Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il tempo della guerra di Andrzej Sapkowski. Il romanzo è pubblicato in Italia da Nord con un prezzo di copertina di 18,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 10,99.
Il tempo della guerra: trama del libro
Tre ombre cavalcano nella notte. Sono tre sicari, lanciati all’inseguimento della loro prossima vittima. Tuttavia non sanno di essere a loro volta seguiti da una creatura più forte e più resistente di qualsiasi essere umano: Geralt di Rivia, l’assassino di mostri. In circostanze normali, lo strigo non si sporcherebbe le mani per eliminare dei comuni criminali, ma stavolta è diverso. Perché quei tre sono stati assoldati per uccidere la principessa Ciri e, se ci riusciranno, il mondo intero sarà perduto: Ciri è la Fiamma di Cintra, la maga di cui parlano le profezie, l’unica forza in grado di contrastare i piani dell’imperatore di Nilfgaard – lo spietato conquistatore del Nord – e di riportare la pace tra i popoli della terra. Per questo è essenziale che Ciri arrivi sana e salva sull’isola di Thanedd, dove si stanno radunando tutti gli altri maghi. E Geralt è disposto a ogni sacrificio pur di proteggere il suo cammino. Però nessuno può immaginare che la principessa non sarà al sicuro nemmeno sull’isola. Sebbene sia difesa da incantesimi potentissimi, le spie di Nilfgaard sono infatti sbarcate persino in quel luogo isolato. E adesso sono in attesa, pronte a colpire…
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Un cervello fino è indispensabile, spiegava Aplegatt ai giovani messaggeri, perché sotto il vestito, nella piatta borsa di pelle fissata al petto, il messaggero porta soltanto notizie di minore importanza, che si possono affidare senza timore alle insidie della carta o della pergamena. Le informazioni davvero importanti, segrete, ricche d’implicazioni, il messaggero deve tenerle in mente e ripeterle al destinatario. Parola per parola, e a volte si tratta di parole non semplici. Difficili da pronunciare e tanto più da ricordare. Per ricordarle, e per non commettere errori nel ripeterle, bisogna avere davvero un cervello fino.
Quanto al sedere di ferro, be’, ogni messaggero ne sperimenta da solo e in fretta l’utilità, quando deve cavalcare tre giorni e tre notti, percorrere cento o anche duecento miglia sulle vie maestre e talvolta, all’occorrenza, in luoghi impervi. Be’, si capisce, non sta sempre in sella, ogni tanto smonta, si riposa. Perché, se l’uomo ha una grande resistenza, il cavallo ne ha di meno. Tuttavia, quando, dopo essersi riposato, gli tocca salire di nuovo in sella, è come se il sedere urlasse: «Aiuto, mi accoppano!»
«Ma al giorno d’oggi, signor Aplegatt, chi ha bisogno di messaggeri a cavallo?» si lamentavano di quando in quando i giovani. «Per esempio, nessuno percorre la distanza tra Vengerberg e Wyzima in meno di quattro o cinque giorni, pur in sella al più veloce dei destrieri. E quanto impiega un mago di Vengerberg a trasmettere magicamente una notizia a un suo collega di Wyzima? Mezz’ora o anche meno. Al messaggero può azzopparsi il cavallo. Può cadere vittima dei briganti o degli Scoiattoli, essere fatto a pezzi dai lupi o dai grifoni. E addio messaggero. Invece una notizia trasmessa magicamente arriva sempre, non smarrisce la strada, non giunge in ritardo e non si perde. A cosa servono i messaggeri, visto che i maghi sono ovunque, in ogni corte reale? Ormai, signor Aplegatt, i messaggeri sono inutili.»
Per qualche tempo, anche Aplegatt aveva creduto di non servire più a nessuno. Aveva trentasei anni, era piccolo ma forte e muscoloso, non aveva paura di lavorare ed era naturalmente dotato di un cervello fino. Avrebbe potuto trovarsi un altro lavoro per mantenere sé e la moglie, mettere da parte qualche soldo per la dote delle due figlie ancora zitelle e continuare ad aiutare quella sposata, il cui marito, un imbranato senza speranza, non riusciva ad avere successo negli affari. Ma Aplegatt non voleva e non riusciva a immaginare un altro lavoro. Era un messaggero reale a cavallo.
