Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’ultima canzone di Nicholas Sparks, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 10,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
L’ultima canzone: trama del libro
A quattordici anni, la vita di Veronica Miller, detta Ronnie, è stata completamente stravolta dal divorzio dei genitori e dall’allontanamento del padre, che da New York si è trasferito a Wilmington, in North Carolina. Tre anni dopo Ronnie è ancora furiosa, soprattutto con lui, che non vede quasi mai. Finché sua madre non decide – nell’interesse di tutti, secondo lei – di mandarla a trascorrere l’estate nella sperduta cittadina affacciata sull’oceano dove il padre di Ronnie, ex pianista e insegnante di musica, vive un’esistenza tranquilla in sintonia con la natura, tutto concentrato nella creazione di un’opera destinata alla chiesa locale.
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Era l’unica spiegazione plausibile del perché si trovasse in viaggio per andare a far visita a suo padre, in quel buco di posto dimenticato da Dio, anziché a spassarsela con gli amici a casa sua, a Manhattan.
No, meglio precisare. Non si trattava di una semplice visita al padre. Una visita in genere durava un weekend o due, al massimo una settimana. Sarebbe riuscita a sopravvivere a una visita. Ma restare per tutto il mese di agosto, in pratica tutta l’estate, era un esilio, e per gran parte delle nove ore occorse per arrivare laggiù si era sentita come una carcerata trasferita in un penitenziario di massima sicurezza. Non poteva credere che sua madre fosse veramente intenzionata a farle subire una cosa simile.
Era così sprofondata nell’autocommiserazione, che impiegò un istante a riconoscere la sonata numero 16 in mi maggiore di Mozart. Era uno dei brani che aveva ese-guito alla Carnegie Hall quattro anni prima e capì che sua madre l’aveva messa mentre lei dormiva. Peccato. Ronnie si sporse per spegnerla.
«Perché?» le chiese la madre accigliata. «Mi piace sentirti suonare.»
«A me no.»
«Posso abbassare il volume.»
«Mamma, dacci un taglio, per favore! Non sono dell’umore giusto.»
Si girò a guardare fuori dal finestrino, sapendo benissimo che sua madre disapprovava il suo comportamento. Le capitava spesso negli ultimi tempi.
«Credo di aver visto un pellicano quando abbiamo attraversato il ponte di Wrightsville Beach», osservò la mamma con forzata allegria.
«Cavolo, eccezionale. Forse dovresti chiamare Steve Irwin.»
«È morto», disse Jonah dal sedile posteriore, la sua voce mescolata ai suoni del Game Boy. Quel tormento di suo fratello a dieci anni era un fanatico di quell’aggeggio. «Non ti ricordi?» proseguì. «Io ci sono rimasto molto male.»
«Certo che mi ricordo.»
«Non mi sembrava.»
«Ti dico di sì.»
«Allora non dovevi dire quello che hai appena detto.»
Lei preferì non ribattere. Suo fratello voleva sempre avere l’ultima parola. C’era da impazzire.
«Sei riuscita a dormire un po’?» le chiese la mamma.
«Sì, almeno finché non hai preso in pieno quella buca. A proposito, grazie: ho sfondato il vetro con la testa.»
Sua madre tenne lo sguardo fisso sulla strada. «Noto con piacere che il pisolino ti ha messo di buonumore.»
Ronnie fece scoppiare il pallone fatto con la gomma da masticare. Era una cosa che sua madre detestava, proprio per questo lo aveva fatto quasi senza interruzione da quando avevano imboccato la I-95. Per lei, l’autostrada era il genere di strada più noioso mai concepito. A meno di non avere un debole per i cibi unti dei fastfood, i disgustosi bagni delle aree di servizio e i miliardi di pini che rischiavano di far addormentare con la loro terribile, ipnotica monotonia.
