Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Tutti i nomi di José Saramago. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Tutti i nomi: trama del libro
Due sono i luoghi attorno a cui ruota la vicenda del romanzo: l’Anagrafe e il Cimitero Generale di una città senza nome. Nel primo sono ospitati tutti, vivi e morti, i cui nomi sono lì raccolti assieme, rispettivamente negli schedari dei viventi e dei defunti. Trasferire i nomi da un archivio all’altro in caso di trapasso è compito degli impiegati dell’Anagrafe, nei cui uffici tutto viene fatto ancora a mano e il lavoro è organizzato secondo una rigida burocrazia e gerarchia. Al Cimitero, invece, stanno i soli defunti con tutti i loro nomi incisi sulle lapidi. Protagonista della storia è il Signor José, l’unica persona ad avere un nome proprio nel romanzo, uno scapolo cinquantenne che lavora come scritturale ausiliario della Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Oscuro impiegato ligio al dovere, ama collezionare articoli o schede anagrafiche di personaggi famosi, ma un giorno si imbatte nella scheda di una donna sconosciuta che cattura la sua attenzione e gli muta radicalmente la vita. Il Signor José inizia infatti a indagare sul conto di lei, mosso dall’oscura ossessione di saperne tutto…
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Subito dopo la porta compare un alto paravento a vetri con due battenti da cui si accede all’enorme sala rettangolare dove lavorano gli impiegati, separati dal pubblico da un lungo bancone che unisce le due pareti laterali, a eccezione, a una delle estremità, del ripiano mobile che permette il passaggio all’interno. La disposizione dei posti nella sala rispetta naturalmente le priorità gerarchiche, ma essendo, come ci si aspetterebbe, armoniosa da questo punto di vista, lo è anche dal punto di vista geometrico, il che serve a dimostrare che non esiste alcuna insanabile contraddizione fra estetica e autorità. La prima fila di tavoli, parallela al bancone, è occupata dagli otto scritturali ausiliari a cui compete ricevere il pubblico. Dietro questa, altrettanto centrata rispetto all’asse mediano che, partendo dalla porta, si perde giù in fondo, negli oscuri confini dell’edificio, c’è una fila di quattro tavoli. Questi appartengono ai funzionari. Dopo di loro si vedono i vice, che sono due. Infine, isolato, da solo, come doveva essere, il conservatore, a cui quotidianamente si rivolgono chiamandolo capo.
La distribuzione dei compiti fra tutti gli impiegati risponde a una regola semplice, e cioè che gli elementi di ciascuna categoria hanno il dovere di eseguire tutto il lavoro che sia loro possibile, in modo che solo in minima parte debba passare alla categoria successiva. Ciò significa che gli scritturali ausiliari sono obbligati a lavorare senza sosta da mane a sera, mentre i funzionari lo fanno di tanto in tanto, i vice molto più di rado e il conservatore quasi mai. La continua agitazione degli otto in prima fila, i quali non fanno che sedersi e alzarsi, sempre di corsa fra il tavolo e il bancone, fra il bancone e gli schedari, fra gli schedari e l’archivio, ripetendo senza sosta queste e altre sequenze e combinazioni davanti all’indifferenza dei superiori, sia diretti che remoti, è un fattore indispensabile per comprendere come siano stati possibili e deprecabilmente facili da commettere gli abusi, le irregolarità e le falsificazioni che costituiscono la materia centrale di questo racconto.
Per non perdere il bandolo della matassa in un argomento così trascendentale, conviene sapere prima di tutto dove sono ubicati e come funzionano gli archivi e gli schedari. Sono divisi, strutturalmente e fondamentalmente, o, se vogliamo usare parole semplici, in obbedienza alle leggi di natura, in due grandi aree, quella con gli archivi e gli schedari dei morti e quella con gli schedari e gli archivi dei vivi. Gli incartamenti di coloro che non sono più in vita sono sistemati alla bell’e meglio nella parte posteriore dell’edificio la cui parete di fondo, a seguito dell’aumento impari del numero dei defunti, dev’essere sistematicamente abbattuta e rialzata di nuovo alcuni metri più avanti. Come sarà facile concluderne, le difficoltà di inserimento dei vivi, ancorché preoccupanti, tenendo conto del fatto che la gente continua a nascere, sono molto meno pressanti e sono state risolte, fino a ora, in modo ragionevolmente soddisfacente, vuoi facendo ricorso alla compressione meccanica orizzontale delle singole pratiche collocate sugli scaffali, come nel caso degli archivi, vuoi impiegando schedine sottili e ultrasottili, nel caso degli schedari. Malgrado il fastidioso problema della parete di fondo di cui si è già riferito, è altamente lodevole lo spirito di previsione degli architetti storici che progettarono la Conservatoria Generale dell’Anagrafe, proponendo e difendendo, contro le opinioni conservatrici di certi spiriti taccagni rivolti al passato, l’installazione di cinque gigantesche strutture di scaffali che si ergono fino al soffitto alle spalle degli impiegati, più arretrata la sommità della scaffalatura di centro, che sfiora quasi la grande sedia del conservatore, più prossime al bancone quelle delle scaffalature laterali estreme, mentre