Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il terminale uomo di Michael Crichton. Il romanzo è pubblicato in Italia da Garzanti con un prezzo di copertina di 8,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il terminale uomo: trama del libro
Harry Benson è un uomo che soffre di epilessia psicomotoria, che lo rende spesso violento e nocivo per le altre persone. Inoltre l’uomo, dopo aver commesso delle violenze durante i suoi scatti d’ira, subisce delle amnesie totali che cancellano ogni ricordo dei suoi atti. Proprio lui, Harry Benson, è il primo candidato per un’operazione chirurgica sperimentale che consiste nell’inserimento di un minicomputer provvisto di elettrodi nel cervello che, attraverso piccole scosse elettriche, sarebbe capace di controllare questi scatti violenti. Tuttavia, presto la speranza di poter prevedere e gestire il comportamento di un essere umano si rivela drammaticamente vana.
Approfondimenti sul libro
L’ebook di Il terminale uomo (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di euro 6,99.
Scesero al pronto soccorso a mezzogiorno e si sedettero sulla panca appena oltre la porta girevole che si apriva sul parcheggio delle ambulanze. Ellis, il più anziano, era nervoso, preoccupato, distante. Invece Morris, il più giovane, era calmissimo: mangiò una caramella. Ne appallottolò l’involucro infilandoselo nella tasca della giacca bianca.
Di lì vedevano la luce del sole che da fuori batteva sul grande cartello con la scritta PRONTO SOCCORSO, e su quello più piccolo: PARCHEGGIO RISERVATO ALLE AMBULANZE. In lontananza si sentirono delle sirene.
«È lui?», domandò Ellis.
Morris guardò l’orologio. «Non credo. È troppo presto».
Rimasero seduti ad ascoltare le sirene che si avvicinavano. Ellis si tolse gli occhiali e se li pulì con la cravatta. S’avvicinò un’infermiera, di cui Morris non conosceva il nome, e disse allegramente: «Il comitato d’accoglienza?».
Ellis la guardò storto. Morris disse: «Lo porteremo subito dentro. Avete già la sua cartella?».
«Credo di sì, dottore», disse l’infermiera e se ne andò con aria irritata.
Ellis sospirò. Si rimise gli occhiali e guardò accigliato la ragazza.
«Suppongo che a quest’ora lo sappiano tutti in questo dannato ospedale».
«È un segreto troppo grosso perché si possa mantenerlo», disse Morris.
Adesso le sirene erano vicinissime. Si vide dalla finestra un’ambulanza che entrava a marcia indietro nel parcheggio. Due inservienti aprirono la porta posteriore e tirarono fuori la barella, su cui giaceva una vecchia che ansimava emettendo umidi gorgoglii. Edema polmonare acuto, pensò Morris mentre la portavano in una delle sale di cura.
«Speriamo che sia in buone condizioni», disse Ellis.
«Chi?».
«Benson».
«Perché non dovrebbe esserlo?».
«Potrebbero averlo maltrattato un po’». Ellis guardava cupo dalla finestra. È proprio di cattivo umore, pensò Morris. E sapeva che questo era un segno di eccitazione: aveva lavorato troppe volte con lui per non riconoscere i sintomi. Irascibilità nervosa nel periodo d’attesa; calma totale, al limite dell’indolenza, all’inizio dell’operazione. «Dove diavolo sarà?», disse Ellis, guardando di nuovo l’orologio.
Per cambiare argomento, Morris disse: «È tutto pronto per le tre e mezzo?». Alle tre e mezzo di quel pomeriggio Benson sarebbe stato presentato al personale dell’ospedale in una riunione speciale del reparto neurochirurgico.
«Per quel che ne so io», disse Ellis, «la presentazione la farà la Ross. Spero solo che Benson sia in buone condizioni».
All’altoparlante una voce morbida disse: «Dottor Ellis, dottor John Ellis, due-due-tre-quattro. Dottor Ellis, due-due-tre-quattro».
«Merda». Ellis si alzò per rispondere alla chiamata.
