Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Teoria delle ombre di Paolo Maurensig. Il romanzo è pubblicato in Italia da Adelphi con un prezzo di copertina di 18,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Teoria delle ombre: trama del libro
La mattina del 24 marzo 1946 Alexandre Alekhine, detentore del titolo di campione del mondo di scacchi, venne trovato privo di vita nella sua stanza d’albergo, a Estoril. L’esame autoptico certificò che il decesso era avvenuto per asfissia, e che questa era stata provocata da un pezzo di carne conficcatosi nella laringe – escludendo qualsiasi altra ipotesi. La stampa portoghese pubblicò la versione ufficiale, e il caso fu rapidamente archiviato. Da allora, però, sulle cause di quella morte si sono moltiplicati sospetti e illazioni. Qualcuno ha insinuato che le foto del cadavere facevano pensare a una messinscena; qualcun altro si è chiesto come mai Alekhine stesse cenando nella sua stanza indossando un pesante cappotto – senza contare che il defunto aveva un passato di collaborazionista, e che i sovietici lo giudicavano un traditore della patria… Con il fiuto e il passo del narratore di razza, e con la sua profonda conoscenza del mondo degli scacchi (“lo sport più violento che esista”, ha detto uno che se ne intendeva, Garri Kasparov), Paolo Maurensig indaga sulla morte di Alekhine cercando di scoprire, come dice Kundera citando Hermann Broch, “ciò che solo il romanzo può scoprire”.
Approfondimenti sul libro
In ebook Teoria delle ombre (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro.
Tutto ha avuto origine dalla mia inveterata passione per gli scacchi. Posso infatti definirmi un dilettante entusiasta, anche se non ho mai partecipato a un torneo di qualificazione, né raggiunto un posto nella classifica ufficiale. Va detto però che persino un giocatore da caffè può trarre grandi soddisfazioni da questo gioco. In fondo, si trova a competere con avversari della sua stessa levatura, e l’emozione che prova non è molto diversa da quella vissuta dai campioni. C’è inoltre il piacere della ricerca, dello studio delle partite giocate dai grandi maestri del passato, e anche della scoperta di quanto le loro vite siano state tormentate, proprio a causa della loro devozione assoluta a questo temibile idolo. Vite che molto spesso si sono concluse in modo tragico.
Sono nato in Venezuela e ho trascorso l’infanzia a Caracas. Mio padre morì quando avevo solo cinque anni. Mia madre si impiegò allora come governante in una famiglia di italiani che aveva fatto fortuna nella ristorazione. Era benvoluta e molto legata a loro; così, quando questi decisero di ritornare in Italia, ci trasferimmo anche noi stabilendoci nella capitale.
Dal momento, però, che ho intenzione di parlare della vita di un altro, non è il caso che mi dilunghi sulla mia, che è trascorsa fino alla soglia dei cinquant’anni in un’aurea mediocrità; e se a un tratto ho deciso che avrei scritto un romanzo, non l’ho fatto per il desiderio di riscattarmi da una grigia esistenza, ma spinto unicamente da un’idea fissa: scoprire le cause della morte di un uomo, avvenuta quasi settant’anni fa. Quell’uomo è Aleksandr AleksandrovičAlechin, più noto come Alexandre Alekhine, e se in qualche modo ho imparato il gioco degli scacchi a un livello per me soddisfacente, lo devo a lui. Lo devo allo studio delle sue impareggiabili partite e ai commenti da lui stesso espressi, in modo chiaro e comprensibile, sulle varie fasi del suo gioco e sulle strategie applicate nel corso di ogni singola partita. Egli è ormai da molti anni il mio modello, il mio nume tutelare. Solo recentemente, però, ho cominciato a indagare sul suo passato, e da lì è scaturita l’idea di scrivere un romanzo. Non tanto sulla sua vita, in realtà, quanto sugli ultimi giorni che precedettero la sua morte tuttora inspiegabile. Per farlo, ho dunque indossato i panni di un investigatore deciso a riaprire il caso di un crimine archiviato senza essere stato risolto. Sono venuto a Lisbona e ho visitato tutti i circoli di scacchi, a cominciare dal Turf Club, nella centralissima Rua Garrett, fino all’ultima bettola fumosa di Estoril, dove ho contattato parecchie persone, spacciandomi per un giornalista interessato a scrivere un articolo sulla vita di Alekhine.
La conoscenza del portoghese – che era la lingua di mia madre – mi è stata di grande aiuto nel comunicare con la gente del luogo. A quanto sono riuscito a scoprire finora, però, ci sarebbe solo un uomo in grado di fornirmi qualche notizia inedita sui fatti accaduti a quel tempo. Si chiama Rui Nascimento. Scacchista, problemista, musicista e poeta, è un personaggio molto popolare a Lisbona. Sfortunatamente, è ricoverato in ospedale, in fin di vita. E non c’è da stupirsi, visto che è arrivato all’invidiabile età di novantotto anni.Ciononostante, ho deciso lo stesso di fargli visita. Ho pensato che forse avrei avuto modo di parlare con qualcuno dei familiari. E invece non ho neppure trovato il coraggio di varcare la soglia della sua stanza. Il letto era accanto a una finestra schermata da una tenda da cui filtrava una luce lattiginosa. Attorno a lui, alcune donne vestite di nero stavano raccolte in preghiera. Sono riuscito a intravederne solo il profilo aquilino, che le guance scavate rendevano più adunco: un volto già ridotto a una maschera funebre.
