Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Di tutte le ricchezze di Stefano Benni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 16,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Di tutte le ricchezze: trama del libro
Martin è un maturo professore e poeta che si è ritirato a vivere ai margini di un bosco: è una nuova stagione della vita, vissuta con consapevolezza e arricchita dai ricordi e dalle conversazioni che Martin intrattiene con il cane Ombra e con molti altri animali bizzarri e filosofi. In questa solitudine coltiva la sua passione di studioso per la poesia giocosa e per il Catena, un misterioso poeta locale morto in manicomio. Questa tranquillità, che nasconde però strani segreti, è turbata dall’arrivo di una coppia che viene a vivere in un casale vicino: un mercante d’arte in fuga dalla città e Michelle, la sua bellissima e biondissima compagna. L’apparizione di Michelle, simile a una donna conosciuta da Martin nel passato, gonfia di vento, pensieri e speranze i giorni del buon vecchio professore. Il ritmo del cuore e il ritmo della vita prendono una velocità imprevista. Una velocità che una sera, a una festa di paese, innesca il vortice di un fantastico giro di valzer. Leggende, sogni, canzoni, versi di un poeta che la tradizione vuole folle e suicida, telefonate attese, contattisti rock, cinghiali assassini, visite di colleghi inopportuni, comiche sorprese, goffi corteggiamenti e inattese tentazioni – tutto riempie di nuova linfa una stagione che si credeva conclusa, e che si riapre sul futuro come un’alba. Martin e tutti quelli che lo circondano sembrano chiusi in un bozzolo di misteri: si tratta di attendere la farfalla che ne uscirà.
Approfondimenti sul libro
In ebook Di tutte le ricchezze (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Di me vivo tra le vive cose
Lascia che io sia il tuo miglior sguardo
Il tuo cuore e le parole che scegli
Oggi il vento autunnale spoglia gli alberi
Dei ricordi ardenti dell’estate
A terra li confonde, ma noi sappiamo
Che ciò che è narrato a noi rimane.
Vedi come tutto cambia e si prepara
La spoglia della biscia, il lampo della volpe
L’istrice che gonfia, attraverso la strada,
Il suo nero esercito di dardi
Il ruvido cinghiale, il trotto dei cavalli
E un cerbiatto che inatteso ti sorprende.
La solitudine sta ai vecchi
Come un vecchio vestito
E nelle tasche tintinnano
I sogni che più non spendono
Maudit l’amour/che da queste stanze è escluso
Scrisse un poeta sul muro della cella
Ove tutta la vita fu rinchiuso
E il suo tormento divenne il mio argomento.
Sono io l’autore dei versi che hai appena scoperto, amabile lettrice, caro lettore.
Perciò è giusto che tu sappia qualcosa in più di me. Il mio nome è Martin. Come Martin Eden, romanzo con cui ho ammorbato per anni i miei studenti universitari. O come l’epico gaucho Martín Fierro. O come Dean Martin, cantante degli anni cinquanta, dalla voce bassa e suadente, come la mia che modulavo per incantare le allieve. O come il martin pescatore che precipita dall’aria sull’acqua per rubarle un’argentea creatura.
Sono vicino ai settant’anni, età venerabile quando non è sordida, e vivo solo in una casa sull’Appennino, solitaria ma non troppo, vicino a un piccolo paese dotato di vari bedenbrecfast, e con maggior chilometraggio a una cittadina di ventunmila abitanti dotata di tre sterminati supermarket outlet spendodromi, in grado di contenere l’intera popolazione. La mia abitazione è un casolare ricoperto da un arazzo di edere e glicini, in cima a un poggiolo. Gli fanno da sentinella, a un lato, un noce dal dritto tronco maestoso, e all’altro un fico storto e anarchico. Davanti ho un patio panoramico dove spesso rimugino, lavoro, mi assopisco su un divanetto di vimini. Dietro, una veranda più piccola che dà sul bosco di querce e aceri, sede di una filarmonica di pennuti.
Mi è compagno e scudiero Ombra, un grosso cane nero, un incrocio tra un Terranova e un treno merci, quando carica festoso. Rispetta infatti tutti i comandamenti del dodecalogo canino meno l’undicesimo, che dice:
Sia la tua gioia proporzionale al tuo peso.
