Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di E tu splendi di Giuseppe Catozzella, romanzo edito in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 16,00 euro (ma online lo si acquista con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99.
E tu splendi: trama del libro
Arigliana, “cinquanta case di pietra e duecento abitanti”, è il paesino sulle montagne della Lucania dove Pietro e Nina trascorrono le vacanze con i nonni. Un torrente che non è più un torrente, un’antica torre normanna e un palazzo abbandonato sono i luoghi che accendono la fantasia dei bambini, mentre la vita di ogni giorno scorre apparentemente immutabile tra la piazza, la casa e la bottega dei nonni; intorno, una piccola comunità il cui destino è stato spezzato da zi’ Rocco, proprietario terriero senza scrupoli che ha condannato il paese alla povertà e all’arretratezza. Quell’estate, che per Pietro e Nina è fin dall’inizio diversa dalle altre – sono rimasti senza la mamma -, rischia di spaccare Arigliana, sconvolta dalla scoperta che dentro la torre normanna si nasconde una famiglia di stranieri. Chi sono? Cosa vogliono? Perché non se ne tornano da dove sono venuti? è l’irruzione dell’altro, che scoperchia i meccanismi del rifiuto. Dopo aver catalizzato la rabbia e la paura del paese, però, sono proprio i nuovi arrivati a innescare un cambiamento, che torna a far vibrare la speranza di un Sud in cui si mescolano sogni e tensioni. Un’estate memorabile, che per Pietro si trasforma in un rito di passaggio, doloroso eppure pieno di tenerezza e di allegria: è la sua stessa voce a raccontare come si superano la morte, il tradimento, l’ingiustizia e si diventa grandi conquistando il proprio fragile e ostinato splendore.
- Per altri dettagli rimandiamo alla scheda completa di E tu splendi su Amazon.
- Qui potete leggere le recensioni dei lettori su Amazon.
Quel giorno – avevo solo quattro anni – quella donnina incappucciata di nero mi aveva indicato. La notte avevo avuto gli incubi. La mattina dopo, al risveglio, avevo giurato che non volevo essere come i miei genitori, una persona non gradita che andava a togliere il lavoro e a occupare le case, i parchi, le strade e tutte le cose eccezionali: io sarei sempre stato una persona gradita, anzi graditissima, se si può dire. Ci voleva molto coraggio, ma io pregavo ogni notte il Signore che me lo facesse trovare, e poi che mia mamma e mio papà imparassero un accento più simile a quello del Nord, così non ci riconoscevano.
Poi, dopo che nostra madre – che si chiama Rosalba, ma tutti la chiamano Rosi – è andata avanti nella strada della vita per aspettarci in un posto ancora più bello dove tutti sono felici, e non abita più da noi, un po’ è cambiato tutto. Ha cominciato a parlarmi con la sua voce dentro la testa, e la sera prima di dormire a me e a Nina cantava la buonanotte, anche se era papà che muoveva la bocca. Dicevamo “ciao, papà”, Nina diceva “buonanotte, papà”, e io pensavo buonanotte, mamma, ma non lo dicevo a nessuno, solo a Nina. Una volta mi aveva confidato che anche lei prima lo faceva. Poi aveva smesso, e quando diceva “ciao, papà” intendeva proprio quello.
Adesso ho quasi dodici anni, ed è da quando sono nato che viviamo in via Gramsci, in un posto della periferia di Milano che chiamiamo Milanox (perché è un incrocio tra Mila¬no e un luogo malfamato che si chiama Bronx) dove tutti sono stranieri e meridionali. Nel nostro palazzo – che ha dieci piani e tantissimi appartamenti – sono quasi tutti pugliesi e siciliani, misti a marocchini, indiani e qualche peruviano, però quelli che ci sono più di tutti sono i calabresi. La mia famiglia, invece, è lucana, di un paesino vicino a Matera, e infatti siamo una rarità.
Io non l’avevo capito che eravamo orfani, un giorno la maestra l’ha detto davanti a tutta la classe, e ci sono rimasto malissimo. Non per la cosa in sé, ma per la parola, che non me l’aspettavo proprio che era per me. Mi sono pure messo a frignare un po’, e tutti pensavano che era perché ero un orfano, ma come sempre non avevano capito niente. Allora ho smesso, e facevo di no con la testa, ma continuavano a non capire, e allora tanto valeva. Perché io credevo che era una parola per quelli che avevano perso tutti e due i genitori e si erano liberati una volta per tutte, e invece va bene anche per chi come noi ha una mamma che ha deciso di aspettarci più avanti, per sistemare e farci trovare tutto pronto e pulito. E poi io ho pure Nina, che adesso è a carico mio. Per questo ho piagnucolato, quella era una parola per bambini sfortunati e non per noi, perché io e Nina avevamo tutto. Così, io in quinta elementare e Nina in terza, ci siamo ritrovati orfani, che vuol dire che tua mamma invece di abitare fuori inizia ad abitarti dentro.
