Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Troppi paradisi di Walter Siti. Il romanzo è pubblicato in Italia da Rizzoli con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Troppi paradisi: trama del libro
Un professore sessantenne, Walter Siti, il protagonista, una casa in via Tina Pica a Roma, un tranquillo lavoro all’università dell’Aquila e la relazione con Sergio, placida, un ragazzo che lavora come autore televisivo alla Rai. Una vita mediocre, trascorsa tra programmi in tv e i gossip che Sergio racconta, da lì dentro, dove pare che tutti facciano carriera tranne lui, che il lavoro lo perde ed entra in crisi ammalandosi di anoressia. I due si separano, ma poi nella vita di Walter arriva Marcello: culturista e borgataro, un messaggero di divina bellezza che incarna lo spirito dei tempi come nessun altro. Fragile ed egoista, alla costante ricerca di piaceri effimeri e sostanze stupefacenti, trascina Walter in una spirale autodistruttiva.
Approfondimenti sul libro
Troppi paradisi è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 4,99.
Da qualche mese sono sereno ma niente è più fragile della serenità, devo scrivere questo libro prima che finisca lo stato di grazia. L’editore non vuole rischiare nemmeno un anticipo e ha ragione. La luce preserale indora la statua di S. Giuseppe Labre giù in piazzetta, mentre lontanissima si intravede lattiginosa la cupola di S. Pietro – su un terrazzo qui sopra sventolano due lenzuola leopardate. Devo ricordarmi che ancora, in questo autunno del novantotto, a sessant’anni abbondantemente compiuti, riesco a sopportare la forza del cielo. L’anno scorso alla cupola di S. Pietro ci abitavo vicino, vedevo le ambasciate con gli stemmi e le macchine blu.
L’apparente regressione economica è nata da una scelta d’amore: questo non contrasta con la mediocrità appena asserita, anzi. La serenità è un prodotto aritmetico, l’interno moltiplicato per l’esterno: più uno dei fattori, per esempio l’interno, ha un numero elevato, più l’altro fattore (in questo caso il contributo esterno) può essere basso. Etimologicamente, “sereno” è collegato con “asciutto”. La morsa di dolore che è stata la mia compagna per tanti anni se n’è andata, quel peso di lacrime non saprei più nemmeno ricostruirlo; come se al precipizio senza fine si fosse opposto un sonno, volevo dire un fondo, un pavimento al di sotto del quale non posso cadere – e questo pavimento è composto di ciò che ho raggiunto nella vita, i romanzi la cattedra universitaria gli affetti, partendo da una condizione di smaccata inferiorità. Il fatto che io adesso, da questo appartamento di via Tina Pica 23, possa staccare i telefoni e isolarmi da tutto, non prevedendo come interruzione che qualche onesto piacere, testimonia quanto ho lavorato e quanto mi sono attraversato. Che sia una caratterista brava come Tina Pica a intitolare la mia strada mi pare giusto e bello, Eduardo che è poche strade più in là sarebbe stato troppo.
Quartieri-dormitorio, li chiamano: unico faro la domenica il centro commerciale di Serpentara. Via Tina Pica è una stradetta senza uscita, conclusa da una rete metallica che la divide da una scarpata e dai campi; a tratti ci arriva ancora un po’ di vento selvatico, qualche profumo d’aperto. Non c’è pubblica illuminazione: un consigliere di Alleanza nazionale martella interrogazioni al Comune, senza esito. Qui, se non ti droghi, la sera puoi anche morire; i cocainomani si ritrovano ai “secchioni”, cioè intorno ai bidoni della spazzatura. La cocaina è la droga perfetta in un’epoca di omologazione: è ormai economicamente accessibile ai borgatari che fanno impicci, ma costa ancora quel tanto di più dell’eroina perché la si possa pensare come la droga dei ricchi – è l’equivalente degli swatch e della linea jeans di Armani. Solo che per i ricchi è la droga della performance, della superprestazione, mentre per i coatti è il condimento di una paranoia immobile e passiva; al contrario degli acidi e delle droghe di sintesi in generale, non ti costringe a viaggi, puoi tirarla guardando la tivù. Sarebbe anche la mia preferita, se mi drogassi.