Morris sapeva che due-due-tre-quattro era il numero interno dei laboratori animali. La chiamata significava probabilmente che c’era qualche guaio con le scimmie. Da un mese, per tenersi pronto e per preparare i suoi assistenti, Ellis operava tre scimmie alla settimana.
Lo vide attraversare la stanza e rispondere a un apparecchio a muro. Ellis zoppicava leggermente per un incidente avuto da bambino che gli aveva leso il nervo peroneo laterale della gamba destra. Morris si era sempre chiesto se quell’incidente avesse influito sulla decisione di Ellis di diventare un neurochirurgo. Certo si comportava come un uomo deciso a rimediare ai difetti e a rimettere a posto le cose. Ai suoi pazienti diceva sempre: «Noi possiamo rimetterla a posto». Di difetti ne aveva parecchi: claudicava, era prematuramente semicalvo, vedeva pochissimo, portava occhiali grossi e spessi. Tutto questo creava un clima di vulnerabilità che rendeva più sopportabile il suo carattere irascibile.
Morris guardò attraverso la vetrata il sole e il parcheggio. Stava cominciando l’orario pomeridiano delle visite: i parenti arrivavano in macchina nel parcheggio, scendevano, alzavano gli occhi verso gli alti edifici dell’ospedale. La loro apprensione era evidente: l’ospedale è un luogo che mette paura alla gente.
Morris notò che molti di loro erano abbronzati. Era stata una primavera calda e assolata a Los Angeles, eppure lui era ancora pallido come la giacca e i pantaloni bianchi che portava tutti i giorni. Avrebbe dovuto uscire più spesso, si disse. Per cominciare poteva andare a far colazione fuori. Anche il fatto di giocare a tennis non serviva, perché di solito lo faceva di sera.
Ellis tornò scuotendo la testa. «Ethel si è strappata le suture».
«Come è successo?». Ethel era una giovane scimmia rhesus che il giorno prima aveva subito un’operazione al cervello. L’operazione era andata a meraviglia. E Ethel, per essere una scimmia rhesus, era singolarmente docile.
«Non so», disse Ellis. «Sembra che sia riuscita a liberarsi un braccio. Comunque adesso sta gridando e ha l’osso scoperto».
«Si è strappata anche i fili?».
«Chi lo sa? L’importante è che devo andare subito a ricucirla. Puoi occuparti tu di questa faccenda?».
«Credo di sì». Morris avrebbe preferito che ci fosse anche Ellis, specie per trattare con i poliziotti. Ma probabilmente era in grado di cavarsela anche da solo.
«Sei in buoni rapporti con la polizia?», disse Ellis. «Non credo comunque che ti daranno dei problemi».
«Non lo credo neanch’io».
«Devi solo portare Benson su al settimo il più in fretta possibile. Poi chiama la Ross. Io arriverò prima che posso». Consultò l’orologio. «Ci vorrà una quarantina di minuti a ricucire Ethel, ammesso che se ne stia tranquilla».
«Buona fortuna», disse Morris.
Ellis si allontanò con aria imbronciata.
Poi tornò l’infermiera del pronto soccorso. «Cosa gli ha preso?».
«È nervoso», disse Morris.
«Lo credo bene». L’infermiera si fermò a guardare dalla finestra.
Morris la fissò con una sorta di distaccato stupore. Aveva sufficiente esperienza d’ospedale per riconoscere i segni sottili del prestigio. Aveva cominciato come interno senza nessun prestigio. Quasi tutte le infermiere sapevano di medicina più di lui e quando erano stanche non si preoccupavano di nasconderlo. («Non credo che lei voglia far questo, dottore».) Dopo qualche anno, era diventato assistente in chirurgia e le infermiere avevano preso a trattarlo con maggiore deferenza. Poi era passato al grado di assistente anziano ed era ormai talmente sicuro del fatto suo che alcune infermiere lo chiamavano per nome. Infine, quando era diventato aiuto al Reparto ricerche neuropsichiatriche, i rapporti erano ridivenuti formali, ma stavolta soprattutto come omaggio alla sua autorità.
Ora però stava succedendo qualcosa di diverso: un’infermiera gli girava attorno e cercava di stargli vicina, perché in quel momento lui era un uomo importante. All’ospedale sapevano tutti quel che stava per accadere.