Che poi nostra madre è un tipo veramente simpatico, e ama tirare brutti scherzi. Per esempio, a me l’anno scorso mi ha fatto bocciare, in prima media, e infatti quest’anno ripeto. Quando abitava ancora da noi, ogni tanto ci faceva trovare, tra le pagine di un libro o di un quaderno, dei biglietti di cartoncino rosso a cui disegnava dei bordi dorati, come quelli che si usano per gli auguri di Natale. Erano delle sue sorprese, che ne so, si divertiva così. Me la immaginavo, la sera, in camicia da notte, con tutti quei ricci in testa e i pennarellini dorati, mentre papà – che si chiama Biagio, detto Gino – in sala dormiva davanti alla tv con la sua copia di Cristo si è fermato a Eboli (la sua Bibbia) chiusa sulla pancia.
Un giorno, la professoressa di italiano ci stava facendo fare un tema. Michela era nel banco di fianco al mio, curva sul foglio. Era quasi l’unica della classe a non essere straniera o meridionale, però era bellissima, anche se era un po’ palliduccia, poverina. Dal quadernone mi era scivolato fuori uno dei biglietti di mamma, lo lasciavo lì in mezzo per ricordo. Sono rimasto imbambolato a fissare il soffitto come uno scemo. Poi mi sono ripreso, ho chiamato Michela e le ho passato il biglietto. Non li avevo mai fatti leggere a nessuno quei biglietti, ma mi era venuta voglia, perché il suo maglioncino verde era una collina piena di margherite gialle. Lei lo ha letto ed è scoppiata a ridere, vatti a fidare delle donne. La professoressa ha cominciato a gridare. “Visconti!”, che è Michela. “Corsano!”, che sono io. È venuta e ha strappato il biglietto dalle mani di Michela. Poi è tornata alla cattedra. “Ora lo leggerò ad alta voce, così ridiamo tutti,” ha detto, e si è messa gli occhialini. “…Dunque, qui dice… Lo sai che tu sei nel cassetto e i sogni sono fuori?” Si è fermata a riflettere. “E che significa?” Significa che sei una ficcanaso, ecco che significa, l’ho pensato ma non l’ho detto, perché sono un signore. Poi ha girato il biglietto e ha letto dietro: “…che è la stessa frase di uno dei miei scrittori preferiti: ‘Se davvero volete sognare, svegliatevi!’. Un bacio”.
Si è tolta gli occhialini e ha guardato Michela. “Non capisco cosa c’entrino queste frasi stupide e banali con il tema che vi ho dato. Mi stupisco di te, Visconti.” Poi ha guardato me. “Di te invece no.” Sentivo che stava per venirmi una di quelle crisi di violenza di quando immaginavo di far saltare il mondo per aria, nessuno può insultare mia madre. Bisogna stare all’erta, non si può mai sapere. Mi sono alzato, volevo uscire e tirare un pugno contro il muro. La professoressa si è messa in mezzo, e le sono finito addosso. Ha sbattuto contro il banco di Michela ed è caduta in terra. Nessuno ha fiatato. Lei mi ha fulminato, poi ha raccolto gli occhialini, li ha controllati (una lente aveva un brutto taglio in mezzo), se li è infilati, e con calma si è alzata. Si è aggiustata la camicetta e la gonna. “Adesso tu vieni con me dal preside,” ha detto. Poi con calma ha continuato “ti faccio sospendere, Corsano. E alla fine dell’anno ti faccio bocciare. Cascasse il mondo se non lo faccio”. È stata di parola, anche se ero orfano, e allora mi sono chiesto a che serviva.
Orfano e pure ciuccio, abbiamo riso a casa. Infatti, da quando mamma ha deciso di precederci, è successo questo: siccome è lei quella che fa sempre le battute e noi ridiamo (e siccome dice sempre “la vita è un film con un tempo solo che finisce pure male”, che significa che l’unica cosa che si può fare è riderci sopra), allora quella sera abbiamo riso tantissimo. Il giorno dopo sarebbero arrivate le mazzate, ma la sera della bocciatura quante risate! Papà ha pure stappato una bottiglia di vino e si è un po’ ubriacato, si capiva perché rideva alle mie battute (da quando aveva perso il lavoro gli capitava spesso).
In ogni caso, per colpa di mamma l’estate che è appena passata, che doveva essere la prima in cui andavo in vacanza tre settimane con i miei amici in un campo estivo, tutto è andato a rotoli. Però non è stato un male. Al punto che adesso questa estate ve la racconto per filo e per segno, perché è successa una cosa che mai avrei immaginato e che mi ha cambiato la vita, e quando le cose cambiano per uno, magari poi possono cambiare per tutti.
Insomma, una sera di inizio giugno papà ci ha legato al polso un braccialetto ridicolo con il nome della destinazione – la casa dei genitori di mamma – e ci ha spedito in quel paesino sperduto tra le colline della Basilicata, quello da cui lui e nostra madre tanti anni prima erano scappati.
Ci ha piazzati dentro un pullman diretto alla stazione di Matera e, senza neanche voltarsi indietro, se n’è tornato a casa.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Giuseppe Catozzella.
Lascia un commento