Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Tutto il ferro della Torre Eiffel di Michele Mari. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 22,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Tutto il ferro della Torre Eiffel: trama del libro
Nel 1936 i falangisti fucilano Garcìa Lorca, Gide torna dal suo viaggio in Unione Sovietica, Hitler e Mussolini stabiliscono l’Asse Roma-Berlino, Céline consegna all’editore Denoël un rovente libello intitolato Mea culpa, a Milano muore la madre di Carlo Emilio Gadda. E anche la Parigi geometrica di Haussmann sembra pronta ad arrendersi a un destino di catastrofe. Solo i passages, in questo romanzo fantastico di Michele Mari, rimescolano i tempi storici facendo incontrare i vivi e i morti in un sottomondo onirico carico di reminiscenze e di premonizioni. Ci sono luoghi e tempi, nella Storia, in cui tutto si sfiora: il gioco doloroso e affascinante di questo libro è fermarsi sul crocevia, e provare a dar vita alle parole mai dette, alle più insospettabili affinità. Far dialogare il nano di Auto da fé con Louis Renault, la bambola di Alma Mahler amata da Kokoschka con gli scrittori morti suicidi, Lindbergh con il dottor Caligari, la nascita della modernità con il demone che la divora…
Approfondimenti sul libro
L’ebook di Tutto il ferro della Torre Eiffel (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 7,99 euro.
Esce dal passage des Princes, e rimanendo a Montmartre visita uno dopo l’altro il passage Verdeau, il passage Jouffroy, il passage Panoramas, poi si sposta verso i passages piú proletarî del boulevard Sébastopol e di rue Saint-Denis: qui s’infila per l’ennesima volta nel Trinité, nel Basfour, nel Ponceau, nel Caire, nell’Aboukir, dove sosta a lungo per assorbire compiutamente la fourieriana sordidezza di quegli intestini. E proprio a metà del passage d’Aboukir s’immobilizza estatico, fermo come un cristallo di purissima intelligenza: posa in cui si offre allo sguardo di un venditore di crostacei.
– Vedi quella statua? – dice il venditore a suo figlio sminestrando in un catino di crevettes. – Ha appena scritto un libro sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tu riproducila un po’, l’opera, e ciao aura!
Devoto della democrazia e della dialettica, Walter Benjamin si era imposto di giudicare magnanimamente la dissacrazione subita dall’opera d’arte a partire dalla fine del secolo xix. In realtà la sua malinconia non aveva mai accettato la perdita d’aura inflitta dalla riproduzione industriale, ed era proprio questo che egli andava cercando in giro per Parigi: l’aura. Inseguita come un feticcio, l’aura gli si palesava nel quadro intravisto in un’anticamera, in una vecchia pompa idraulica, nel fermacapelli di una passante, nella baguette dipinta a mano sulla fiancata di un furgoncino: gli si palesava con uno scintillio, e scompariva. L’aura! L’aura dell’aura! Il brivido del sentore dell’alone dell’aura!
Questo pettirosso smaltato a mano su un bottone è un pettirosso irripetibile, pur essendo del 1908 è piú antico di una stampa di Épinal del 1775, pettirosso aurato, segnato… Cosí Benjamin deve acquistare il bottone, e mentre lo accarezza, nella sua tasca, ha una visione. Immagina perversamente di aggredire quello smalto con un coltellino di Solingen ricavandone un mucchietto di scaglie, che macinate con un sasso si trasformano poi in una polverina sottile: sulla quale, nella stanza della sua pensione di rue Caumartin, egli si vede versare alcune lacrime, amalgamando: «Pasta di commozione estetica Benjamin, – dice. – L’arte per tutti in pratici boli! Solo sei franchi la confezione!», oh se l’orrenda bestemmia lo diverte! A dispetto di Gutenberg e delle progressive sorti del mondo alienato, tipografia e nazismo il passo era breve, le punte dell’ancora di Manuzio come uncini di svastica, fotografia e nazismo il passo ancora piú breve, la responsabilità di Daguerre, di quei loschi Lumière… Su quella pasta, finalmente, avrebbe diffuso una presa di granelli amaranto, come un pizzico di zafferano: e sono, questi granelli, la tritatura degli stami e dei pistilli di alcuni fiori che crescono in un vaso sul davanzale della sua finestra, fiori che una settimana prima qualcuno gli ha effettivamente venduto come i discendenti di certi fiori famosi.