Ed ecco che, di punto in bianco, dopo un lungo periodo di oblio e di mortificante inattività, Aplegatt era tornato a essere utile. Le strade maestre e i sentieri nei boschi avevano ricominciato a rimbombare sotto gli zoccoli. I messaggeri, come ai vecchi tempi, avevano ricominciato a percorrere in lungo e in largo il paese, portando notizie di città in città.
Aplegatt sapeva perché. Vedeva molte cose, e ancora di più ne sentiva. Da lui ci si aspettava che cancellasse all’istante dalla memoria il contenuto delle notizie trasmesse, che le dimenticasse, in modo da non ricordarle neppure sotto tortura. Ma Aplegatt se le ricordava. E sapeva perché a un tratto i re avessero smesso di comunicare tra loro ricorrendo alla magia e ai maghi. Per questi ultimi, le notizie portate dai messaggeri dovevano rimanere un segreto. A un tratto i re avevano smesso di fidarsi dei maghi, e quindi avevano smesso di affidare loro i propri segreti.
Quale fosse il motivo dell’improvviso raffreddamento dell’amicizia tra re e maghi, Aplegatt non lo sapeva e non gliene importava granché. A suo parere, sia i re sia i maghi erano creature incomprensibili e dal comportamento imprevedibile, soprattutto quando i tempi si facevano difficili. E che i tempi fossero difficili era impossibile ignorarlo, andando di città in città, di castello in castello, di regno in regno.
Le strade brulicavano di soldati. A ogni piè sospinto, ci s’imbatteva in colonne di fanteria o cavalleria guidate da comandanti nervosi, preoccupati, bruschi e boriosi, quasi che il destino di tutto il mondo dipendesse solo da loro. Anche le città e i castelli erano pieni di gente armata, vi regnava giorno e notte un andirivieni febbrile. I burgravi e i castellani, di solito invisibili, ora correvano senza posa sulle mura e nei cortili, irosi come vespe prima di un temporale, gridavano, imprecavano, impartivano ordini, distribuivano calci. A qualsiasi ora del giorno e della notte, nelle fortezze e nelle guarnigioni, arrivavano lente colonne di carri stracolmi, incrociando quelli che procedevano nella direzione opposta veloci, agili e vuoti. Sulle strade maestre si depositava la polvere sollevata da mandrie di sfrenati cavalli di tre anni, condotti là direttamente dagli allevamenti. I cavalli giovani, non avvezzi al freno né a un cavaliere armato, approfittavano di quegli ultimi giorni di libertà, procurando una mole di lavoro supplementare agli stallieri e non pochi problemi agli altri viaggiatori.
Per farla breve, nell’aria afosa e immobile incombeva la guerra.
Aplegatt si sollevò sulle staffe e si guardò intorno. Giù in basso, ai piedi dell’altura, scintillava un fiume che scorreva con brusche curve tra prati e macchie di alberi. Al di là del fiume, a sud, si estendevano i boschi. Il messaggero spronò il cavallo. Il tempo incalzava.
Era in viaggio da due giorni. L’ordine del re e il messaggio da consegnare lo avevano raggiunto a Hagge, dove si stava riposando di ritorno da Tretogor. Aveva lasciato la fortezza di notte e galoppato sulla strada maestra lungo la riva sinistra del Pontar, aveva attraversato la frontiera con la Temeria il giorno prima, all’alba, e adesso, a mezzogiorno, era già sulla riva dell’Ismena. Se re Foltest fosse stato a Wyzima, Aplegatt gli avrebbe consegnato il messaggio quella notte stessa. Purtroppo, però, il re non era nella capitale: si trovava nel Sud del paese, a Maribor, distante da Wyzima circa duecento miglia. Aplegatt lo sapeva perciò, nei pressi di Ponte Bianco, aveva lasciato la strada che conduceva a ovest e si era addentrato nei boschi, diretto a Ellander. Correva qualche rischio. I boschi erano costantemente infestati dagli Scoiattoli, e guai a chi cadeva nelle loro mani o capitava a tiro dei loro archi. Ma un messaggero reale deve rischiare. È il suo mestiere.
