Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il tempo che vorrei di Fabio Volo. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 11,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 7,99.
Il tempo che vorrei: trama del libro
“I’ll trade all my tomorrows for a single yesterday: cambierei tutti i miei domani per un solo ieri, come canta Janis Joplin.” È forse proprio questo il tempo che vorrei. Lorenzo non sa amare, o semplicemente non sa dimostrarlo. Per questo motivo si trova di fronte a due amori difficili da riconquistare, da ricostruire: con un padre che forse non c’è mai stato e con una lei che se n’è andata. Forse diventare grandi significa imparare ad amare e a perdonare, fare un lungo viaggio alla ricerca del tempo che abbiamo perso e che non abbiamo più. È il percorso che compie Lorenzo, un viaggio alla ricerca di se stesso e dei suoi sentimenti, quelli più autentici, quelli più profondi. Il nuovo libro di Fabio Volo è anche il più sentito, il più vero, e la forza di questa sincerità viene fuori in ogni pagina. Ci si ritrova spesso a ridere in momenti di travolgente ironia. Ma soprattutto ci si ritrova emozionati, magari commossi, e stupiti di quanto la vita di Lorenzo assomigli a quella di ciascuno di noi.
Non conosco la povertà che si vede spesso in televisione, quella di gente che muore di fame e non ha nulla. Io conosco la povertà di chi possiede qualcosa, di chi ha da mangiare e ha anche un tetto, un televisore, una macchina. La povertà di chi può fingere di non esserlo. È una povertà piena di oggetti, ma anche di scadenze. In questo tipo di povertà sei fortunato e sfortunato allo stesso tempo: c’è chi sta meglio di te e chi sta peggio. Però è comunque vergogna, è colpa, è continua castrazione. E poi ansia, precarietà del tutto: è rabbia repressa, è abbassare sempre la testa. Non sei così povero da non avere abiti addosso, ma i vestiti che indossi spesso ti mettono a nudo e rivelano il tuo segreto. Basta un rammendo a dire chi sei. È un continuo pensiero che ti occupa il cervello e che non lascia spazio a nient’altro, soprattutto a nessun tipo di bellezza, perché la bellezza non è funzionale, non è utile. È un lusso che non ti appartiene.
Spesso vivi una vita apparentemente normale agli occhi degli altri, ma in realtà sei soggetto a una legge diversa: quella della privazione. E pian piano impari a mentire. Questo tipo di povertà è menzogna. Bugie a volte grandi, a volte piccole. Impari a dire che il telefono di casa è rotto, invece te lo hanno staccato; che non puoi uscire a cena perché hai un impegno; che la macchina l’hai prestata, invece non hai pagato l’assicurazione o non hai i soldi per fare benzina.
Diventi esperto nell’arte di mentire e soprattutto in quella di arrangiarti: l’arte del riparare, rattoppare, incollare, inchiodare. Questo tipo di povertà è la tapparella rotta che tieni alzata infilando sotto la cinghia un pezzo di cartoncino, che se per caso si sfila la tapparella scende di scatto come una ghigliottina. È la piastrella mancante in bagno, è il buco sotto il lavandino che fa intravedere le tubature, è il pezzo di formica saltato nell’angolo della credenza. È il cassetto che ti resta in mano quando lo apri. È l’anta dell’armadio che per chiuderla devi alzarla. Sono le prese della corrente che penzolano perché quando togli la spina escono dal muro, e per rimetterle dentro devi sistemare le due alette di ferro dentate. È la tappezzeria che si solleva tra le giunture. È la macchia di umidità in cucina, con la vernice che si gonfia come pasta lievitata, e quelle nuvolette sono così invitanti che devi lottare contro la tentazione di prendere una scala e salire per farle scoppiare. Sono le sedie che si scollano e diventa pericoloso sedercisi sopra.
È una povertà fatta di oggetti tenuti insieme da colla e nastro adesivo, che ha bisogno di un cassetto pieno di attrezzi per riparare una realtà che va a pezzi ovunque. Tutto è precario, tutto è provvisorio, tutto è fragile e in attesa di momenti migliori. Ma questi oggetti rattoppati, in effetti, poi durano tutta la vita. Nulla è più duraturo di una cosa provvisoria.
La prima volta che ho sentito mio padre dire “sono un fallito” non potevo avere la minima idea di cosa potesse significare. Ero troppo piccolo. Quando l’ha detto, al bar erano venuti dei signori per portare via delle cose. Lì ho imparato un’altra parola: “pignoramento”. Da allora, ogni volta che degli sconosciuti entravano al bar o in casa e portavano via un oggetto, io non chiedevo più nulla. Perché, anche se non sapevo, capivo. E io, bambino, imparavo. Per esempio non sapevo il motivo, però capivo che era per colpa di quelle persone se la macchina di mio padre era intestata a mio nonno, il padre di mia madre. Così si diceva, “intestata”: non avevo la minima idea di cosa volesse dire. Non sapevo niente, ma capivo tutto.