Intendo per mediocrità soprattutto l’impermeabilità alla disperazione e al rischio, lo scegliere comunque e sempre la strada più facile, come l’acqua che scorre allegra all’ingiù. E come l’acqua mi dimentico immediatamente di ciò che ero un attimo prima; niente, in questi sessant’anni, ha avuto conseguenze che m’abbiano spinto alla conversione. La mia prima mediocrità è dunque caratteriale, ed epica, volevo dire etica. Mi interesso del bene quel tanto che basta per non sentirmi in colpa; con Sergio abbiamo deciso di adottare a distanza un piccolo colombiano, Hernán, gli mandiamo seicento euro l’anno e l’aiutiamo negli studi. Sergio voleva andarlo a trovare a Bogotà, ma l’ho convinto che è meglio non turbare il suo rapporto con la famiglia.
La seconda mediocrità è di tipo sanitario, tengo sotto controllo la mia salute con metodici check-up; il mio colesterolo è a posto, la glicemia pure, quella volta che si presentò un calcolo feci subito la litotrissia, l’adenoma alla prostata non supera il volume di guardia. Ma l’obesità la lascio progredire, senza contrastarla con provvedimenti drastici; sono perennemente a dieta, ma in modo così blando e autocompiacente che mi attesto ogni due anni su un chilo in più – come se fosse un dato di natura, come un tronco d’albero che col passare del tempo si arricchisce di anelli. A Sergio non importa, sostiene che gli piaccio così. Sarà la grassezza ad accorciarmi la vita molto più che l’innocuo calcolo renale, ma quello dava fastidio mentre in questa ci annego dolcemente. Nemmeno la morte suscita in me un soprassalto di disciplina.
La terza mediocrità è finanziaria. Come dipendente statale a stipendio fisso (fisso, ma abbastanza solido da consentirmi il superfluo), non sono mai stato obbligato a scelte energiche o a stress emotivi legati al denaro; a ogni fine del mese, circa sette milioni si accumulano sul mio conto corrente – questo basta a garantirmi una base di sicurezza per ipotetiche emergenze, protesi dentarie o malattie dei genitori. Mi faccio ospitare dagli amici nelle loro ville in Sardegna o a Pugnochiuso, e siccome mi concedo qualche avventura stravagante mi illudo di godere una qualità della vita anche migliore della loro, senza riflettere che apparteniamo in realtà a due classi nettamente distinte: loro hanno i soldi veri mentre io mi accontento del luccichio infondato del lusso. (Appartengo, come dice un mio amico editor, alla «fascia alta dei morti di fame».)
Le successive, numerose mediocrità saranno denunciate a suo luogo, ivi compresa la finta ribalderia che è piccola vanità, come quella di aver cominciato queste pagine con un aperto plagio senza dichiararlo.
Mi piace la televisione, anche come elettrodomestico; il fruscio di quando si accende e lo sfrigolio con cui si spegne dopo che è stata accesa parecchio. Come una cenere elettronica che si posa sullo schermo, o come un glande che appassisce dopo aver fatto il suo dovere. La guardo in media per cinque-sei ore al giorno; filtrati dalle pareti di questa casa scatolare, sento gli altri apparecchi funzionare oltre al mio: siamo una comunità, siamo in regola.
