Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Ultima notte ad Alessandria di André Aciman. Il romanzo è pubblicato in Italia da Guanda con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Ultima notte ad Alessandria: trama del libro
Nel 1965 un giovane André Aciman e i suoi familiari furono costretti a lasciare la cosmopolita Alessandria d’Egitto dopo ben tre generazioni. Il governo nazionalista di Nasser infatti stava cacciando dall’Egitto migliaia di europei, nel tentativo di eliminare ogni ricordo del protettorato britannico e di disperdere una comunità ebraica tra le più ampie dell’ex impero ottomano. Fu la fine di quella temperie che nei decenni precedenti aveva fatto di Alessandria una città di straordinaria vivacità culturale. In un memoir intenso e ricco di colori e profumi, l’autore rievoca con affettuosa ironia la vita all’interno di una grande famiglia elegante e caotica, caratterizzata da figure a dir poco affascinanti, come lo zio Vili, audace soldato, mercante e spia, o le due nonne, che spettegolano in sei lingue diverse… A fare da sfondo, il ritmo di una città araba sospesa tra la crepuscolare indolenza del passato e un futuro drammaticamente incerto. Nessuno dei nostalgici émigrés che popolano l’infanzia e la prima adolescenza dell’autore riuscirà mai a ritrovare altrove lo stesso ammaliante amalgama che rendeva Alessandria una città unica al mondo: nessun luogo, né Venezia, né Parigi, né la campagna inglese, avrà mai la luce delle mattine terse sul lungomare della Corniche.
Approfondimenti sul libro
Ultima notte ad Alessandria è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 6,99.
«Guarda» mi disse, indicando un’immensa distesa di verde, «non è splendido?» Sembrava che perfino le passeggiate pomeridiane nella campagna inglese fossero una sua invenzione, o perlomeno il concetto. «Mi capita sempre, appena prima del tramonto e pochi minuti dopo il tè: un senso di completezza, quasi di gioia. Sai, ho ottenuto tutto quel che volevo. Non male per un ottantenne, eh?» Ogni suo tratto irradiava arroganza e autocompiacimento.
Cercai di parlargli di Alessandria, di un tempo perduto e di mondi altrettanto perduti, della fine quando la fine arrivò, di Monsieur Costa e dei Montefeltro e di Aldo Kohn, di Lotte e di zia Flora e di vite ormai lontanissime. Lui mi fermò e fece un cenno sprezzante con la mano, come per allontanare un odore sgradevole. «Tutta robaccia. Io vivo nel presente» rispose, quasi infastidito dalla mia nostalgia. «Siamo o non siamo?» ripeté in italiano, alzandosi per sgranchire i muscoli. Poi mi additò la prima civetta della sera.
Non fu mai chiaro cosa fossimo o non fossimo, ma per chiunque in famiglia, compresi quelli che oggi non conoscono una sola parola di italiano, quella frase ellittica incarna ancora perfettamente il soldato impettito, temerario, presuntuoso e spaccone che era saltato fuori da una trincea italiana durante la Grande guerra e che da lì, nascosto tra filari di alberi con il fucile stretto tra le mani, se solo non avesse esaurito le munizioni avrebbe raso al suolo l’impero austro-ungarico. La frase esprimeva l’insolente fiducia in se stesso di un sergente istruttore circondato da femminucce bisognose di quotidiano incitamento. «Siamo o non siamo abbastanza uomini?» sembrava dire. «Andiamo avanti o no?» «Siamo o non siamo all’altezza?» Era il suo modo di fischiettare nel buio, di scrollarsi di dosso le sconfitte, di raccogliere i cocci e sostenere comunque di avere messo a segno una vittoria. Insomma, era il modo in cui si intrometteva a forza nelle faccende del destino e cercava di ricavarne il massimo, arrogandosi il merito di qualsiasi cosa, compreso l’esito imprevedibile e brillante dei suoi più sciagurati progetti. Scambiava la fortuna sfacciata per lungimiranza e parimenti spacciava per coraggio ciò che in realtà si riduceva all’intraprendenza di un qualunque monello di strada, o poco più. Aveva fegato, però. Lo sapeva e se ne vantava.
Per nulla scalfito dall’umiliante disfatta di Caporetto del 1917, zio Vili fu sempre orgoglioso di avere prestato servizio nell’esercito italiano e non smise mai di vantarsene, con la vivace cadenza fiorentina assorbita studiando dai gesuiti a Costantinopoli. Come la maggior parte dei giovani ebrei nati in Turchia verso la fine del secolo, Vili denigrava tutto ciò che aveva a che fare con la cultura ottomana ed era assetato d’Occidente, al punto di trasformarsi, alla fine, in «italiano» come facevano quasi tutti gli ebrei in Turchia: millantando, cioè, legami ancestrali con Livorno, dove si erano stabiliti nel Cinquecento gli ebrei fuggiti dalla Spagna. Allo scopo era stato riesumato un lontanissimo parente italiano dal nome spagnoleggiante, Pardo-Roques – Vili stesso era per metà un Pardo-Roques – e di conseguenza i «cugini» turchi ancora in vita erano diventati all’istante italiani. Va da sé che erano tutti nazionalisti e monarchici convinti.
