Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La tempesta del secolo di Stephen King, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 5,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
La tempesta del secolo: trama del libro
La chiamarono la tempesta del secolo perché fu l’apocalisse, davvero. Neve alta un metro e mezzo, raffiche a cento all’ora, capannoni risucchiati dal mare; perfino la torre del faro spazzata via dai flutti. Gli abitanti di Little Tall ne avevano viste di burrasche, ma questa… Little Tall Island è un’isoletta davanti alle coste del Maine. D’estate ferve di turisti e aragoste, d’inverno i pochi residenti – gente solida, di mare – restano a fronteggiare una natura ostile. Una comunità piccola ma efficiente, abituata a contare su se stessa e a custodire i propri segreti… Come in questa bufera, in cui l’isola rimane tagliata fuori dal mondo per più giorni e, assieme alla furia degli elementi, si scatena anche qualcos’altro. Qualcosa che nessuno aveva mai visto fino ad allora. Qualcosa che nessuno vorrebbe mai vedere. Poco prima che incominci a nevicare Martha Clarendon, ottantenne e invalida, viene aggredita selvaggiamente nella sua casa. E mentre il cadavere insanguinato si raffredda sul pavimento, l’assassino, con il suo bastone dalla testa ringhiante di lupo, siede tranquillamente in poltrona… ad aspettare. Sa che verranno ad arrestarlo. E glielo lascerà fare; perché è giunto fin lì per un motivo. E dopo aver inflitto dolore, morte e distruzione se li troverà infine di fronte, ridotti a un gregge tremante: lo sceriffo Anderson, la sua famiglia e tutti i membri dell’ordinata, esigua collettività. Allora detterà le sue condizioni: “Datemi quello che voglio e me ne vado”. Alcuni morirono subito, altri anni dopo, oppressi dal ricordo prima ancora che dal rimorso. Quasi tutti morirono dentro. Perché quello che chiedeva li costrinse a guardare nell’abisso delle loro anime…
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Altre volte non ricordo proprio come sono arrivato a concepire un particolare romanzo o racconto. In questi casi sembra che il germe sia un’immagine piuttosto che un’idea, un’istantanea mentale così viva da evocare personaggi e fatti un po’ come si dice che i fischietti ultrasonici siano in grado di richiamare tutti i cani del vicinato. Questi sono, almeno per me, i veri misteri della creatività: storie che non hanno veri antecedenti, che sbocciano per proprio conto. Il Miglio Verde ebbe inizio con l’immagine di un nero enorme che, in piedi dietro le sbarre della sua cella, guardava avvicinarsi un inserviente che spingeva un vecchio carrello di ferro con una ruota cigolante, con il quale vendeva dolciumi e sigarette. Anche La tempesta del secolo ha avuto origine da un’immagine di prigione: quella di un uomo (bianco, non nero) seduto sulla branda della sua cella, con i piedi sollevati, le braccia appoggiate alle ginocchia e gli occhi fissi. Non era né un buon uomo né un uomo buono, come il John Coffey de Il Miglio Verde; questo era un uomo estremamente cattivo. Forse nemmeno un uomo. Ogni volta che la mia mente tornava a lui, magari mentre guidavo, o mentre aspettavo dall’oculista che mi si dilatassero le pupille, o peggio ancora di notte, a luci spente, sveglio nel letto, ogni volta che lo rivedevo lo trovavo un po’ più inquietante. Sempre seduto sulla sua branda e immobile, ma un po’ più spaventoso. Un po’ meno uomo e un po’ più… be’, un po’ più quello che c’era dietro.
È da lui, uomo o altro che fosse, che la storia cominciò a emergere piano piano. L’uomo sedeva su una branda. La branda era in una cella. La cella era nel retrobottega di un minimarket su Little Tall Island, quella che ricordo ogni tanto come «l’isola di Dolores Claiborne». Perché in un retrobottega? Perché una comunità piccola come quella di Little Tall non avrebbe bisogno di una stazione di polizia, ma solo di uno sceriffo part time che si occupi dei rari casi di disturbi alla quiete pubblica, per esempio, un ubriaco che dà in escandescenze, o un pescatore un po’ troppo manesco che ogni tanto maltratta la moglie. Chi potrebbe essere quello sceriffo? Ma Mike Anderson, naturalmente, proprietario e gestore dell’Anderson’s Market. Una persona abbastanza perbene e abbastanza abile con gli ubriachi e i pescatori maneschi… ma supponiamo che arrivi qualcosa di veramente cattivo? Una creatura malvagia, forse, come il demonio che ha invasato Regan in L’esorcista? Qualcosa che siede immobile dietro le sbarre saldate dal fabbro locale a guardare fuori e aspettare… Aspettare che cosa?
