Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Timbuctù di Paul Auster. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einiaudi con un prezzo di copertina di 10,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Timbuctù: trama del libro
Abituati a viaggiare insieme sulle strade americane, Willy, poeta giramondo, e Mr Bones, cane dalla spiccata intelligenza, vengono separati dai freddi giochi del destino. Mr Bones dovrà imparare a cavarsela da solo e a difendersi anche da chi sembrerà volerlo aiutare. Così continuerà a fuggire, finché in lui si farà strada la convinzione di poter raggiungere Willy a Timbuctù, terra favolosa dove uomini e cani parlano la stessa lingua e conversano da pari a pari. Che cosa sia davvero Timbuctù, Mr Bones non lo sa, a parte qualche frase sibillina buttata lì da Willy nei suoi discorsi di poeta maledetto e infaticabile clochard. Eppure è proprio in quel luogo che un brutto giorno il poeta se n’è andato lasciando solo il fedele quadrupede.
Approfondimenti sul libro
In ebook Timbuctù (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Cosa poteva fare un povero cane? Mr Bones era stato con Willy da quando era un cucciolo neonato, e ormai gli era praticamente impossibile immaginare un mondo senza il suo padrone. Ogni pensiero, ogni ricordo, ogni particella di terra e d’aria erano sature della presenza di Willy. L’abitudine è forte, e senza dubbio c’è del vero nel proverbio del lupo che perde il pelo, ma non erano solo l’affetto e la devozione a suscitare in Mr Bones tanta ansia riguardo all’avvenire. Era puro terrore ontologico. Sottraendo Willy al mondo, era probabile che il mondo stesso cessasse di esistere.
Questi erano i dubbi che si paravano di fronte a Mr Bones quel mattino d’agosto, mentre arrancava sulle vie di Baltimora insieme al padrone malato. Un cane solo è un cane morto, e quando Willy avesse esalato l’ultimo respiro, non gli restava altra prospettiva che la propria fine imminente. Erano ormai molti giorni che Willy lo catechizzava su questo possibile sviluppo, e Mr Bones conosceva a memoria tutto il vademecum: come evitare gli accalappiacani e i poliziotti, i furgoni blindati e le auto civetta, gli ipocriti del cosiddetto umano consorzio. Anche se pronunciata nel tono piú suadente, la parola canile era sinonimo di guai. Avrebbero cominciato con le reti e i proiettili soporiferi per proseguire in un incubo di gabbie e luci al neon e chiudere la partita con un’iniezione letale o una dose di gas asfissiante. Se Mr Bones fosse appartenuto a una razza riconoscibile avrebbe avuto qualche chance nelle quotidiane sfide di bellezza a uso e consumo dei potenziali proprietari, ma il miglior amico di Willy era un pot-pourri di linee genetiche – un po’ collie, un po’ Labrador, un po’ spaniel e un po’ puzzle canino – e peggio ancora, dalle filacce del suo pelo spuntavano ponfi, gli puzzava la bocca, e una tristezza iniettata di sangue indugiava perennemente nei suoi occhi. Nessuno avrebbe avuto voglia di salvarlo. Come amava ripetere il bardo senza casa, il finale era inciso nella pietra. Se Mr Bones non trovava al piú presto un altro padrone, era un quattrozampe all’avanguardia verso l’oblio.
«E se non ti fregano con le pistole soporifere, – proseguí Willy in quel mattino di nebbia a Baltimora, reggendosi a un lampione per non cadere a terra, – possono fregarti in un sacco di altri modi. Ti avverto, Sancho. Ti conviene cambiare registro, se no hai i giorni contati. Basta che tu dia un’occhiata a questo cupo borgo. A ogni isolato trovi un ristorante cinese, e se non pensi che vedendoti passare a molti verrà l’acquolina in bocca, be’, allora di cucina orientale non sai un bel niente. Per loro il sapore di cane è una leccornia, amico. I cuochi raccattano i randagi e li macellano nel vicolo dietro la cucina… dieci, venti, trenta capi alla settimana. Sul menú possono anche spacciarli per anitre o maiali, ma i veri esperti sanno la verità, i buongustai non si lasciano ingannare neanche un secondo. Se non hai l’ambizione di finire in un piatto di moo moo gai pan, pensaci due volte prima di scodinzolare davanti a una bettola di gialli. Hai afferrato il mio stile, Mr Bones? Conosci il tuo nemico, e poi stagli alla larga».
Mr Bones capí. Lui capiva ogni cosa che gli diceva Willy. A quanto poteva ricordare era cosí da sempre, e a questo punto la sua conoscenza dell’ingluso non era inferiore a quella di qualsiasi immigrato che calcasse la terra americana da sette anni. Naturalmente restava una seconda lingua, per di piú ben diversa da quella imparata da sua madre: ma anche se la pronuncia lasciava a desiderare, ormai conosceva alla perfezione ogni segreto della grammatica e della sintassi. Niente di strano o di insolito, in questo, per un animale dell’intelligenza di Mr Bones. La maggioranza dei cani accumula una buona competenza professionale della parlata bipede, ma Mr Bones in piú aveva la fortuna che il suo padrone non lo trattava da inferiore. Erano stati allegri compagnoni fin dall’inizio, e se si aggiunge che Mr Bones non era solamente il migliore amico di Willy, ma anche l’unico; e se si considera che Willy era un uomo innamorato del suono della propria voce, un logomane autentico, integrale, che praticamente non taceva mai dalla mattina quando apriva gli occhi fino alla notte quando, ubriaco, si addormentava, era logico che Mr Bones legasse tanto con l’idioma indigeno. A conti fatti, anzi, lo strano era che non avesse imparato a parlarlo meglio. Ma non per poca forza di volontà: piuttosto, gli era contro la biologia, e insomma: con la conformazione del muso, dei denti e della lingua che il destino gli aveva assegnato, il massimo che poteva fare era lanciare una serie di uggiolii e latrati e ululati, una parlata frammentaria e confusa. Lui era dolorosamente consapevole di quanto lontani fossero quei suoni dall’eloquenza, ma Willy gli permetteva sempre di dire la sua, e alla fine era questo che contava. Mr Bones era libero di dare il suo piccolo contributo, e in ogni circostanza Willy gli prestava molta attenzione; e a guardare il suo volto mentre osservava l’amico teso nello sforzo di somigliare a un membro della tribú umana, avresti giurato che pendesse dalle sue labbra.