Immaginatemi all’aperto, in autunno, lo sguardo verso le colline lontane, davanti a un computer talvolta sfavillante al sole. Sul prato volano coppie di farfalle bianche, recitando la futura neve. Sono professore in pensione, poeta per un solo libro e saggista prolifico e pedante. Il mio testo più letto è sul poeta maledetto Domenico Rispoli, detto il Catena, morto in un manicomio a metà degli anni che ho ora. La mia casa non ha specchi grandi, ma mi conosco. Sono alto, magro, zoppico per una sciatalgia, ho zigomi indiani, naso aguzzo e capelli bianchi con un ciuffo che mi cade spesso sulla fronte, dividendo in due il paesaggio, e che una donna, da me probabilmente amata anni fa, chiamava “il tuo salice piangente”.
Nei dintorni e nel borgo che sta tra casa mia e la cittadina dei supermarket sono considerato un bizzarro e silenzioso alieno. Il paese si chiama Borgocornio. Per alcuni il nome viene dalle corniole di cui abbondano i boschi. Per altri dalle sue bellissime, irascibili capre. Ma ho ascoltato anche una versione più maligna. È un paese di incalliti cacciatori, e durante le lunghe battute venatorie le mogli cercano di passare il tempo collaudando i letti con volontari. Il borgo è quasi tutto rifatto, case di pietra con enormi antenne a parabola, cellulari che risuonano tra le pecore e piscine piene di tafani annegati sul retro. Ultimo vanto, come dice apposito cartello segnaletico, il paese è gemellato con Horby (Svezia).
Tre sono le attrazioni architettoniche del borgo:
una chiesa con affreschi del Quattrocento, in perenne restauro, nella cui cripta è nascosta la misteriosa Campana Puttana;
la discoteca Bully, meta di strafattoni da diverse regioni;
il bar Marlon, la cui insegna luminosa, una motocicletta in neon blu elettrico, è visibile da chilometri.
In questi ameni paraggi io vivo solo, come vi ho detto, ho un figlio di nome Umberto, musicista all’estero di cui attendo con ansia le telefonate. La suoneria del mio antiquato cellulare, “scaricatami” da una nipote, è Dream a little dream of me con la voce di Ella Fitzgerald e la tromba di Louis Armstrong. Lavoro a un computer con il monitor regolarmente sporco e nebbioso, la mia macchina da scrivere è in riparazione da un anno, è stato come chiedere di rifare il guardaroba a una morta, ho trovato un paleo-artigiano che restaura questi fossili meccanici, ma non ho avuto più notizie. Ricordo con nostalgia il suo frastuono creativo.
Ora invece la mia tastiera è soffice e taciturna. Ho concesso il mio cuore ai ritmi della comunicazione moderna, ma resto sospettoso. Gli schermi portano ansietà, da quando Grimilde chiese allo Specchio delle Brame la Top ten delle bellezze del reame.
Non frequento nessuna di quelle enormi tavolate cibernetiche in cui milioni di persone comunicano con altri milioni. Tra i miei titoli nobiliari scarseggia la @, l’Ordine della Sacra Chiocciola. Possiedo però un Umbertofono regalo del mio erede, ovvero uno di quei minuscoli contenitori di mondi con cui posso ascoltare musica dalle cuffiette ed essere travolto senza avvisaglia di clacson quando attraverso la strada. Poche persone frequentano la mia casa, e le conoscerete tutte.
Come vivo la solitudine? A volte con benevola pazienza, a volte con dolore. Passeggio lento, cucino male, scrivo con cura, dormo poco, penso molto.
Rifletto sempre sul fatto che ho passato molti anni a fare il farfallone (o ganzo o porco, scegliete voi l’epiteto). E mentre rincorrevo meravigliosi esemplari femminili, non ho avuto né tempo né voglia di cercare una compagna fissa, neanche la madre di mio figlio. Processatemi pure, io sconterò la pena, anzi già la sto scontando.
La mia casa non risuona di altri passi, e vengo punito da Eros per il mio disordine passato. Oggi ho creato con le donne una lontananza illusoria. In realtà, a volte nel sonno sogno baci, e si risveglia in me la brace dei fuochi passati. Ma ormai mi sento un vecchio improponibile e impresentabile, che cammina dondolante, sempre vestito allo stesso modo, con varie pennellate di cibo sui calzoni, e scarpe da foto di emigranti.