Ma la tempesta, naturalmente. La tempesta del secolo. Una tempesta tanto violenta da tagliare fuori Little Tall Island dal continente, da costringere l’isola ad affidarsi completamente alle proprie risorse. La neve è bella; la neve è mortale; la neve è anche un velo, come quello che usa il mago per nascondere il suo trucco. Isolato dal resto del mondo, nascosto dalla neve, il mio babau nella cella (che ormai nella mia mente si identificava con il nome che lui stesso aveva dato, André Linoge) è capace di atti terribili. I peggiori, forse, da compiere senza nemmeno alzarsi dalla branda su cui siede con le braccia appoggiate alle ginocchia sollevate.
Ero giunto a questo punto delle mie elucubrazioni nell’ottobre o novembre 1996; un uomo malvagio (o forse un mostro travestito da uomo) rinchiuso in una cella, una bufera più violenta di quella che negli anni Settanta paralizzò completamente la fascia del Nordest, una comunità abbandonata a se stessa. Mi intimidiva la prospettiva di creare un’intera collettività (l’avevo già fatto in due romanzi, Le notti di Salem e Cose Preziose, ed è un’impresa titanica), ma le possibilità che mi venivano offerte erano stimolanti. Sapevo anche di essere arrivato al punto in cui dovevo assolutamente scrivere se non volevo perdere la mia occasione. Le idee articolate, che sono poi la maggioranza, resistono per un discreto lasso di tempo, ma una storia che parte da una singola immagine, che esiste soprattutto in forza della sua potenzialità, è merce assai più deperibile.
Ritenevo che le probabilità che La tempesta del secolo crollasse sotto il proprio peso fossero abbastanza alte, ma nel dicembre 1996 cominciai comunque a scrivere. Lo slancio finale mi venne dalla considerazione che se avessi ambientato la mia storia su Little Tall Island avrei avuto l’occasione di esprimere qualche riflessione interessante e provocatoria sulla natura stessa di una comunità… perché non c’è comunità negli Stati Uniti così strettamente chiusa in se stessa quanto quelle delle isole davanti alla costa del Maine. I loro abitanti sono legati tra loro da situazioni, tradizioni, interessi, pratiche religiose e occupazioni difficili e talvolta pericolose. Sono anche stretti da consanguineità e spirito di clan, costituiti da quattro o cinque vecchie famiglie, i cui cugini, nipoti e suoceri si sovrappongono nelle parentele come le cuciture di un patchwork.1 Sono sempre cordiali con i turisti, «la gente dell’estate», come li chiamano loro, ma è inutile aspettarsi di entrare a far parte della comunità. Puoi tornare per sessant’anni di fila al tuo cottage sul promontorio affacciato sullo stretto e resterai sempre e comunque un forestiero. Perché la vita sull’isola è diversa.
Io scrivo di piccole collettività perché sono un ragazzo di provincia (anche se non un isolano, mi affretto ad aggiungere; quando scrivo di Little Tall, ne scrivo come un forestiero), e gran parte dei miei racconti sulla provincia, quelli ambientati a Jerusalem’s Lot, a Castle Rock, e su Little Tall Island, devono qualcosa a Mark Twain (L’uomo che corruppe Hadleyburg) e a Nathaniel Hawthorne (Il giovane Goodman Brown). Tuttavia tutte quelle storie, mi sembra, ruotavano intorno a un incontrollato postulato centrale: che la comunità venisse sconvolta da un elemento esterno negativo, che separava gli individui trasformandoli in nemici. Questo è però un fenomeno che ho acquisito tramite le letture, non nella mia esperienza personale di membro di una comunità; come tale, ho visto le piccole città animarsi di solidarietà collettiva in ogni situazione di grave emergenza.2
Ma resta un interrogativo: far fronte comune dà sempre per risultato il comune bene? Il concetto di «comunità» scalda sempre il pericardio o qualche volta gela il sangue? È a questo punto che ho immaginato la moglie di Mike Anderson abbracciare il marito e mormorargli all’orecchio: «Fai che [Linoge] abbia un incidente». Ah, che brivido ho provato! E ho capito che dovevo almeno provare a scrivere questa storia.
