Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Le tre del mattino di Gianrico Carofiglio. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einiaudi con un prezzo di copertina di 16,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Le tre del mattino: trama del libro
Antonio è un liceale solitario e risentito, suo padre un matematico dal passato brillante; i rapporti fra i due non sono mai stati facili. Un pomeriggio di giugno dei primi anni Ottanta atterrano a Marsiglia, dove una serie di circostanze inattese li costringerà a trascorrere insieme due giorni e due notti senza sonno. È cosí che il ragazzo e l’uomo si conoscono davvero, per la prima volta; si specchiano l’uno nell’altro e si misurano con la figura della madre ed ex moglie, donna bellissima ed elusiva. La loro sarà una corsa turbinosa, a tratti allucinata a tratti allegra, fra quartieri malfamati, spettacolari paesaggi di mare, luoghi nascosti e popolati da creature notturne. Un viaggio avventuroso e struggente sull’orizzonte della vita. Con una lingua netta, di precisione geometrica eppure capace di cogliere le sfumature piú delicate, Gianrico Carofiglio costruisce un indimenticabile racconto sulle illusioni e sul rimpianto, sul passare del tempo, dell’amore, del talento.
Approfondimenti sul libro
In ebook Le tre del mattino (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro.
Non so dire quando cominciò. Forse avevo sette anni, forse qualcosa di piú, non ricordo con precisione. Da bambino non ti è chiaro cosa è normale e cosa non lo è.
In realtà non ti è chiaro nemmeno quando sei adulto, a pensarci bene. Ma questa è una digressione e, nei limiti del possibile, vorrei evitare le digressioni.
Insomma, piú o meno una volta al mese, mi capitava una cosa strana e anche piuttosto angosciante. Senza preavviso e senza che fosse accaduto nulla, avvertivo un’impressione di assenza, di distacco da ciò che mi circondava e al tempo stesso un’amplificazione dei sensi.
Di solito noi selezioniamo gli stimoli che vengono dal mondo esterno. Siamo circondati da suoni, odori, e da ogni tipo di entità visibili. Ma non siamo oggettivi, non udiamo tutto ciò che rimbalza sui nostri timpani, non sentiamo tutto ciò che arriva al nostro naso, non vediamo tutto ciò che colpisce le nostre retine. Il cervello decide quali percezioni portare alla consapevolezza e quali informazioni registrare.
Il resto rimane fuori, escluso eppure molto presente. In agguato, verrebbe da dire.
Smettete di leggere e concentratevi sui rumori che sono intorno a voi e di cui non eravate consapevoli fino a qualche secondo fa. Anche se siete in una stanza silenziosa, vi accorgerete di un macchinario lontano; di un fruscio, di un ronzio; di voci piú o meno vicine, le cui parole non riuscite a distinguere, ma che ci sono. E diventerete consapevoli dei movimenti, delle vibrazioni che produce il vostro corpo: il respiro, il battito cardiaco, i gorgoglii dell’apparato digerente.
Può non essere una sensazione piacevole e di certo non lo era per me. In effetti il mio cervello smetteva di operare una selezione e lasciava passare tutto. A questo fenomeno corrispondeva una temporanea abolizione della capacità di entrare in contatto con gli altri: con tanti, troppi stimoli, era impossibile. Per alcuni minuti non riuscivo a parlare e me ne stavo lí, seduto da qualche parte, come ubriaco.
Per anni non ne parlai con nessuno. Mi sembrava fosse una caratteristica normale del mio modo di essere, inoltre non avrei saputo bene cosa dire. Non avevo le parole per raccontare quell’esperienza.
Poi un giorno mi successe a casa di un compagno di scuola. Ernesto, figlio di un ufficiale dei carabinieri che abitava in uno sterminato alloggio di servizio. Eravamo nella sala da pranzo e giocavamo a subbuteo dopo aver mangiato – chissà perché ricordo questo dettaglio – delle caramelle mou.
Sua madre era seduta in poltrona e mi pare stesse lavorando a maglia.
Ero in attacco e stavo per tirare in porta da una posizione molto vantaggiosa, ma non lo feci. All’improvviso, e con una violenza che non avevo mai sperimentato, fui travolto da una gigantesca cacofonia che arrivò come un torrente in piena gonfio di detriti. L’urto fu cosí potente che per qualche istante persi i sensi.
Mi risvegliai in poltrona, la stessa su cui prima c’era la mamma di Ernesto. Lei era china su di me, mi accarezzava il viso e mi parlava in tono preoccupato.
– Antonio, Antonio, come ti senti?