Mi rado per noia, e ho lasciato come sola vanità la chioma candida e fluente, e tre o quattro camicie provenzali comprate a Parigi in rue du Seine e i cui colletti raccontano la venustà. C’est tout.
Maudit l’amour/che da queste stanze è escluso
Scrisse un poeta sul muro della cella
Ove tutta la vita fu rinchiuso
E il suo tormento divenne il mio argomento.
Lascia che ti racconti la vecchia leggenda
Della bionda ragazza, la più bella e amata
Che a ingiuste nozze non si volle legare
Un altro letto gelido scelse
Discese nel lago lenta e piangente
Chioma disciolta fu, e i suoi occhi
Per sempre rivolse verso il cielo
Lì crebbero i fiordalisi, Acqua Celeste è chiamato
Viandante in un tempo che cancella i viandanti
Ascoltami alla vampa di un immaginario camino
Dicono che il suo fantasma erri ancora
Chiedendo muta perché non poté scegliere
Come sprecare la sua giovane sorte
Amo gli spettri, che partire non vogliono
Che più di noi detestano la morte.
Sento sul sentiero un nuovo suono
Un’auto nera nell’oro degli alberi
Non vengono per me. Ora qualcuno
Vedrà la mia solitudine
E la segnerà a dito
Lascia che ti racconti
Di come entrarono nella mia vita
Una donna misteriosa e un uomo ferito.
Maudit l’amour è l’inizio di una poesia del Catena, una delle più dolorose e controverse, su cui ancora oggi mi interrogo. Più facile spiegarvi quale leggenda ispira i versi successivi. È un racconto locale che ha origine per alcuni nel Medioevo, per altri alla fine dell’Ottocento. Ne ho sentite diverse versioni, la più bella da un vecchio falegname di cassapanche e bare, morto tra i suoi odorosi legnami l’anno scorso.
Viveva un tempo in un casolare dall’altra parte della valle, una ragazza bionda e con gli occhi azzurri, cosa rara in una zona dove le donne sono scure e di sguardo sospettoso, raramente addolcito dai sentimenti. Portava la sua bellezza con nessuna vanità, e sognava come tutti i giovani di lasciare quelle solitarie montagne. Il padre, un contadino, la teneva come un animaletto prezioso, raramente le chiedeva di fare lavori duri, si accontentava della sua cucina. La madre era morta da tempo. Avvenne che un mercante di terreni, un uomo torvo e gozzuto, un beone che la Fortuna Ingiusta aveva riempito di soldi e boria, vedesse la fanciulla roteare bellissima ed esausta a un ballo di paese, e se ne innamorasse all’istante. Subito, senza neanche parlarle, la chiese in sposa al padre. Il contadino accolse ciò come un grande colpo di fortuna. La figlia sarebbe andata sposa al più ricco del paese. E lo spiegò a lei davanti al camino, la chioma bionda indorata dal riflesso del fuoco e improvvise lacrime. No, non voglio, disse la ragazza, è un uomo detestabile. Farai ciò che dico, disse il padre iroso, trasformandosi di colpo in un implacabile mezzano. Passarono i giorni, lei chiusa in camera, il padre che teneva a bada il promesso orribile marito. Fu fissata la data delle nozze, la bianca farfalla di un vestito da sposa fu posata sul letto di lei. Sembrò che la ragazza fosse rassegnata. Ma la notte prima del mattino nuziale scivolò fuori dal casolare, la sua gonna frusciò tra i cespugli di lavanda e di rosmarino, poi nella quiete del bosco e alla luce della luna lei arrivò all’acqua. Era un piccolo lago formato da un torrente, un miracolo azzurro ai piedi di una parete di roccia argillosa a strapiombo. Qui facevano il bagno i ragazzi del paese, e lei ricordava le giornate in cui si era unita a loro senza mai osare, perché non sapeva nuotare, e il lago era profondo. Quell’inverno era per metà gelato, e la sua acqua era divenuta argento fuso e zaffiro.
Qui, passo dopo passo su nevischio e fango, lei discese e si annegò.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore bolognese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stefano Benni.
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