Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Tre settimane, un mondo di Nicholas Sparks, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 9,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
Tre settimane, un mondo trama del libro
Cinque bambini che reclamano attenzione. Un telefono che non smette di squillare. E in mezzo a tutto questo, la stesura di un romanzo. Nicholas Sparks è davvero esausto quando – con stupore – riceve un invito da parte di suo fratello Micah: un giro del mondo in tre settimane. Ma sarà il momento giusto per prendersi questa vacanza? Nicholas si lascia convincere, e da Machu Picchu alla Cambogia, i fratelli si lanciano in un tour turistico che presto si trasforma in un viaggio evocativo, dove i personaggi della loro infanzia riaffiorano nella memoria, dai genitori agli amici, ai protagonisti di mille avventure che hanno segnato, in modo a volte drammatico altre tenero e commovente, la loro esistenza.
- Vedi la scheda completa di Tre settimane, un mondo su Amazon.
- Leggi le recensioni dei lettori su Amazon.
Questo libro è nato grazie a un dépliant che ricevetti per posta nella primavera del 2002.
Era una giornata tipica in casa Sparks. Avevo trascorso gran parte della mattinata e il primo pomeriggio sul mio romanzo Come un uragano, ma non ero soddisfatto. Non avevo scritto abbastanza né avevo idea di come proseguire l’indomani, perciò non mi sentivo di buonumore quando mi decisi a dare forfait e a spegnere il computer.
Non è facile vivere con uno scrittore, come mi dice sempre mia moglie Cathy, che quel giorno me lo fece di nuovo notare. Sinceramente, non è la cosa più bella da sentire, ma nonostante l’impulso a ribattere, ormai ho capito che discutere con lei su questo argomento non porta a niente. Così, invece di negare la realtà, ho imparato a prenderle le mani, a guardarla negli occhi e rivolgerle quelle tre magiche parole che ogni donna vuole ascoltare: «Hai ragione, tesoro».
C’è chi pensa che, siccome ho un certo successo come autore, scrivere debba venirmi naturale. Molti immaginano che io «butti giù le idee che mi vengono in mente» per qualche ora, e poi trascorra il resto del tempo a rilassarmi in piscina con mia moglie, parlando della nostra prossima vacanza in qualche località esotica.
In realtà, la nostra vita non è molto diversa da quella di una qualsiasi famiglia borghese americana. Non abbiamo personale di servizio né viaggiamo all’estero in continuazione e, anche se c’è una piscina in giardino con tanto di sedie a sdraio, non ricordo che siano mai state occupate, semplicemente perché durante il giorno né mia moglie né io possiamo starcene seduti a fare niente. Io sono preso dal lavoro. Lei, dalla famiglia. O, più precisamente, dai bambini.
Il fatto è che abbiamo cinque figli. Un numero che non sarebbe stato eccessivo all’epoca dei pionieri, ma che di questi tempi suscita in genere sorpresa e perplessità. L’anno scorso, quando eravamo in vacanza, mia moglie e io facemmo conoscenza con un’altra giovane coppia. Un argomento tira l’altro e così finimmo per parlare dei ragazzi. La donna ci disse i nomi dei suoi due figli; poi toccò a Cathy recitare quelli dei nostri.
Per un attimo calò il silenzio, mentre la nostra interlocutrice cercava di decidere se avesse capito bene.
«Avete cinque figli?» chiese infine sbalordita.
«Sì.»
Lei posò una mano sulla spalla di mia moglie con aria di compatimento.
«Sei pazza?»
I maschietti hanno rispettivamente dodici, dieci e quattro anni; le gemelle ne compiranno presto tre, e una delle mie poche certezze nella vita è che i figli hanno un loro modo di farti mantenere le cose nella giusta prospettiva. I due maggiori sanno che di professione scrivo romanzi, anche se talvolta dubito che abbiano compreso cosa significhi. Per esempio, una volta a scuola venne chiesto a Ryan che lavoro facesse suo padre, e lui, gonfiando il petto pieno di orgoglio, rispose: «Il mio papà gioca al computer tutto il giorno!» D’altro canto Miles, il primogenito, spesso afferma con la massima serietà che «scrivere è facile. Il difficile è battere sui tasti».