– Bene, – risposi, poco convinto.
– Che ti è successo?
– Che mi è successo?
– Non parlavi e sembrava che non sentissi. Poi sei svenuto.
I rumori erano passati ma io ero ancora confuso e non riuscii a dire nulla. Allora la mamma di Ernesto chiamò mia madre e le riferí l’accaduto. Rientrato a casa fui sottoposto a un nuovo interrogatorio.
– Che ti è successo, Antonio?
– Non lo so. Cioè, niente di strano.
– La mamma di Ernesto dice che ti parlavano e tu non rispondevi, come se fossi stordito o addormentato.
– A volte mi capita…
– Cosa, ti capita?
Mi sforzai di descrivere quello che mi accadeva di tanto in tanto, e che quel pomeriggio si era verificato in forma piú violenta.
La sensazione che qualcuno mi stesse suonando un tamburo nel petto. Il respiro, cosí presente da convincermi che se mi fossi distratto, se avessi smesso di pensare a respirare, sarei morto per asfissia.
I suoni piú ordinari che si trasformavano in un frastuono intricato.
E poi c’era un’altra cosa che mi capitava con una certa frequenza: l’impressione di avere già vissuto il momento che stavo vivendo. Mi avrebbero presto spiegato che si chiamava déjà-vu e che era un fenomeno relativamente normale. Allora però non lo sapevo e talvolta mi sembrava di abitare in un mondo di fantasmi.
Mia madre chiamò mio padre e una mezz’ora dopo lui ci raggiunse. Questo mi fece pensare che il problema fosse abbastanza serio e che forse avevo sottovalutato i miei sintomi. I miei genitori si erano separati che io avevo nove anni e da allora papà era entrato a casa di mamma – che prima era anche casa sua – pochissime volte, e mai di sera. Quando andavo da lui passava a prendermi, io scendevo le scale, salivo in macchina e partivamo.
Mi ripeté le stesse domande e io gli diedi, credo, le stesse risposte. Dopodiché chiamarono il dottor Placidi, nostro medico di famiglia. Era un anziano, simpatico signore con dei grandi baffi bianchi, i capillari del naso rotti e un odore dolciastro nell’alito che solo parecchi anni dopo sarei stato capace di identificare. Chissà se i miei genitori erano consapevoli del fatto che il nostro fidato dottore non era propriamente astemio.
Venne da noi, mi visitò e soprattutto mi fece tante domande. Avevo convulsioni? Mi spiegò cos’erano e io dissi che no, non ne avevo mai avute. Avevo allucinazioni colorate o momenti di buio totale? No, nemmeno.
C’erano solo questi sovraccarichi sensoriali durante i quali però rimanevo presente ed ero capace di orientarmi, sebbene con difficoltà.
Quel pomeriggio da Ernesto tutto era stato piú intenso, ma in fondo non mi pareva troppo diverso da quando a scuola mi distraevo, non ascoltavo piú cosa dicevano i professori e mi mettevo a fantasticare.
– Ti capita di distrarti, a scuola? – chiese il medico.
– Qualche volta.
– Come se non sentissi quello che dicono i professori?
Guardai un attimo mia madre e mio padre. Non ero sicuro di dover condividere con loro quel tipo d’informazione, poi decisi che bisognava collaborare con il medico e annuii. Lui sorrise in segno di approvazione, come se avessi dato la risposta esatta. L’odore del suo alito era un po’ piú forte del solito.
Mi fece fare alcuni bizzarri esercizi. Dovevo stare in equilibrio su una gamba; chiudere gli occhi e toccarmi la punta del naso, prima con l’indice destro, poi con l’indice sinistro; stringere con forza un suo pollice nel pugno.
– Nulla di cui preoccuparsi, – disse infine rivolgendosi a mio padre. – È un normale disturbo neurovegetativo, capita ai ragazzini, soprattutto i piú sensibili. Con l’adolescenza i fenomeni scompariranno.
Poi si rivolse a me e aggiunse: – Il tuo cervello ha una super attività elettrica, è un segno di intelligenza.
Diciamocelo: la diagnosi era piuttosto vaga. Disturbo neurovegetativo vuol dire tutto, e dunque niente. Come se uno si rivolgesse al medico per un mal di testa e, dopo la visita, si sentisse dire che ha il mal di testa.
Il dottor Placidi aveva però un aspetto rassicurante, un modo di parlare rassicurante – alito a parte – e infatti i miei genitori si rassicurarono. La vita riprese regolare e l’evento di quel pomeriggio fu dimenticato in fretta.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Gianrico Carofiglio.
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