Guardando dalla finestra, l’infermiera disse: «Eccolo che arriva».
Morris si alzò e guardò fuori. Un furgone azzurro della polizia salì verso il pronto soccorso e voltò entrando a marcia indietro nel parcheggio riservato alle ambulanze. «Bene», disse. «Avverta il settimo piano e dica che stiamo arrivando».
«Sì, dottore».
L’infermiera uscì. Due inservienti d’ambulanza aprirono la porta dell’ospedale. Non sapevano niente di Benson. Uno di loro disse a Morris: «Sta aspettando lui?».
«Sì».
«Un caso urgente?».
«No, un’ammissione diretta».
Gli inservienti annuirono e attesero che il poliziotto al volante del furgone andasse ad aprire la porta posteriore. Ne uscirono due agenti battendo le palpebre per proteggersi dal sole. Poi venne fuori Benson.
Morris fu ancora una volta colpito dal suo aspetto. Era un uomo mite e tozzo sulla trentina e aveva l’aria stupita di starsene in piedi accanto al furgone con i polsi ammanettati. Quando vide Morris, disse: «Salve» e subito distolse gli occhi imbarazzato.
Uno degli agenti disse: «È lei il responsabile?».
«Sì. Sono il dottor Morris».
Il poliziotto indicò con un gesto l’interno dell’ospedale. «Ci faccia strada, dottore».
Morris disse: «Non gli togliete le manette?».
Gli occhi di Benson lampeggiarono per un attimo verso di lui prima di riabbassarsi.
«Non abbiamo ordini in proposito». Gli sbirri si scambiarono un’occhiata. «E va bene».
Mentre gli toglievano le manette, l’autista del furgone consegnò a Morris un modulo su una cartelletta. Morris lo guardò appena: «Trasferimento di un sospetto a un istituto di cura (medica)». Firmò.
«Anche qui», disse l’autista.
Mentre firmava per la seconda volta, Morris guardava Benson. Se ne stava fermo a fregarsi i polsi e a guardare dritto davanti a sé. L’impersonalità della transazione, con il modulo e le firme, diede a Morris l’impressione di aver appena ricevuto un pacco da un fattorino.
«Okay», disse l’autista. «Grazie, dottore».
Morris guidò gli altri due poliziotti e Benson all’interno dell’ospedale. Gli inservienti chiusero la porta. Arrivò un’infermiera con una poltrona a rotelle e Benson si sedette. Gli sbirri erano perplessi.
«È la politica dell’ospedale», disse Morris.
Si avviarono tutti verso gli ascensori.
L’ascensore si fermò nell’atrio. Una mezza dozzina di parenti aspettavano di salire ai piani superiori, ma esitarono quando videro Morris, Benson sulla carrozzella e i due poliziotti. «Prendete il prossimo, per favore», disse sommessamente Morris. Le porte si chiusero e l’ascensore si rimise in moto.
«Dov’è il dottor Ellis?», domandò Benson. «Pensavo di trovarlo qui».
«È in chirurgia. Arriverà tra poco».
Benson annuì. «E la dottoressa Ross?».
«La vedrà alla presentazione».
«Ah già». Benson sorrise. «La presentazione». Intanto l’ascensore era arrivato al settimo piano e uscirono tutti.
Era il piano della Chirurgia speciale, riservato ai casi difficili e complicati: in sostanza, un reparto di ricerche. Vi venivano ricoverati i malati più gravi di cuore, di reni e di disfunzioni del metabolismo. I nuovi arrivati scesero nella guardiola delle infermiere, un locale circondato da pareti di vetro e collocato strategicamente al centro del reparto, che aveva forma di x.
L’infermiera di turno alzò gli occhi. La vista dei poliziotti la sorprese, ma non disse niente. «Questo è il signor Benson», disse Morris. «È pronta la settecentodieci?».
«Prontissima», disse l’infermiera, sorridendo a Benson con cordialità. Benson rispose con un pallido sorriso e spostò gli occhi dall’infermiera all’apparecchio del computer in un angolo della guardiola.
«Avete un terminale time-sharing quassù?», domandò.