Io lavoro a casa, come fa la maggior parte degli scrittori, ma le similitudini si fermano qui. Il mio studio, infatti, non è un santuario isolato; al contrario, la porta della stanza dà direttamente sul soggiorno. Ho letto che alcuni autori riescono a concentrarsi solo in un ambiente silenzioso, perciò mi ritengo fortunato a non aver bisogno di tranquillità, altrimenti non sarei mai riuscito a scrivere neppure una riga. Vi assicuro che da noi c’è un ribollire incessante di attività, dall’istante in cui Cathy e io ci alziamo dal letto fino a quando non ci crolliamo esausti la sera. Passare un giorno a casa nostra basta a sfinire chiunque. Per prima cosa, si sa che un bambino ha molta energia. Un sacco, una quantità esagerata. Nel nostro caso, moltiplicata per cinque, sarebbe sufficiente ad alimentare la rete elettrica di Cleveland. E a volte, come per magia, i bambini l’assorbono l’uno dall’altro, consumandola e rinnovandola a vicenda. E poi la utilizzano i nostri tre cani e infine la casa stessa sembra vibrare.
Una giornata tipo comprende: almeno un figlio malato, giocattoli sparsi da un angolo all’altro del soggiorno che ricompaiono misteriosamente non appena sono stati messi via, cani che abbaiano, bambini che ridono, il telefono che squilla senza sosta, un viavai di fattorini che consegnano pacchi e buste, faccende da sbrigare, elettrodomestici che non funzionano, compiti di scuola di cui i nostri figli chissà come si dimenticano di informarci fino all’ultimo minuto, allenamenti di basket, di ginnastica, di calcio, di Tae Kwon Do, artigiani che entrano ed escono, porte che sbattono, bambini che corrono in corridoio, lanciano oggetti, si fanno i dispetti, reclamano da mangiare, frignano perché sono caduti, ti saltano in grembo chiedendo le coccole, oppure piangono perché hanno bisogno di te proprio adesso! Quando i miei suoceri si fermano da noi per una settimana, non vedono l’ora di riprendere l’aereo, e quando finalmente li portiamo al terminal hanno gli occhi cerchiati e l’espressione attonita e scioccata dei reduci da una battaglia. Al momento dei saluti, il padre di mia moglie scrolla il capo e sussurra: «Buona fortuna. Ve ne servirà».
Cathy accetta di buon grado tutta questa frenesia domestica. Ha un’infinita pazienza verso questo caos. Anzi, nella maggior parte dei casi sembra addirittura che l’apprezzi. Se mi permettete, vorrei aggiungere che mia moglie è una santa.
Oppure è veramente pazza.
A casa nostra lo smistamento della posta spetta a me. È un compito che va svolto, e nel corso degli anni questa piccola responsabilità ha finito per ricadere sulle mie spalle.
Come ho detto, quando ricevetti quella brochure era un giorno come tutti gli altri. Lexie, che allora aveva sei mesi, era malata e si ostinava a voler restare in braccio alla mamma. Miles aveva dipinto la coda del cane con la vernice fosforescente e la mostrava in giro soddisfatto. Ryan avrebbe dovuto studiare per un’interrogazione, ma si era dimenticato il libro a scuola e così aveva pensato di «rimediare» sperimentando quanta carta igienica era possibile scaricare dal water tirando lo sciacquone. Landon stava di nuovo disegnando sui muri e non ricordo cosa stesse combinando Savannah, ma doveva essere qualcosa di tremendo, perché a sei mesi cominciava già a imitare i fratelli maggiori. Se a tutto questo aggiungete la televisione con il volume al massimo, la cena da preparare, i latrati dei cani e lo squillo del telefono, capirete che il caos aveva raggiunto livelli intollerabili. Avevo il sospetto che persino quella santa donna di mia moglie fosse sul punto di perdere la sua proverbiale pazienza. Dopo aver spento il computer, feci un profondo respiro e mi alzai dalla scrivania. Entrai in soggiorno, diedi un’occhiata alla confusione che vi regnava e – con un sesto senso che solo gli uomini sembrano possedere – capii che cosa dovevo fare. Mi schiarii la voce, ottenendo per un attimo l’attenzione generale, e dichiarai con calma: «Vado a vedere se è arrivata la posta».