Quando un greco di Alessandria aveva osato affermare che l’esercito italiano non era un esempio di valor militare, zio Vili lo aveva sfidato a duello, a maggior ragione dopo avergli sentito ricordare che, pur con tutte quelle medaglie e gingilli, Vili rimaneva una canaglia turca, e per giunta ebreo. Zio Vili si era infuriato non tanto perché qualcuno aveva criticato il suo essere ebreo – lui per primo l’avrebbe fatto – quanto perché detestava sentirsi rammentare che molti ebrei erano diventati italiani con mezzi poco leciti. Le armi scelte dai secondi per l’occasione erano così obsolete che i duellanti non sapevano come maneggiarle. Alla fine non era rimasto ferito nessuno, i due si erano scusati a vicenda, uno di loro aveva persino ridacchiato e, per incoraggiare un certo spirito di cameratismo, Vili aveva suggerito un tranquillo ristorantino sul mare, dove in quella tersa giornata alessandrina di giugno avrebbero entrambi consumato uno dei pranzi più lieti degli ultimi anni. Quando era giunto il momento di pagare il conto, sia l’italiano sia il greco avevano insistito per offrire e il braccio di ferro sarebbe continuato all’infinito, essendo un onore e un piacere per entrambi, se zio Vili, come uno stregone costretto a usare un incantesimo dopo aver tentato ogni altra via, non si fosse esibito nella sua frase preferita, che in quel caso significava: «Sono o non sono un uomo d’onore?» Il greco, dei due il più cortese, aveva ceduto.
Zio Vili sapeva comunicare l’impalpabile quanto inconfondibile sensazione di avere nobili origini, anzi, un blasone così antico da trascendere certe piccolezze quali luogo di nascita, nazionalità o religione. Di pari passo con le nobili origini veniva discretamente suggerita una vaga idea di ricchezza, purtroppo investita altrove, per esempio in terre straniere, anche se l’unica terra che la famiglia avesse mai posseduto era quella che si compra con i vasi da fiori. Ma le sue origini nobili ispiravano molta fiducia. Ed era ciò che gli importava di più, perché proprio così lui e gli altri uomini della famiglia avevano fatto fortuna, preso in prestito e perso denaro, contratto matrimoni vantaggiosi: sulla fiducia.
A Vili comportarsi da nobile veniva naturale, non perché lo fosse davvero o fingesse di esserlo, e nemmeno perché vi aspirasse con la distinta eleganza degli aristocratici decaduti. Nel suo caso, piuttosto, dipendeva semplicemente dalla convinzione di essere nato migliore. Aveva il tipico fare maestoso dei ricchi e un sorriso riluttante che si addolciva subito in presenza dei suoi pari. Era di vedute patrizie riguardo a denaro, politica e dissolutezza, intollerante più verso la sciatteria che il cattivo gusto, più verso il cattivo gusto che la crudeltà e più verso le cattive maniere a tavola che le scorrette abitudini alimentari. Soprattutto detestava ciò che lui definiva l’«atavismo» con cui si ponevano gli ebrei, specie quando si atteggiavano a goyim. Derideva il parentado e i conoscenti che avessero un aspetto ebraico tradizionale, non perché lui fosse diverso o perché odiasse gli ebrei, ma perché sapeva quanto li odiavano tutti gli altri. «È a causa degli ebrei come loro che odiano gli ebrei come noi.» Ogni volta che un ebreo osservante e orgoglioso del proprio retaggio non lo teneva nella giusta considerazione, la risposta gli usciva di bocca come se sputasse un seme tenuto fra i denti per quarant’anni: «Orgoglioso di cosa? Alla fine non siamo tutti venditori ambulanti?»
E in effetti vendere era ciò che sapeva fare meglio. Addirittura era riuscito a vendere il fascismo agli inglesi in Egitto e in seguito, per conto degli italiani, anche in Europa. Era devoto al duce quanto al papa. I suoi discorsi annuali alla gioventù hitleriana in Germania erano molto applauditi ed erano diventati un celebre motivo di litigio in famiglia. «Non vi immischiate, so cosa faccio» diceva. Anni dopo, quando gli inglesi avevano cominciato a minacciare di internamento tutti i maschi italiani adulti residenti ad Alessandria, zio Vili aveva immediatamente rovistato nei suoi armadi e preso a smerciare vecchi certificati del rabbinato di Costantinopoli, per ricordare agli amici del Consolato britannico che, in qualità di ebreo italiano, in nessun modo poteva essere considerato una minaccia per i loro interessi. E se avesse spiato gli italiani? Gli inglesi non avrebbero potuto chiedere di meglio.