«Sì», disse Morris.
«Dov’è il computer centrale?».
«Nel seminterrato».
«Di questo edificio?».
«Sì. Sviluppa una quantità di energia e le linee elettriche arrivano in questo edificio».
Benson annuì. Le sue domande non erano state una sorpresa per Morris. Benson cercava di non pensare all’intervento chirurgico ormai prossimo ed era, dopo tutto, un esperto in computer.
L’infermiera consegnò a Morris la cartella clinica, con la solita copertina di plastica blu e il timbro della clinica universitaria. Ma c’erano anche un’etichetta rossa che indicava neurochirurgia, una gialla che indicava cure intensive e una bianca, che Morris non aveva quasi mai visto sulla cartella di un paziente, che indicava misure di sicurezza.
«È la mia cartella?», domandò Benson mentre Morris, sempre seguito dai poliziotti, lo spingeva nel corridoio verso la stanza 710.
«Ah-ah».
«Mi sono sempre chiesto cosa c’era dentro».
«Un mucchio di appunti illeggibili», disse Morris. In realtà il fascicolo era voluminoso e leggibilissimo essendo soprattutto composto di schede elaborate da un computer su una serie di test.
Arrivarono così alla 710. Prima che entrassero nella camera, furono preceduti da uno dei poliziotti che si chiuse la porta alle spalle. L’altro rimase fuori.
«Semplice precauzione», disse.
Benson alzò gli occhi verso Morris. «Si preoccupano molto per me», disse.
Il primo poliziotto tornò in corridoio. «Tutto a posto», disse.
Morris spinse dentro Benson sulla poltrona a rotelle. La grande camera sul lato sud dell’ospedale nel pomeriggio era inondata di sole. Benson si guardò attorno con un cenno d’approvazione. Morris disse: «È una delle migliori camere dell’ospedale».
«Posso alzarmi adesso?».
«Certo».
Benson lasciò la poltrona a rotelle e andò a sedersi sul letto. Rimbalzò sul materasso, premette i pulsanti che facevano alzare e abbassare il letto, e si chinò a guardare il meccanismo a motore che lo spostava. Morris andò alla finestra a tirare le tende, riducendo così l’impatto diretto della luce. «Semplice», disse Benson.
«Cosa?».
«Il meccanismo del letto. Straordinariamente semplice. Ma in realtà ci vorrebbe una unità di retroazione, in modo da compensare automaticamente i movimenti del corpo della persona che sta a letto…». La sua voce si affievolì. Aprì la porta del gabinetto, guardò dentro, controllò gli impianti igienici, tornò nella camera. A Morris non sembrava che si stesse comportando come un paziente normale. I pazienti in genere sono intimiditi dall’ospedale, mentre Benson sembrava uno che ha preso camera in un albergo.
«Già», disse Benson e rise. Si sedette sul letto a guardare prima Morris, poi i poliziotti. «Devono proprio stare qui?».
«No, credo che possano anche aspettare fuori», disse Morris.
Gli sbirri annuirono e uscirono chiudendosi la porta alle spalle.
«Volevo dire», disse Benson, «se devono proprio stare qui in ospedale».
«Sì».
«Per tutto il tempo?».
«Sì. A meno che non si riesca a far cadere le accuse contro di lei».
Benson annuì con espressione accigliata. «Era proprio… voglio dire, ho davvero…. si è fatto molto male?».
«Gli ha fatto un occhio nero e gli ha fratturato una costola».,
«Ma adesso sta bene?».
«Sì, sta bene».
«Non ricordo più niente», disse Benson. «Le celle della mia memoria sono tutte vuote».
«Lo so».
«Ma sono contento che stia bene».
Morris annuì. «Non si è portato niente? Neanche un pigiama?».
«No, ma posso procurarmelo», disse Benson.
«Bene. Intanto le farò avere qualcosa dall’ospedale. E per il resto si sente in forma adesso?».
«Sì, certo». Sogghignò. «Anche se forse mi farebbe comodo una bella iniezioncina».
«Di questa», disse Morris, «dovrà proprio fare a meno». Uscì dalla stanza.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore e regista statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Michael Crichton.
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