Ronnie aveva detto queste esatte parole a sua madre in Delaware, Maryland e Virginia, ma lei l’aveva regolarmente ignorata. A parte lo sforzo di mostrarsi gentile durante il viaggio, poiché sarebbe stata l’ultima volta che si vedevano per diverso tempo, la mamma non era molto incline a chiacchierare in macchina. Non le piaceva guidare, cosa abbastanza naturale, dato che di solito usavano la metropolitana o il taxi per spostarsi da una parte all’altra della città. Quando erano dentro casa però… era tutta un’altra storia. Non si faceva problemi ad alzare la voce e per un paio di volte il portinaio era salito da loro, negli ultimi due mesi, per pregarla di moderare i toni. Forse era convinta che se avesse urlato più forte per i voti di Ronnie, o per le sue amicizie, o per il fatto che infrangeva costantemente il coprifuoco, oppure per l’incidente – soprattutto per l’incidente – sarebbe aumentata la probabilità che Ronnie l’ascoltasse.
Sì, certo, ammetteva che non era affatto la peggiore delle madri. E nei momenti di generosità, poteva addirittura spingersi a riconoscere che, anzi, non era niente male. Eppure sua madre sembrava imprigionata in una bizzarra dimensione temporale in cui i figli non crescevano mai, e per l’ennesima volta Ronnie rimpianse di essere nata in agosto anziché in maggio. Quell’anno avrebbe compiuto diciott’anni e sua madre non avrebbe più potuto costringerla a fare alcunché. Sarebbe stata in grado di prendere da sola le proprie decisioni.
Ma al momento Ronnie non aveva voce in capitolo, perché aveva ancora diciassette anni. Per colpa di quello scherzo del calendario. Perché tutto quell’accanimento? Per quanto avesse implorato, protestato, urlato e piagnucolato a proposito dei progetti per l’estate, non aveva ottenuto niente. Lei e Jonah avrebbero trascorso l’estate con il loro papà. Senza se e senza ma, come aveva detto sua madre. Ronnie ormai detestava quel modo di dire.
Appena superato il ponte, le auto si trovarono imbottigliate nel traffico estivo. Tra le case che fiancheggiavano la strada, Ronnie scorgeva sprazzi di oceano. Che bellezza. Come se le importasse.
«Si può sapere perché ci costringi a farlo?» sospirò contrariata.
«Ne abbiamo già parlato», rispose la mamma. «È necessario che trascorriate del tempo con papà. Sente la vostra mancanza.»
«Ma perché tutta l’estate? Non potevano bastare un paio di settimane?»
«Avete bisogno di molto più che due settimane insieme. Non vi vedete da tre anni.»
«Non è colpa mia. È stato lui ad andarsene.»
«È vero, ma poi tu non hai risposto alle sue telefonate. E tutte le volte che è venuto a New York a trovare te e Jonah, lo hai ignorato e hai preferito stare con gli amici.»
Ronnie fece scoppiare di nuovo la gomma. Con la coda dell’occhio vide sua madre trasalire.
«Non voglio vederlo e non voglio parlargli», dichiarò.
«Cercherai di fare del tuo meglio e basta, d’accordo? Tuo padre è una brava persona e ti vuole bene.»
«È per questo che ci ha lasciato?»
Invece di rispondere la mamma sbirciò nello specchietto retrovisore.
«Tu invece Jonah sei contento di questa vacanza, vero?»
«Scherzi? Sarà fortissimo!»
«Sono felice che tu abbia un atteggiamento positivo. Forse potresti insegnarlo anche a tua sorella.»
Lui sbuffò. «Sì, certo.»
«Non vedo perché non possa trascorrere l’estate con i miei amici», piagnucolò Ronnie tornando alla carica. Non si era ancora rassegnata. Pur sapendo di avere scarsissime possibilità, accarezzava ancora l’illusione di poter convincere la madre a tornare indietro.
«Vuoi dire che preferiresti passare le serate al club? Non sono nata ieri, Ronnie. So che cosa succede in posti come quelli.»
«Non faccio niente di male, mamma.»