Rimaneva da risolvere la questione della forma. Non me ne preoccupo mai, non più di quanto mi preoccupi la questione della voce narrante. La voce di una storia (di solito una terza persona, qualche volta una prima) viene normalmente da sé. Altrettanto vale per la forma che assumerà un’idea. Mi sento più a mio agio nello scrivere romanzi, ma scrivo anche racconti, sceneggiature e, raramente, poesie. È sempre l’idea a dettare la forma. Non puoi trasformare un romanzo in un racconto, non puoi trasformare un racconto in una poesia, e non puoi imbrigliare un racconto che decide che vuole essere un romanzo (sempre che non lo voglia uccidere).
Presumevo che, se lo avessi scritto, La tempesta del secolo sarebbe stato un romanzo. Tuttavia, mentre mi preparavo a cominciare, ero tormentato dall’idea che fosse un film. Ogni immagine sembrava quella di un film e non di una pagina scritta: i guanti gialli dell’assassino, il pallone da basket sporco di sangue di Davey Hopewell, i bambini che volavano con Linoge, Molly che bisbigliava all’orecchio del marito: «Fai che abbia un incidente», e soprattutto Linoge nella cella, con i piedi sulla branda, le mani penzoloni, a orchestrare tutto quanto. Sarebbe stato troppo lungo per una sala cinematografica, ma pensavo di avere un modo per aggirare l’ostacolo. Nel corso degli anni avevo consolidato ottimi rapporti professionali con l’Abc, fornendo materiale (e talvolta film TV) per alcune miniserie che avevano avuto un confortante successo. Mi misi in contatto con Mark Carliner (che ha prodotto la nuova versione di Shining) e Maura Dunbar (che è la mia interlocutrice creativa all’Abc dagli inizi di questo decennio). Sarebbero stati per caso interessati a un autentico romanzo per la televisione, una scrittura che esistesse da sola e non si basasse invece su un romanzo preesistente?
Risposero entrambi di sì senza esitare e quando ebbi finito le tre sceneggiature di due ore ciascuna, il progetto andò in preproduzione e poi sul set senza ripensamenti creativi o intoppi organizzativi. Fra gli intellettuali va di moda sparare a zero sulla televisione (e, per l’amor di Dio, mai confessare di guardare Frasier, meno che mai Jerry Sprinter), ma io ho lavorato per TV e cinema, e sottoscrivo l’adagio secondo cui a Hollywood i televisivi vogliono produrre show e i cinematografici fare prenotazioni al ristorante. Non è rancore, il mio; il cinema è stato in larga misura generoso con me (se vogliamo ignorare film come La creatura del cimitero e Unico indizio la luna piena). Ma in televisione ti lasciano lavorare… e se hai una storia che funziona, dove sono numerose le parti con risvolti drammatici, ti lasciano anche sforare un po’. E a me piace sforare. È così bello. L’Abc stanziò trentatré milioni di dollari per questo progetto sulla base della prima stesura delle tre sceneggiature, che non furono mai modificate in maniera sostanziale. Anche questo fu molto bello.
Ho scritto La tempesta del secolo proprio come avrei scritto un romanzo, aiutandomi con una lista dei personaggi ma senza altri appunti, rispettando una tabella di marcia di tre o quattro ore al giorno e portando con me il mio Mac PowerBook per lavorare nelle stanze d’albergo durante le regolari spedizioni con mia moglie per seguire la squadra femminile di basket del Maine quando giocava in trasferta a Boston, New York e Filadelfia. La sola vera differenza è che ho usato un programma specifico per le sceneggiature e non Word 6 che uso per la prosa normale (e che ogni tanto si chiude inaspettatamente e mi lascia con lo schermo vuoto, mentre Final Draft per le sceneggiature è, grazie a Dio, privo di bachi). E sono pronto a sostenere in qualunque circostanza che quello che segue non è propriamente un «dramma TV» o una «miniserie». È in tutto e per tutto un romanzo, che semplicemente esiste in una forma diversa da un libro.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore del Maine rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stephen King.
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