Finora, dunque, nulla di nuovo si è aggiunto a quanto avevo già scoperto attraverso le mie ricerche. Più di sessant’anni sono passati da allora, e ancora oggi il mistero della sua morte rimane irrisolto. Con l’avvento di Internet, poi, le ipotesi – molte delle quali non mi sentirei di condividere – si sono moltiplicate all’inverosimile. Restano comunque quelli che sono i fatti accertati e documentabili.
La mattina di domenica 24 marzo 1946, Alexandre Alekhine, campione del mondo di scacchi, fu trovato senza vita nella sua stanza dell’Hotel do Parque, a Estoril. A dare l’allarme il cameriere al piano incaricato di portargli la prima colazione, il quale, entrato con il carrello delle vivande, vide il maestro adagiato nella solita poltrona: con gli occhi chiusi e la testa reclinata sullo schienale, sembrava addormentato. Al posto della giacca da camera, indossava un cappotto, il braccio sinistro gli pendeva inerte lungo il fianco e tra le dita stringeva un pezzo di carne.
Un’emittente radiofonica portoghese diede subito l’annuncio della morte, attribuita a un attacco cardiaco. L’indomani il «Daily Mail» scrisse che Alekhine si era tolto la vita in seguito a una grossa perdita al casinò. Il certificato di morte fu stilato il giorno stesso dal dottor Antonio Jacinto Ferreira, il quale, tre giorni dopo, fu anche presente all’esame autoptico eseguito dal dottor Asdrúbal de Aguiar. Ne emerse che un boccone di carne gli aveva occluso le vie respiratorie, asfissiandolo. Inoltre fu evidenziato che il defunto soffriva di gastrite cronica, duodenite e arteriosclerosi. Curiosamente, non si faceva alcuna menzione né delle condizioni in cui si trovava il cuore né del fegato; eppure, erano noti a tutti i problemi di Alekhine con l’alcol.
Luís Lupi – patrigno di Francisco Lupi, campione di scacchi del Portogallo e amico di Alekhine – fu tra i primi ad accorrere e scattò alcune fotografie. Due delle quattro istantanee fecero in breve il giro del mondo, pubblicate su centinaia di riviste e quotidiani.
Proprio queste fotografie – divulgate con l’intento di confermare che il maestro era spirato serenamente – ottennero il risultato opposto, facendo sorgere parecchie perplessità sulla versione ufficiale. Mettendo a confronto le due istantanee, scattate da angolazioni diverse, si potevano infatti notare impercettibili spostamenti di alcuni oggetti; la cosa alimentò il dubbio che la scena fosse stata accuratamente preparata, con lo scopo di convincere i lettori e gli appassionati di scacchi che il campione del mondo fosse deceduto in modo naturale (e di conseguenza allontanare anche il minimo sospetto di morte violenta). Sebbene Alekhine fosse accusato di collaborazionismo, era un vanto per il Portogallo ospitare il campione del mondo di scacchi: la sua improvvisa scomparsa costituiva quindi motivo di grave imbarazzo per il governo. L’impressione generale fu che le autorità facessero di tutto per ridimensionare l’accaduto. Tale compito venne affidato alla PIDE (Polícia Internacional e de Defesa do Estado), che a quel tempo controllava con pugno di ferro l’intera società portoghese: essa impose ai giornali e alle emittenti radiofoniche una rigorosa censura e archiviò rapidamente il caso senza avviare ulteriori indagini.
Ciononostante, qualcuno ne parlò: il primo fu Artur Portela, giornalista in aperto contrasto con il regime di Salazar. Pur essendo considerato un sovversivo, e tenuto costantemente d’occhio dalla polizia segreta, Portela era intoccabile, poiché famoso in tutta Europa per le sue interviste a grandi statisti – tra i quali il generalissimo Franco e Winston Churchill – che gli avevano meritato l’Order of Liberty, conferitogli di recente da re Giorgio VI d’Inghilterra.
In un articolo apparso il 15 aprile sul «Diário de Lisboa», intitolato O segredo do Quarto 43. A morte misteriosa de Alexandre Alekhine, egli prendeva in esame tutte le incongruenze che apparivano nella ricostruzione della fatidica mattina del ritrovamento. In primo luogo faceva notare che la notizia della morte di Alekhine si era diffusa ben prima che il cameriere ne scoprisse il corpo senza vita. Riferendosi alle foto pubblicate, si chiedeva poi come mai il maestro, per mettersi a tavola, avesse infilato al posto della giacca da camera un pesante cappotto, quando la primavera portoghese era già piuttosto tiepida.