le altre due restano, per così dire, a metà strada. Considerate ciclopiche e sovrumane da tutti gli osservatori, queste costruzioni si estendono all’interno dell’edificio più di quanto la vista riesca a cogliere, anche perché da un certo punto in poi comincia a regnare l’oscurità e le lampade si accendono solo quando è necessario consultare qualche pratica. Queste strutture di scaffali sono quelle che sopportano il peso dei vivi. I morti, o meglio, i loro incartamenti, sono tutti verso l’interno, meno ben confezionati di quanto dovrebbe consentire il rispetto, ragion per cui è proprio un bel da fare ritrovarli quando un parente, un notaio o un ufficiale giudiziario viene in Conservatoria Generale a richiedere certificati o copie di documenti di altre epoche. La disorganizzazione di codesta parte dell’archivio è motivata e aggravata dal fatto che sono proprio i defunti più antichi quelli che si trovano più prossimi all’area denominata attiva, subito appresso ai vivi, costituendo, secondo l’intelligente definizione del capo della Conservatoria Generale, un peso due volte morto, visto che è rarissimo che qualcuno se ne preoccupi, solo di tanto in tanto si presenta qualche eccentrico ricercatore di sottigliezze storiche di scarsa rilevanza. A meno che un giorno non si decida di separare i morti dai vivi, costruendo in un altro locale una nuova Conservatoria per la raccolta esclusiva dei defunti, a questa situazione non c’è rimedio, come si è visto quando a uno dei vicecapi, in un momento infelice, venne in mente la proposta di cominciare a riordinare l’archivio dei morti al contrario, verso il fondo i remoti, verso l’esterno quelli di fresca data, in modo da facilitare, burocratiche parole sue, l’accesso ai defunti contemporanei che, come si sa, sono gli autori di testamenti, i fornitori di eredità, e quindi facili oggetti di dispute e contestazioni mentre il corpo è ancora caldo. Sarcastico, il conservatore approvò l’idea, a condizione che fosse lo stesso proponente a incaricarsi di spingere verso il fondo, giorno dopo giorno, la gigantesca massa delle pratiche personali dei morti preteriti, in modo da poter far entrare nello spazio così recuperato quelli defunti di recente. Volendo far dimenticare la disastrosa e impraticabile proposta, nonché per distrarre dall’umiliazione lo spirito, il vicecapo non trovò di meglio che richiedere agli scritturali ausiliari di passargli una parte di lavoro, incrinando così, sia verso l’alto che verso il basso, la storica pace della gerarchia. Crebbe con questo episodio la trascuratezza, prosperò l’abbandono, si moltiplicò l’incertezza, al punto che un giorno si perse nelle labirintiche catacombe dell’archivio dei morti un investigatore che, alcuni mesi dopo l’assurda proposta, si presentò in Conservatoria Generale per condurre certe ricerche araldiche che gli erano state commissionate. Fu scoperto quasi per miracolo in capo a una settimana, affamato, assetato, esausto, delirante, sopravvissuto solo grazie alla disperata risorsa di ingerire enormi quantità di vecchie scartoffie che, non dovendo essere masticate perché si disfacevano in bocca, non perduravano nello stomaco né fornivano alcun nutrimento. Il capo della Conservatoria Generale, che aveva già richiesto alla sua segretaria la scheda e la pratica dell’imprudente storico per inserirlo fra i morti, decise di sorvolare sui danni, ufficialmente attribuiti ai topi, diramando in seguito un ordine di servizio in cui si decretava, pena una multa e la sospensione dello stipendio, l’obbligatorietà dell’uso del filo di Arianna per chiunque dovesse recarsi nell’archivio dei morti.
In ogni caso non sarebbe giusto dimenticare le difficoltà dei vivi. È più che sicuro e noto che la morte, vuoi per incompetenza di origine vuoi per malafede acquisita con l’esperienza, non sceglie le proprie vittime secondo la durata delle vite che hanno vissuto, procedimento questo che, peraltro, sia detto fra parentesi, a dar credito alla parola delle innumerevoli autorità filosofiche e religiose che sul tema si sono pronunciate, ha finito per produrre nell’essere umano, di riflesso, per differenti e talvolta contraddittori cammini, l’effetto paradossale di una sublimazione intellettuale del timore naturale di morire. Ma, per venire a ciò che ci interessa, quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile. Ormai si sa che, per quanto i vecchi durino, finirà sempre per giungere la loro ora. Non passa giorno senza che gli impiegati di concetto debbano togliere pratiche dalle scaffalature dei vivi per trasferirle nel deposito giù in fondo, non passa giorno in cui non debbano spingere verso l’alto degli scaffali quelle che restano, anche se a volte, per un capriccio ironico dell’enigmatico destino, solo fino al giorno seguente. In base al cosiddetto ordine naturale delle cose, l’essere arrivati in cima allo scaffale significa che la fortuna si è stancata, che non ci sarà più molto altro cammino da percorrere. La sommità della scaffalatura è, in tutti i sensi, il principio della caduta.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore portoghese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a José Saramago.
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