Col nuovo lavoro, Sergio si alza la mattina a ore impossibili e va a dormire prestissimo la sera; finisce che ci vediamo soltanto il sabato e la domenica. Negli altri giorni la televisione è il mio centro di calore, la distributrice di emozioni. Le situation comedy, soprattutto, sono la famiglia che avrei voluto avere; genitori spiritosi, molti figli, battute che riescono sempre e villette isolate col giardino. Qualche volta un cane rompicoglioni che però non abbaia di notte – le tensioni si scioglieranno per forza cinque minuti prima della fine, che è prossima perché il tutto dura mezz’ora. I genitori a letto commentano, i figli crescono bene, l’esterno non è più minaccioso, spenta la luce faranno l’amore perché nonostante l’età lo fanno ancora volentieri. I Jefferson, i Robinson, i Keaton, la famiglia Bradford. Oppure qualche madre divorziata, che però funge da madre e da padre. O un gruppo affiatato di amici, come quelli di Friends. Recentemente anche qualche frocio o lesbica, molto accettati, grintosi, con lavori interessanti e avventure politically correct. La cosa bella è che ti ci puoi attaccare per un po’ se l’orario è comodo, loro stanno sempre lì, ma puoi cambiare la tua affezione, abituarti a un’altra serie senza che nessuno si offenda o ti accusi di infedeltà. Sei libero, comandi i sentimenti invece che esserne comandato.
Chi appare in televisione con regolarità, se ha una faccia appena appena gradevole diventa per forza un amico; gli annunciatori del telegiornale, per esempio, quando mi dicono buongiorno non posso fare a meno di salutarli di rimando, e se sto di buon umore gli faccio anche ehilà con la mano. (Ce n’è uno di Canale 5, quello che dice «esatto, Cesara», che mi stava simpaticissimo in video, poi l’ho visto in palestra e sembrava un po’ checca.) Una vecchia signora di Adelfia, maestra e ricamatrice, ha lasciato per testamento metà delle sue sostanze a Emilio Fede: la capisco.
La televisione è rassicurante perché le sciagure che vedi non capitano a te; i terremoti, i disastri aerei, le guerre, quand’ero infelice mi procuravano euforia, adesso fantastico di essere un soccorritore. Ma sono le disgrazie personali quelle che davvero mi distraggono. Un carabiniere di Andria ha avuto un incidente con la moto a diciannove anni, quando la sua ragazza era incinta di sei mesi – invece di sposarsi si sono lasciati, lui si vergognava di offrirle un «mezzo uomo» sulla carrozzella. Ora di anni ne hanno ventiquattro, lei spera in una carriera di cantante e vuol venire a Roma; il carabiniere dice: «mi rendo conto che non è facile, con uno nelle mie condizioni, le ho dato un aiuto materiale per quel che ho potuto e l’ho anche incoraggiata, se senti che è la tua strada vai, spero solo si stia imbarcando in qualcosa di concreto».
Si chiama Marco Mariolini, il «cacciatore di anoressiche»; è in carcere perché ne ha ucciso una. Si eccitava solo se le ragazze erano scheletriche, ma non lo erano mai abbastanza per lui. Le anoressiche vere, lo ha capito ben presto, sono anche anaffettive perché troppo intrigate nei loro casini. Alla fine era apparso l’angelo miracoloso, il tesoro nascosto: una ragazza normalmente magra che era stata capace di ridursi a una larva per lui – ma un giorno s’era ribellata, l’aveva trovata che si abboffava di babà nella toilette di un ristorante e l’aveva presa a schiaffi. Lei era tornata a casa dei suoi e non voleva più vederlo; ossessionato era riuscito a ottenere un appuntamento, ma solo in pubblico, e l’aveva accoltellata alla fermata dell’autobus. Mariolini, mentre lo intervistano, ha la faccia mezza con la barba e mezza no, dice: «moralmente non mi sento colpevole, non avevo scelta, o la sua vita o la mia, ma qui in carcere mi trovo bene, qui devo rinunciare al sesso perché sono rinchiuso e non perché sono strano; se dovessi giudicarmi io, mi assolverei con formula piena ma mi condannerei all’ergastolo».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore modenese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Walter Siti.
Non sono riuscita a continuare la lettura di Troppi paradisi. Ho trovato l’autore antipatico, respingente. Ma forse vuole essere così, oppure è semplicemente il suo carattere al passo con tutte le situazioni e gli accadimenti ordinari che lo coinvolgono. Mi