fango. Dall’altra parte del fiume le sponde calcaree svettavano grigie e irregolarmente sfaccettate, le pareti striate d’erba nelle sottili faglie verdi. Nei punti a strapiombo sul fiume proiettavano un’ombra fresca e la superficie dell’acqua era calma e scura e rifletteva, come una piccola stella bianca, i contorni di un piviere sospeso nelle correnti ascensionali al largo della ripa. Sotto il sedile dello schifo un pesce gatto nuotava a secco, inarrendevole col suo largo muso contro la paratia.
Superando la bocca dell’insenatura alzò una mano e fece lenti cenni, mentre i vecchi neri coi vestiti a fiori e le cuffie in testa venivano avanti come un giardino ventoso, i bastoni ballonzolanti e le braccia scure per aria scomposte e quegli abiti sgargianti e primitivi che ondeggiavano nel movimento. Dietro di loro la città che si delineava aveva l’aria pesta, stanca, un profilo scuro e fumante contro un cielo di porcellana. La riva del fiume scintillava sudicia e tortuosa nella calura e non un suono attraversava la solitaria mattina d’estate.
Sotto il ponte a trespolo della ferrovia cominciò a ritirare l’altra lenza. L’acqua al tatto era calda e di una cremosità granulosa come di grafite. Era mezzogiorno passato quando finí, e per un momento rimase in piedi nella barca a considerare il pescato. Intraprese la risalita remando lentamente, mentre i pesci si dibattevano in un fondo d’acqua grigia sul tavolato dello schifo, i morbidi barbigli che tastavano le assi limacciose con stupore ottuso, i dorsi ricurvi nella luce del sole che già scolorivano in un pallore esangue. Gli scalmi di ottone cigolavano nei fermi e l’acqua del fiume si increspava viscosa contro la prua e si srotolava dietro la barca in una scia come di fango arato.
Uscí dall’ombra delle ripe remando controcorrente, passò la cava di sabbia e ghiaia e poi una serie di terreni aridi e polverosi dove delle rotaie correvano su un terrapieno di rosticcio e dei vagoni merci si ossidavano su binari morti, superò silos di lamiera ondulata galvanizzata che sorgevano su pianori scavati nella terra color mattone da cui sporgevano romboidi e volute di calcare tutti macchiati di fango come enormi ossa scrostate. Aveva già iniziato la traversata quando dall’altra parte del fiume scorse le imbarcazioni di soccorso lungo la sponda. Stavano scandagliando il canale mentre una piccola folla li seguiva da terra. Due barche bianche velate dalla calura e dal lento fumo di scarico azzurrognolo, il leggero sbuffo dei motori che amplificava la quiete del fiume. Attraversò e risalí il canale lungo la sponda. I battelli si erano disposti fianco a fianco e uno dei due aveva spento il motore. I soccorritori portavano berretti militari e assolvevano al compito con aria grave. Quando il pescatore arrivò alla loro altezza stavano issando a bordo il cadavere di un uomo. Era perfettamente rigido e tolta la faccia sembrava un manichino. La faccia invece appariva gonfia e molle e aveva un rampino conficcato da una parte e un sorriso folle. Lo tirarono su cosí, arpionato per gli zigomi. Una ferita livida ed esangue. La testa storta, come in un’impacciata protesta. Lo stesero sul ponte dove giacque nel suo abito di lino a strisce fradicio, i calzini giallo limone, lo sguardo obliquo e sbigottito sui soccorritori e quell’uncino nella faccia, come un rozzo omuncolo acquatico catturato alla traina e istantaneamente colpito a morte dalla luce del giorno del Signore.
Il pescatore proseguí e si ormeggiò più a monte oltre la folla. Fece rotolare una pietra sopra la cima e scese a vedere. Il battello di soccorso stava rientrando e uno degli uomini era in ginocchio, chino sul cadavere, che cercava di liberare il rampino. La folla lo guardava mentre lui sudava e armeggiava con l’uncino. Alla fine puntò un piede contro il cranio del morto e tirò l’uncino con entrambe le mani finché venne via trascinandosi appresso un pezzo di carne smorta e filamentosa.
Lo trasportarono a riva su una barella di tela e lo stesero sull’erba dove rimase a fissare il sole coi suoi occhi vuoti e quel sorriso. Nell’aria torpida si era già addensato uno stizzoso coagulo di mosche. I soccorritori coprirono il morto con una ruvida coperta grigia. I piedi sporgevano.
Quando il pescatore fece per andarsene qualcuno dalla folla lo prese per il gomito. Ehi Suttree.
Si voltò. Ehi Joe, disse. Tu l’hai visto?
No. Pare che si è buttato ieri notte. Hanno trovato le sue scarpe sul ponte.
Rimasero a guardare il morto. La squadra di soccorso stava arrotolando le cime e raccogliendo l’attrezzatura. La folla aveva cominciato ad accalcarsi come a un funerale e il pescatore e l’amico si ritrovarono a sfilare davanti al morto come per rendergli omaggio. Lui se ne stava lí coi suoi calzini gialli, la coperta brulicante di mosche e una mano abbandonata sull’erba. Aveva l’orologio girato verso l’interno del polso come certi usano o usavano portarlo e quando Suttree gli passò accanto notò, con un sentimento che non avrebbe saputo nominare, che l’orologio funzionava ancora.
Brutto modo di uscire di scena, disse Joe.
Andiamocene.
Costeggiarono la ferrovia camminando sul rosticcio. Suttree si massaggiava il muscolo appena guizzante in quella sua mandibola da pensatore.
Da che parte vai?, fece Joe.
Mi fermo qui. Sono in barca.
Peschi ancora?
Già.
Com’è che ti ci sei messo?
Non lo so, disse Suttree. All’epoca mi sembrava una buona idea.
Ci vieni mai su dalle mie parti?
Ogni tanto.
Perché una sera non fai un salto al Corner che ci beviamo una birra.
Uno di questi giorni passo.
Pescato oggi?
Sí. Un po’.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Cormac McCarthy.
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