Aveva svolto il suo incarico in maniera così brillante che dopo la guerra era stato ricompensato con una proprietà georgiana nel Surrey, dove aveva vissuto in signorile indigenza per il resto dei suoi giorni sotto il nome di dottor H.M. Spingarn. Herbert Michael Spingarn era un inglese che Vili aveva conosciuto da bambino a Costantinopoli, al quale doveva le due grandi passioni della sua vita: il tipico desiderio levantino di emulare tutto ciò che era britannico e il tipico disprezzo ottomano per tutto ciò che era britannico. Quando lo informai che anche questo tale Spingarn era ebreo, zio Vili, il quale aveva rinunciato al cognome apertamente ebraico per uno anglosassone, fremette di malcelato imbarazzo. «Sì, mi pare di ricordare qualcosa» rispose, restando sul vago. «Ma allora siamo proprio dappertutto, eh? Se scrosti la superficie, scopri che sono tutti ebrei» scherzò quell’ottuagenario ebreo, turco, italiano, fascista, anglofilo trasformatosi infine in proprietario terriero, il quale aveva iniziato la sua carriera vendendo fez per le strade di Vienna e Berlino e l’avrebbe conclusa come unico banditore d’asta delle proprietà del deposto re Faruk. «Il Sotheby’s d’Egitto, ma pur sempre un venditore ambulante» aggiunse, appoggiandosi allo schienale della sedia mentre guardavamo uno stormo di uccelli scendere sulle torbide acque stagnanti di ciò che un tempo doveva essere stato uno splendido specchio d’acqua. «E comunque, sono pur sempre un grande popolo, questi ebrei» diceva nel suo inglese zoppicante, fingendo un tono di distaccata condiscendenza così volutamente superficiale e consapevole della propria fatuità da suggerire che, parlando dei suoi correligionari, intendesse sempre l’opposto di quel che diceva. Dopo averne tessuto le lodi, sviliva quei «mascalzoni» di ebrei, seppur ammirevoli, e poi cambiava registro un’altra volta. «Dopo tutto, Einstein, Schnabel, Freud, Disraeli» declamava con un guizzo negli occhi e un mezzo sorrisetto «erano o non erano?»
Aveva lasciato l’Egitto, dove la famiglia si era trasferita da Costantinopoli nel 1905, come aspirante cadetto, col fuoco nelle viscere e l’argento vivo negli occhi. Aveva studiato in Germania, si era arruolato nell’esercito prussiano, aveva cambiato fronte quando gli italiani erano entrati in guerra nel 1915 e infine, dopo Caporetto, aveva atteso il cessate il fuoco a Cipro lavorando come interprete; quattro anni dopo il congedo era tornato in Egitto, elegante libertino non ancora trentenne, il cui bell’aspetto insolente tradiva una storia di loschi traffici e assedi spietati nella battaglia fra i sessi. Colpite dalle sue conquiste, le sorelle lo giudicavano decisamente virile, forse per l’inclinazione smaliziata con cui portava il Borsalino, il tono incalzante della voce e quella spavalda condiscendenza con cui ti toglieva la bottiglia di champagne che stavi cercando di stappare e diceva: «Lascia fare a me» – mai troppo arrogante, quanto bastava a sottintendere che c’era di più, molto di più. Aveva combattuto in ogni sorta di battaglia, su ogni sorta di fronte, con ogni sorta di arma. Era un tiratore scelto, un atleta notevole, un astuto uomo d’affari, un implacabile donnaiolo: decisamente virile.
«Siamo o non siamo» si vantava, dopo una conquista o un grosso affare sul mercato azionario, o dopo essersi ripreso all’improvviso da un attacco di malaria che sembrava senza speranza, o quando smascherava una donna scaltra o metteva al tappeto un farabutto, o anche solo quando voleva mostrare al mondo intero che non era tipo da lasciarsi ingannare facilmente. «Gliel’ho fatta vedere o no?», questo significava. Usava quella frase dopo avere negoziato una transazione difficile: «Non vi avevo promesso che sarebbero tornati a implorare il mio prezzo?» O quando faceva sbattere in cella un ricattatore: «Non l’avevo avvisato di non sottovalutarmi?» O quando zia Marta, l’amata sorella, si rifugiava da lui piangendo a dirotto dopo avere ricevuto il benservito dall’ennesimo fidanzato, nel qual caso la frase significava: «Qualunque uomo degno di questo nome avrebbe capito che era nell’aria! Non ti avevo avvisata?» Allora, per ricordarle che lei era più forte delle lacrime, la faceva sedere sulle ginocchia, le prendeva le mani e la cullava con dolcezza, giurandole che il dolore sarebbe passato prima di quanto pensasse, perché quando si trattava di pene d’amore andava sempre a finire così, inoltre lei era o non era?
Poi le comprava delle rose e riusciva a calmarla per qualche ora, forse per qualche giorno. Ma zia Marta non era sempre facile da distrarre; anzi, a volte Vili non faceva in tempo a tornarsene in studio che all’improvviso la sentiva gridare come una pazza dall’altro capo dell’appartamento: «Chi mi sposerà, chi?» chiedeva alle sorelle, singhiozzando e soffiandosi il naso nel primo straccio capitatole a tiro.
«Alla mia età chi mi sposerà, ditemelo voi, chi, chi?» domandava, tornando tra le grida nello studio di Vili.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a André Aciman.
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