Attraversò il fiume senza problemi: non pioveva da giugno, e le acque dell’Ismena erano molto basse. Tenendosi sul limitare del bosco, Aplegatt raggiunse la pista che da Wyzima conduceva a sud-est, verso le fonderie, le fucine e gli insediamenti dei nani nel massiccio di Mahakam. Lungo la pista avanzavano numerosi carri, spesso scortati da drappelli a cavallo. Aplegatt tirò un sospiro di sollievo. Dove c’era gente non c’erano Scoia’tael. In Temeria, la campagna contro gli elfi che combattevano gli umani durava ormai da un anno, e ormai i commando di Scoiattoli cui si dava la caccia nei boschi si erano divisi in gruppetti più piccoli, e i gruppetti più piccoli giravano alla larga dalle strade frequentate, senza tendervi imboscate.
Prima di sera, Aplegatt aveva già raggiunto il confine occidentale del principato di Ellander, il bivio nei pressi del villaggio di Zavada, da dove avrebbe proseguito agevolmente e senza pericolo fino a Maribor, lungo quarantadue miglia di strada battuta e frequentata. Al bivio c’era una locanda. Aplegatt decise di far riposare il cavallo e di schiacciare un pisolino. Sapeva che, se fosse ripartito all’alba, anche senza stancare troppo l’animale avrebbe scorto le bandiere nere e argentate sui tetti rossi delle torri del castello di Maribor ancora prima del tramonto.
Dissellò la giumenta e la governò lui stesso, mandando via il garzone. Era un messaggero reale, e un messaggero reale non permette a nessuno di toccare la propria cavalcatura. Mangiò una generosa porzione di uova strapazzate con salsicce e un quarto di pane integrale, bevve un quarto di gallone di birra. Ascoltò le chiacchiere della gente. Di svariato argomento. Nella locanda si fermavano viaggiatori da tutte le parti del mondo.
Nella Dol Angra, venne a sapere Aplegatt, erano avvenuti di nuovo degli incidenti; alla frontiera un reparto di cavalleria della Lyria si era scontrato di nuovo con una pattuglia di nilfgaardiani; Meve, regina di Lyria, aveva accusato di nuovo a gran voce Nilfgaard di averla provocata e aveva chiesto aiuto a re Demawend di Aedirn. A Tretogor era stato giustiziato pubblicamente un barone redaniano che aveva tenuto un incontro segreto con gli emissari di Emhyr, imperatore di Nilfgaard. A Kaedwen, alcuni commando di Scoia’tael si erano riuniti in un grosso drappello e avevano compiuto una strage nel forte di Leyda. La popolazione di Ard Carraigh aveva risposto a quel massacro con un pogrom, uccidendo quasi quattrocento non-umani che vivevano nella capitale.
In Temeria, raccontavano i mercanti provenienti dal Sud, tra gli emigranti di Cintra, raccolti sotto le insegne del maresciallo Vissegerd, regnavano la tristezza e il lutto. Era stata infatti confermata la terribile notizia della morte della Leoncina, la principessa Cirilla, ultima erede della regina Calanthe, la Leonessa di Cintra.
Circolavano voci ancora più spaventose e nefaste. Così, in alcuni villaggi nei dintorni di Aldersberg, durante la mungitura delle mucche, all’improvviso dalle mammelle era iniziato a zampillare sangue, e all’alba era apparsa nella nebbia la Vergine della Peste, annunciatrice di tremende carneficine. A Brugge, nei pressi del bosco di Brokilon, regno proibito delle driadi, aveva fatto la sua comparsa la Caccia Selvaggia, un corteo di spettri che galoppano in cielo. E la Caccia Selvaggia, come tutti sanno, preannuncia sempre una guerra. Infine, dal promontorio di Bremervoord, era stata avvistata una nave fantasma, con tanto di spettro sul ponte: un cavaliere nero con l’elmo ornato dalle ali di un uccello rapace…
Il messaggero smise di ascoltare le chiacchiere dei viaggiatori, era troppo stanco. Andò nella stanza da letto comune, si lasciò cadere su un pagliericcio e si addormentò come un sasso.