Artur Portela fu anche il primo a ventilare l’ipotesi dell’omicidio, suggerendo il coinvolgimento di alcuni agenti del Cremlino. Escludeva però, con doverosa prudenza, una complicità della polizia segreta di Salazar. Ciononostante, le sue illazioni furono messe in ridicolo, e attribuite alla feconda fantasia di uno scrittore. Ben presto, d’altronde, la stampa internazionale, dapprima riguardosa, divenne spietata e preferì concentrarsi sulla ambigua figura del campione e sulle sue intemperanze, facendo emergere dettagli poco edificanti della sua vita, come l’abitudine di mangiare carne con le mani e di bere ogni giorno addirittura tre pinte di cognac. Secondo la dichiarazione del grande maestro Hans Kmoch, Alekhine e la sua ultima moglie, Grace Wishard, giravano il mondo portandosi dietro, oltre a un certo numero di gatti, un intero baule colmo di bottiglie di liquore: un vero e proprio arsenale da viaggio.
Furono raccolte molte testimonianze – alcune poco attendibili – di chi asseriva di averlo conosciuto da vicino, e anch’esse contribuirono a farne un ritratto assai equivoco.
Non si escluse neppure l’ipotesi del suicidio.
Che avesse tendenze autolesionistiche lo confermava del resto lo scacchista Edmond Lancel, il quale raccontava che nel 1922, ad Aquisgrana, aveva incontrato Alekhine alle tre del mattino, proprio nel giorno del suo compleanno, mentre vagava per la hall deserta del Grand Hotel Corneliusbad. Gli sembrò che stesse male, e quando si avvicinò a lui per soccorrerlo Alekhine cadde svenuto ai suoi piedi, sanguinando copiosamente da una ferita al ventre che (si scoprì in seguito) si era procurato da sé con un coltello da cucina. Ricoverato tempestivamente all’ospedale, era stato dimesso dopo una settimana e, benché gli avessero raccomandato l’assoluto riposo, pochi giorni dopo già partecipava a un torneo. Le motivazioni di quel gesto rimasero sempre oscure, e si preferì comunque attribuirle genericamente a uno stato di forte affaticamento.
Reuben Fine, psicoanalista e candidato al titolo mondiale di scacchi (fu lui il primo a opporsi strenuamente alla partecipazione di Alekhine al torneo di Londra del 1946), ne avrebbe tracciato in seguito uno sconcertante ritratto psicologico, in cui lo definiva «il sadico degli scacchi» e arrivava a ipotizzare che già in giovane età avesse sofferto di impotenza, probabilmente a causa dell’alcolismo. Ma fu soprattutto sulle sue prese di posizione politiche che gli attacchi si moltiplicarono. Ci fu chi vide in lui un opportunista, un uomo senza ideali, pronto a cambiare casacca in ogni momento. Si disse che era una spia, un doppiogiochista, un traditore. Qualcuno asserì che avesse avuto a che fare con la famosa macchina crittografica denominata Enigma, e che avesse lavorato dapprima come agente dell’intelligence britannica, per poi passare al nemico, mentre altri sostenevano che, ingaggiato da una cellula «fantasma» dei servizi segreti inglesi, capeggiata da Ian Fleming e non riconosciuta ufficialmente dall’Alto comando, avesse perso ogni contatto con i propri reclutatori, trovandosi nell’impossibilità di chiarire la propria posizione.
Ma l’infamia peggiore che gli veniva attribuita, la macchia indelebile che Alekhine si portò addosso negli ultimi anni di vita, fu la sua amicizia con il Reichsminister Hans Frank, governatore della Polonia. Alla fine della guerra, gli restavano dunque pochi amici: per i francesi era un collaborazionista, per i sovietici un traditore. Gli stessi russi bianchi stabilitisi in Europa non gli perdonavano di aver lavorato, durante la Rivoluzione, nel dipartimento che si occupava di espropriare i beni degli emigrati.
I nemici, quindi, non gli mancavano, ma se – come credo – Alekhine è stato assassinato, quello che mi manca è un plausibile movente. Non si può, infatti, imbastire una storia imperniata su un delitto, senza smascherare alla fine l’assassino.
Sono venuto fin qui per trovare un epilogo plausibile al mio romanzo, e probabilmente me ne andrò senza aver concluso nulla. Mi sono rivolto ai vecchi del luogo. Mi sono illuso che di Alekhine tutti ricordassero qualcosa, ma alla maggioranza di loro quel nome non dice assolutamente nulla. Solo qualcuno, nel sentirlo pronunciare, ha avuto un impercettibile sussulto, come se nel meccanismo della memoria il dente di una rotellina avesse fatto uno scatto.
«Ah, sim, o campeão mundial de xadrez».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore italiano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Paolo Maurensig.
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