«E cosa mi dici dei tuoi voti? E del coprifuoco? E… »
«Possiamo cambiare argomento?» la interruppe Ronnie. «Perché è tanto importante che passi del tempo con papà?»
La madre fece finta di niente. Del resto Ronnie sapeva bene che ne aveva tutte le ragioni. Aveva già risposto a quella domanda un milione di volte, anche se lei non voleva accettarlo.
Il traffico si rimise in movimento e l’auto avanzò mezzo isolato prima di bloccarsi di nuovo. La mamma abbassò il finestrino e cercò di sbirciare oltre la fila di macchine.
«Mi chiedo che cosa sia successo», borbottò. «È tutto intasato.»
«È la spiaggia», spiegò Jonah. «C’è sempre un sacco di gente.»
«Sono le tre di una domenica pomeriggio. Non dovrebbe esserci tutta questa folla.»
Ronnie si abbracciò le ginocchia, odiando la vita. Odiando tutto quanto.
«Senti, mamma», riprese Jonah. «Papà lo sa che Ronnie è stata arrestata?»
«Sì che lo sa», rispose lei.
«Che cosa le farà?»
Questa volta fu Ronnie a rispondere. «Proprio niente. Non gli è mai importato nient’altro che il pianoforte.»
Ronnie odiava il pianoforte con tutta se stessa e aveva giurato di non suonare più, una decisione che persino alcuni dei suoi amici più cari trovavano bizzarra, visto che quello strumento faceva parte della sua vita da quando la conoscevano. Il padre, ex insegnante alla Juilliard, era stato anche il suo maestro e per molto tempo lei era stata consumata dal desiderio non solo di suonare, bensì di comporre musica con suo padre.
Ed era anche brava. Molto brava, in verità, e grazie alle conoscenze del padre, la direzione e gli insegnanti della celebre scuola erano ben consapevoli delle sue capacità. La musica classica era alla base della vita del padre di Ronnie. C’erano stati un paio di articoli su riviste di musica classica e uno abbastanza lungo sul New York Times, dedicato in primo luogo al rapporto padre-figlia. Il tutto era sfociato in un’esibizione di giovani talenti alla Carnegie Hall quattro anni prima. Ronnie era convinta che fosse l’acme della sua carriera. E si era trattato di un exploit, ma non si faceva illusioni su ciò che aveva ottenuto. Sape-va quanto fosse rara un’occasione simile e in seguito si era ritrovata a chiedersi se ne fosse valsa la pena. Probabilmente nessuno, a parte i genitori, ricordava la sua esibizione. O se ne curava. Ronnie aveva imparato che il talento musicale non significava niente se non pubblicavi un video su YouTube oppure non ti esibivi di fronte a migliaia di spettatori.
A volte avrebbe desiderato che il padre le avesse insegnato a suonare la chitarra elettrica. O quanto meno le avesse dato lezioni di canto. Che cosa se ne faceva di saper suonare il pianoforte? Poteva andare a insegnare musica alla scuola locale? Oppure suonare in qualche grande albergo? O condurre la vita grama di suo padre? Bastava guardare dove l’aveva portato il pianoforte: aveva mollato la Juilliard per intraprendere la carriera di pianista e si era ritrovato a suonare in locali di provincia, scalcinati e malmessi, davanti a un pubblico che a stento riempiva le prime due file. Stava lontano da casa quaranta settimane all’anno, abbastanza da compromettere il matrimonio. Senza sapere come fosse accaduto, Ronnie si era ritrovata con sua madre che alzava la voce per tutto il tempo, mentre papà si ritirava nel suo guscio come aveva sempre fatto, finché un giorno non era tornato a casa da una tournée. Per quanto ne sapeva lei, al momento non lavorava. Non dava neppure lezioni private.
A te come sono andate le cose, papà?
Per la biografia completa dello scrittore americano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata ad Nicholas Sparks. Per la bibliografia rimandiamo invece alla nostra pagina riassuntiva su tutti i libri dell’autore.