Ma a Baltimora, quella triste domenica, Mr Bones tenne la bocca chiusa. Erano gli ultimi giorni che passavano insieme, forse le ultime ore, e non era il momento di perdersi in lunghi e arzigogolati discorsi, i tempi goliardici erano finiti. Certe situazioni richiedevano tatto e disciplina, e nelle attuali angustie era stato molto meglio frenare la lingua e comportarsi da bravo cane fedele. Lasciò che Willy gli mettesse il guinzaglio senza protestare. Non si mise a guaire perché era digiuno da trentasei ore; non fiutò l’aria alla ricerca di tracce femminili; non si fermò a fare pipí su tutti i lampioni e gli idranti. Si limitò a corricchiare al fianco di Willy, a seguire il padrone che batteva i viali deserti alla ricerca del numero 316 di Calvert Street.
A Mr Bones Baltimora non stava antipatica in sé. Non aveva un odore piú cattivo di qualunque altra città dove si erano accampati in quegli anni; ma pur comprendendo la finalità del viaggio, lo addolorava il pensiero che un uomo potesse decidere di passare gli ultimi momenti della sua vita in un posto che non aveva mai visto. Un cane non avrebbe mai fatto un errore cosí grossolano. Prima si sarebbe rimesso in pace con il mondo, e poi sarebbe andato a render l’anima su un terreno familiare. A Willy però prima di morire restavano ancora due cose da fare, e con la sua classica cocciutaggine si era ficcato in testa che esisteva soltanto una persona capace di aiutarlo. Il suo nome era Bea Swanson, e dato che l’ultima residenza conosciuta di questa Bea Swanson era Baltimora, erano venuti a cercarla fin lí. Per questo niente da dire: ma se il piano di Willy non avesse funzionato, Mr Bones sarebbe rimasto abbandonato in quella città di ristoranti di granchi e scalinate di marmo, e poi cosa avrebbe fatto? Una telefonata poteva risolvere tutto in mezzo minuto, ma Willy nutriva una filosofica avversione a servirsi del telefono per le questioni importanti. Preferiva camminare per giorni che prendere in mano uno di quegli aggeggi e parlare con qualcuno che non vedeva. Cosí eccoli, dopo trecento chilometri di strada, a vagare per Baltimora senza neanche una carta, alla ricerca di un indirizzo che poteva anche essere inesistente.
Delle due cose che Willy ancora sperava di fare prima di morire, nessuna aveva la precedenza sull’altra. Entrambe erano di assoluta importanza, e dato che ormai restava troppo poco tempo per sperare di sistemarle una a una, tentava quello che chiamava un Doppio Gambetto, cioè un espediente estremo per prendere due piccioni con una fava. Il primo obiettivo è già stato esposto nei capoversi precedenti: trovare un nuovo alloggio per l’amico peloso. Il secondo era tutelare i suoi interessi postumi curando di lasciare i manoscritti in buone mani. In quel momento, tutte le sue opere erano stipate in un armadietto della consegna automatica alla stazione dei pullman in Fayette Street, due isolati e mezzo a nord rispetto alla loro attuale posizione. La chiave l’aveva in tasca, e se non trovava una persona di valore adeguato a riceverla, ogni parola da lui scritta sarebbe andata perduta, eliminata fra i bagagli che nessuno va a reclamare.
Nei ventitre anni trascorsi da quando aveva assunto il cognome di Christmas, Willy aveva riempito le pagine di settantaquattro quaderni con i suoi scritti. Fra essi si contavano poesie, racconti, saggi, pagine di diario, epigrammi, meditazioni autobiografiche, e i primi milleottocento versi di un poema epico in-progress, Giorni Vagabondi. La maggioranza di queste opere era stata composta al tavolo di cucina dell’appartamento di sua madre a Brooklyn, ma dopo la sua morte, quattro anni prima, era stato costretto a scrivere all’aperto, spesso lottando contro gli elementi in parchi pubblici e vicoli polverosi pur di mettere sulla carta i suoi pensieri. In fondo in fondo, Willy non accarezzava illusioni su se stesso. Sapeva di essere un’anima persa e inadatta a questo mondo: ma sapeva anche che nei quaderni si trovava un bel po’ di lavoro di buon livello, e almeno per questo poteva permettersi di andare a testa alta. Forse se fosse stato piú attento alla salute, o se il suo corpo fosse stato un po’ piú robusto, o non gli fossero piaciuti tanto i liquori e la birra e il baccano dei bar, avrebbe potuto produrre di piú. Possibilissimo, ma ormai era tardi per rivangare errori e rimpianti. Willy aveva scritto l’ultima frase della sua vita, e gli restavano solo pochi tic tac d’orologio. Le parole nell’armadietto erano tutto quello che aveva da mostrare di sé. Sparendo quelle parole, sarebbe stato come se non fosse mai vissuto.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Paul Auster.
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