Si alzò all’alba. Uscendo in cortile, rimase leggermente stupito di non essere il primo in procinto di mettersi in viaggio. Capitava di rado. Accanto al pozzo c’era uno stallone morello già sellato e, poco lontano, davanti all’abbeveratoio, si lavava le mani una donna in abiti maschili. Nel sentire i passi di Aplegatt, la donna si girò, raccolse con le mani bagnate i rigogliosi capelli neri e li gettò indietro. Il messaggero s’inchinò. La donna rispose con un lieve cenno del capo.
Entrando nella stalla, Aplegatt andò quasi a sbattere contro un altro uccellino mattiniero, una fanciulla con un berretto di velluto che stava giusto conducendo in cortile una giumenta pomellata. La fanciulla si stropicciò il viso e sbadigliò appoggiandosi al fianco della cavalla. «Ahimè! Mi addormenterò sicuramente in sella», borbottò passando accanto al messaggero. «Mi addormenterò come niente… Uaauaaua…»
«Il freddo ti sveglierà quando farai trottare la tua cavallina», disse Aplegatt, cortese, tirando giù la sua sella dalla trave. «Buon viaggio, signorinella.»
La fanciulla si girò e lo guardò come se lo avesse notato solo allora. Aveva occhi grandi e verdi come smeraldi.
Aplegatt gettò la gualdrappa sul cavallo. «Ti ho augurato buon viaggio», ripeté. Di solito non era espansivo e neanche loquace, ma adesso sentiva il bisogno di parlare con un suo simile, anche se si trattava soltanto di una mocciosa assonnata. Forse per via dei lunghi giorni solitari trascorsi in viaggio, o forse perché la mocciosa gli ricordava un po’ sua figlia mezzana. «Che gli dei vi proteggano da incidenti e brutte avventure. Siete solo in due, per giunta donne… E sono brutti tempi. Il pericolo è in agguato ovunque lungo le strade maestre…»
La fanciulla sgranò gli occhi verdi.
Il messaggero si sentì gelare la schiena, fu percorso da un brivido.
«Il pericolo…» disse a un tratto la fanciulla con voce strana, diversa. «Il pericolo è silenzioso. Non lo sentirai, quando giungerà in volo sulle sue piume grigie. Ho fatto un sogno. La sabbia… La sabbia era arroventata dal sole…»
Aplegatt rimase immobile, la sella appoggiata contro la pancia. «Cosa? Che dici, signorinella? Che sabbia?»
La fanciulla trasalì violentemente e si stropicciò il viso. La giumenta pomellata scrollò la testa.
«Ciri!» chiamò in tono secco la donna dal cortile, mentre sistemava la cinghia della sella e le bisacce sullo stallone morello. «Sbrigati!»
La fanciulla sbadigliò, guardò Aplegatt e batté le palpebre, sembrando stupita di vederlo nella stalla.
Il messaggero rimase in silenzio.
«Ciri! Ti sei addormentata là dentro?» gridò la donna.
«Arrivo, signora Yennefer!»
Quando Aplegatt ebbe infine sellato il cavallo e lo ebbe condotto in cortile, non c’era traccia della donna e della ragazzina. Un gallo lanciò un chicchirichìprolungato e rauco, un cane abbaiò, mentre fra gli alberi risuonava il verso di un cuculo. Il messaggero montò in sella. A un tratto ricordò gli occhi verdi della fanciulla insonnolita, le sue strane parole. Pericolo silenzioso? Piume grigie? Sabbia rovente? La piccola deve essere un po’ tocca, pensò. Ora se ne vedevano tante, di ragazzine svitate, che durante la guerra avevano subito violenze dai soldati sbandati o da altri furfanti… Sì, era sicuramente tocca. O magari solo assonnata, buttata giù dal letto, ancora mezza addormentata? È incredibile che fandonie racconta a volte la gente, quando all’alba continua a oscillare tra il sonno e la veglia…
Aplegatt fu nuovamente percorso da un brivido e avvertì un dolore tra le scapole. Si massaggiò la schiena col pugno.
Non appena si ritrovò sulla pista per Maribor, ficcò i talloni nei fianchi del cavallo e si lanciò al galoppo. Il tempo incalzava.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore polacco rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrzej Sapkowski.
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