Sono cresciuto vedendo mio padre ammazzarsi di lavoro nel tentativo di risolvere i problemi.
Aveva un bar e ci lavorava sempre, anche se stava male. Persino la domenica, quando era chiuso, passava gran parte della giornata lì dentro a riordinare, sistemare, pulire, aggiustare.
Non sono mai andato in vacanza con i miei genitori. D’estate venivo depositato dai nonni materni che prendevano in affitto una casa in montagna.
La domenica mia madre veniva da sola dai nonni a trovarmi e mi portava i saluti di mio padre. Non abbiamo neanche una fotografia di noi tre insieme in qualche località turistica. Non potevamo permetterci di andare tutti insieme in vacanza. Non c’erano i soldi.
I soldi… Ho visto mio padre chiederli in prestito a tutti. Parenti, amici, vicini di casa. L’ho visto umiliarsi e farsi umiliare. Quante volte da bambino mi capitava di andare a casa di suoi amici, gente che nemmeno conoscevo, e aspettare in cucina. Magari con la moglie, mentre lui andava in un’altra stanza con l’amico a fare “una cosa”. La signora sconosciuta mi chiedeva se volevo qualcosa e io dicevo sempre di no. Non parlavo molto, ero sempre a disagio e tutti mi sembravano giganti. In fondo credo fosse la stessa sensazione che provava mio padre.
Ha chiesto soldi a tutti, proprio a tutti. Anche a me, che ero un bambino. Un giorno è venuto nella mia cameretta a trovarmi perché avevo la febbre. Stavo male, ma ero felice perché mia madre mi aveva appena detto che il motivo della febbre era che stavo diventando grande: non appena mi fosse passata, sarei stato più alto.
«Lo sai, papà, che quando guarisco sarò cresciuto? Diventerò grande come te?»
«Certo, anche più grande di me.»
Prima di uscire dalla cameretta ha preso il mio salvadanaio, un ippopotamo rosso. Mi ha detto che avrebbe messo i soldi in banca. Mi ha convinto dicendomi che me ne avrebbe restituiti di più quando li avrei chiesti indietro.
Col tempo ho capito come stavano veramente le cose riguardo al mio salvadanaio e mi sono sentito tradito, ingannato. Ho imparato da subito ad avere poca fiducia nei confronti degli adulti, per questo sono cresciuto con una fragilità dentro costretta a mascherarsi da forza. Non ho avuto accanto una figura forte che mi facesse sentire al sicuro, che mi facesse sentire protetto. Molte persone, crescendo, si accorgono che quel gigante che è il padre non è poi così potente. Io l’ho scoperto fin da bambino. Come tutti anch’io avrei voluto considerare mio padre invincibile, ma quell’idea per me è durata poco.
Mio padre lavorava, lavorava, lavorava. Lo ricordo mentre si addormentava a tavola guardando il telegiornale. La testa gli cadeva in avanti lentamente finché un colpo finale, come una frustata con il collo, lo svegliava. Si guardava in giro per rendersi conto dov’era e per capire se io e mia madre lo avevamo visto. Tutto questo giro di perlustrazione lo faceva muovendo la bocca come se stesse masticando. Come fanno le mucche.Io lo osservavo e vedevo, prima della frustata, dei piccoli cedimenti della testa e aspettavo che arrivasse quello forte. E ridevo. Quando capiva che lo stavo fissando e che mi ero accorto di tutto, mi sorrideva e mi faceva l’occhiolino.Io ero felice. Ogni volta che mi faceva l’occhiolino, magari di nascosto da mia madre, mi faceva sentire così complice e vicino a lui: mi sembrava una cosa solo per noi due uomini. Allora cercavo di farglielo anch’io ma, siccome non ne ero capace, chiudevo entrambi gli occhi. O ne chiudevo soltanto uno usando il dito. Ogni volta speravo che fosse l’inizio di una nuova amicizia tra noi, più intima.Che finalmente avesse deciso di giocare un po’ più con me e di portarmi sempre con sé. Ero così felice che le gambe penzolanti dalla sedia iniziavano ad andare avanti e indietro. Come se nuotassi in quella sensazione. Invece no, la complicità finiva lì. Dopo aver mangiato si alzava per andare a sbrigare delle piccole faccende, o per tornare a lavorare. Io ero piccolo e non capivo, semplicemente pensavo che non mi volesse, che non desiderasse stare con me.
I miei tentativi per attirare la sua attenzione e il suo amore fallivano sempre. Con mia madre ci riuscivo, con lui niente. Quando dicevo qualcosa di divertente lei rideva, mi faceva i complimenti, mi abbracciava e io sentivo di avere un potere smisurato: potevo cambiarle l’umore, potevo farla ridere. Con lei avevo i superpoteri. Con mio padre, invece, non funzionavano. Non riuscivo a farlo innamorare di me.
Per la biografia e la bibliografia completa del conduttore e scrittore italiano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Fabio Volo.
bellissimo, peccato che è finito subito, avrei letto per ore