Un attimo dopo ero fuori.
Siccome la nostra casa è molto arretrata rispetto alla strada, in genere occorrono dieci minuti per andare fino alla cassetta delle lettere e tornare indietro. Non appena mi richiusi la porta alle spalle il bailamme cessò e io mi incamminai lentamente, assaporando il silenzio.
Una volta rincasato, trovai mia moglie che cercava di pulirsi la camicia impiastricciata di frammenti biascicati di biscotto tenendo simultaneamente in braccio le gemelle, mentre Landon, per terra, la chiamava tirandole l’orlo dei jeans. Nello stesso tempo, lei stava aiutando i due maggiori a fare i compiti. Provai un impeto di commozione davanti alla sua eclettica efficienza e le mostrai il plico delle lettere.
«Ho ritirato la posta», annunciai.
Lei alzò lo sguardo. «Non so come me la caverei senza di te», rispose. «Sei praticamente indispensabile.»
Io annuii. «Faccio solo il mio dovere», replicai. «Non c’è bisogno che mi ringrazi.»
Cominciai a separare la posta; archiviai le fatture e le bollette, diedi una scorsa agli articoli di un paio di riviste e stavo per gettare tutto il resto nel cestino, quando mi cadde l’occhio su un dépliant che avevo messo nella pila della pubblicità da buttare. Proveniva dall’associazione degli ex alunni della University of Notre Dame e reclamizzava un «Viaggio nelle terre degli adoratori del cielo». Era una specie di giro del mondo in tre settimane, a cavallo tra il gennaio e il febbraio del 2003.
Interessante, pensai, mettendomi a leggere. Il tour – niente meno che con un jet privato – si chiamava «Cielo e Terra» e avrebbe compreso la visita alle rovine maya in Guatemala e a quelle incas in Perù, ai giganti di pietra dell’Isola di Pasqua e alle Isole Cook in Polinesia. Inoltre, sarebbe passato per Ayers Rock in Australia; l’Angkor Wat, i Campi della morte e il Museo Tuol Sleng a Phnom Penh in Cambogia; il Taj Mahal e l’Amber Fort di Jaipur in India; le chiese rupestri di Lalibela in Etiopia; l’Ipogeo e i templi megalitici di Malta; e infine – condizioni atmosferiche permettendo – era offerta la possibilità di vedere l’aurora boreale a Tromsø in Norvegia, una località situata quattrocentosettanta chilometri a nord del Circolo Polare Artico.
Da bambino mi avevano sempre affascinato le civiltà antiche e le terre lontane e ora, scorrendo le descrizioni delle tappe del viaggio, mi sorprendevo a pensare che avrei sempre voluto andarci. Era l’occasione di vedere i luoghi che avevano acceso la mia immaginazione fin dall’infanzia. Quando terminai di leggere la brochure, sospirai e mi dissi: chissà, forse un giorno…
Adesso non ne avevo proprio il tempo, decisi. Tre settimane via dai ragazzi? Da mia moglie? Dal lavoro?
Impossibile. Era assurdo, perciò tanto valeva scordarselo. E infilai il dépliant sotto la pila delle bollette.
Il problema è che non riuscii a scordarmi di quel viaggio.
Per la biografia completa dello scrittore americano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata ad Nicholas Sparks. Per la bibliografia rimandiamo invece alla nostra pagina riassuntiva su tutti i libri dell’autore.