– Rue des Saints-Pères 8: vedete? È qui che viveva il signor Baudelaire quando ha scritto quel libro, che anno sarà stato? Boh! Sta di fatto che quando fu ricoverato la sua roba rimase qua, finché, dopo la sua morte, vennero dei signori a portar via tutto: tutto, tranne questo vaso, cosa doveva fare la portinaia, lasciarlo lí? Cosí lo prese, e dopo di lei lo prese sua figlia, che sarebbe poi mia madre, tutte portinaie noi, portinaie fin dalla notte dei tempi… Oh basta: è lo stesso vaso, capite cosa vuol dire? Sono gli stessi fiori! Oddio, i fiori no, quelli cambiano, neh, ma la piantina è la stessa, la radice dico, butta e ributta siam sempre daccapo… Cosí, se a voi interessano, ’sti fiori, vi posso fare un prezzo speciale…
Sembravano stelle alpine un po’ mosce, azzurrine e venate di ruggine, esattamente come egli si era sempre immaginato gli asfodeli: cosí li comprò. Uscendo in strada con il vaso in mano si imbatté in un lustrascarpe.
– Non ditemi che è riuscita a venderveli!
– Me li ha venduti, perché?
– La megera! Sentite a me piuttosto, visto che vi interessa il genere: questo è un affare –. Cosí dicendo il lustrascarpe aveva estratto dalla sua cassettina un flacone trasparente pieno di un liquido grigiastro. – Non lo agiti troppo, – aggiunse porgendoglielo.
Benjamin lo esaminò controluce: il liquido, in cui rimanevano sospese alcune particole come di fuliggine, impose alla sua mente la sensazione di un pomeriggio piovoso di marzo.
– Sarebbe? – chiese.
– Roba di qualità: controllate.
Il lustrascarpe gli stava allungando un cartiglio arrotolato in cui verosimilmente il flacone doveva essere stato avvolto. Sul lato esterno, a guisa di etichetta, era scritto a mano: «Spleen di Parigi». 100 franchi tuttavia erano troppi. Cosí, dopo lungo mercanteggiamento, Benjamin ottenne per 20 franchi che il lustrascarpe gli spruzzasse un po’ di spleen sui suoi fiori del male.
– Un po’ anche sulla terra, per favore.
– Eh, eh, qui si esagera, signore.
– Solo poche gocce, vi prego.
Alla fine anche la terra fu leggermente inumidita, e Benjamin, felice come un bambino, tornò alla sua pensioncina carico di scaturigine poetica. Nondimeno, non sarebbe mai stato Baudelaire, e questo era triste. Camminando nell’immensità di uno dei tanti boulevards di Haussmann, un altro nazista, vide una piuma nera cadere lenta dal cielo, e gli piacque pensare che fosse di un corvo. Vide una donna, e la pensò come una Gorgone; ne vide un’altra, e la seppe vampiro. E vide gatti, e gatti, e gatti, e sentendosi un visitato recitò a bassa voce:
Leurs reins féconds sont pleins d’étincelles magiques,
et des parcelles d’or, ainsi qu’un sable fin,
étoilent vaguement leurs prunelles mystiques.
In quelle pupille, diceva un’altra e piú famosa poesia, l’agata si mescolava al metallo. Il metallo! L’ancora di Manuzio, i cannoni nazisti, i proiettili delle pistole, ma lí a Parigi il metallo era il ferro putrellato-bullonato della Gare du Nord e della torre Eiffel, quello della volta delle Halles lo era e quello della Gare d’Orsay, era quella la sua forma struggente, la stessa che gli assegnavano le illustrazioni del Nautilus nelle edizioni Hetzel, struttura di ferro bruno, tubi di rame inverdito, arredi di lucido ottone, aggiungendoci la luce del cielo dall’alto invetriato si avrà il passage, ma perché tutto quel ferro sprigionava un’aura non inferiore a quella di una pala d’altare del xiv secolo? Cosa c’era di magico, in quella sintassi industriale? Non capiva come, ma era evidente che anche l’opera prodotta in serie, soprattutto quando le sue ragioni tecniche prevalevano sull’ambizione estetica, era generatrice di aura, un’aura ritardata forse, un’aura indotta, ma proprio per questo ancora piú inquietante… Anzi, non molto tempo prima aveva letto il romanzo d’esordio di un medico francese, che con il piglio di un indemoniato raccontava di una visita alle officine Ford di Detroit: uomini-merce, sí, l’orrore dell’alienazione ma anche qualcosa di arcaico, una specie di danza, qualcosa di magico doveva averci trovato per parlarne cosí, come solo può chi sa guardare al presente come fosse già passato… Ora, passando davanti alla libreria Malassis, Benjamin vide esposto in vetrina un altro libro dello stesso autore. Si intitolava Morte a credito, e costava 25 franchi. «Troppi» pensò, poi vide che uno dei due editori si chiamava Steele, quasi come dire acciaio. Non sapeva che l’americano Bernard Steele era poco piú che una ragione sociale e che l’editore vero era l’altro, il belga Robert Denoël: cosí entrò nella libreria.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Michele Mari.
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