Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’ultimo cavaliere di Stephen King, primo capitolo della saga della Torre Nera, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
L’ultimo cavaliere: trama del libro
Il primo volume della saga de «La Torre Nera», un classico della letteratura moderna. Scritto in età giovanile e completamente rivisto dall’autore prima della pubblicazione dei capitoli conclusivi del ciclo, questo romanzo mostra un nuovo, appassionante aspetto dello straordinario talento creativo di Stephen King. Una storia fantastica, ambientata in un mondo di sinistre atmosfere e macabre minacce, che appare come lo specchio oscuro di quello reale. Qui, in uno sconfinato paesaggio apocalittico, l’eterno, epico scontro fra il bene e il male si incarna in uno dei più evocativi personaggi concepiti dall’autore: Roland di Gilead, l’ultimo cavaliere, leggendaria figura di eroe solitario sulle tracce di un enigmatico uomo in nero, verso una misteriosa Torre proibita.
Il deserto era l’apoteosi di tutti i deserti, sconfinato, vasto fino a traboccare nel cielo per quella che sembrava un’eternità in tutte le direzioni. Era bianco e accecante e arido, amorfo salvo che per l’abbozzo labile e nebuloso delle montagne all’orizzonte e per l’erba diavola che portava dolci sogni, incubi, morte. A indicare la via appariva di tanto in tanto una lapide, perché un tempo la pista semicancellata scavata nella spessa crosta alcalina era stata una strada importante, percorsa da carri e corriere. Da allora il mondo era andato avanti. Il mondo si era svuotato.
Il cavaliere era stato colto da uno stordimento fugace, una sensazione di smisuratezza che faceva apparire il mondo intero effimero, quasi ci si potesse guardare attraverso. Poi la sensazione passò e, come il mondo sulla cui pelle camminava, il cavaliere andò avanti. Percorreva le miglia con flemma, senza fretta, senza indugio. Gli pendeva alla vita un otre di pelle simile a una mortadella. Era quasi pieno. Dopo molti anni di applicazione, il pistolero aveva raggiunto forse il quinto livello del khef. Fosse stato un sant’uomo Manni, non avrebbe forse patito la sete; avrebbe potuto osservare con clinico distacco il progressivo disidratarsi del proprio corpo, irrorandone i cunicoli e le oscure cavità interiori solo quando la logica gli avesse detto che era indispensabile. Ma non era un Manni, non era un seguace dell’Uomo-Gesù, e in nessun modo si considerava santo. Era solo un comune viandante, in altre parole, e l’unica cosa che poteva dire con assoluta certezza era che aveva sete. Tuttavia non sentiva il bisogno impellente di bere. Ne provava un vago piacere. Era l’atteggiamento giusto per quella terra, poiché era una terra assetata, e nella sua lunga vita non gli aveva certo fatto difetto l’adattabilità. Sotto l’otre c’erano le sue pistole, il cui peso era stato calibrato con cura sulle sue mani; una zavorra era stata aggiunta a entrambe quando gli erano giunte da suo padre, che era stato più leggero di lui e non tanto alto. I due cinturoni gli si incrociavano sopra l’inguine. Le fondine erano lubrificate troppo bene perché quel sole, per quanto filisteo, potesse screpolarle. Il calcio era di sandalo, giallo, con venature sottili. Le fondine dondolavano leggermente ai suoi passi, trattenute da lacci di cuoio poco stretti intorno alle cosce; avevano strofinato via il blu dei suoi jeans (e assottigliato la tela) in due archi che somigliavano a sorrisi. I bossoli di ottone delle cartucce infilate nei passanti dei cinturoni ammiccavano mandando segnali di sole. Ne aveva di meno, ora. Il cuoio scricchiolava sommessamente.
La camicia, del non-colore della pioggia o della polvere, era aperta sulla gola, con un laccio di cuoio allentato negli occhielli punzonati a mano. Non aveva più il cappello. E non aveva più il corno che portava un tempo, caduto dalla mano di un amico morente, e li rimpiangeva entrambi.
Salì il dolce pendio di una duna (ma non c’era sabbia in quel deserto crostoso e persino gli aspri venti che soffiavano al calar delle tenebre riuscivano solo a sollevare un fastidioso pulviscolo pungente simile a polvere abrasiva) e vide i resti scalciati di un minuscolo fuoco da bivacco sul versante sottovento, il lato dal quale il sole si sarebbe ritirato prima. Di piccoli segni come quello, a riaffermare la possibile umanità dell’uomo in nero, non mancava mai di compiacersi. Distese le labbra nel volto scavato e riarso. Un sorriso macabro, dolente. Si accosciò.
La sua preda aveva bruciato l’erba diavola, ovviamente. Era l’unica cosa che si potesse bruciare da quelle parti. Ardeva con un bagliore untuoso e opaco, lentamente. Gli abitatori della frontiera gli avevano detto che i diavoli vivevano anche in quelle fiamme. Perciò la usavano per alimentare il fuoco, ma evitavano di guardarne la luce. Dicevano che i diavoli ipnotizzavano e seducevano chi li fissava, attirandolo infine nelle fiamme. Così il prossimo stolto che avesse guardato il fuoco avrebbe forse visto proprio te.
Il solito ideogramma composto con l’erba bruciata si disfece in un uniforme, impalpabile grigiore sotto la mano indagatrice del pistolero. Nulla c’era nei resti del fuocherello oltre a un frammento carbonizzato di pancetta, che mangiò sovrappensiero. Era sempre andata così. Il pistolero seguiva l’uomo in nero attraverso il deserto da ormai due mesi, nella vastità infinita e tremendamente monotona di quel purgatorio, e ancora non gli era dato di trovare altra traccia che quelle asettiche, sterili, ideografie dei fuochi. Mai che avesse trovato un barattolo, una bottiglia o un otre (il pistolero ne aveva lasciati quattro dietro di sé, come pelli abbandonate da un serpente dopo la muta). Non aveva trovato escrementi. Ne aveva dedotto che l’uomo in nero li interrava.
Forse i fuochi del bivacco erano un messaggio scandito, una lettera dopo l’altra. Tieniti a distanza, socio, poteva voler dire. Oppure, la fine si avvicina. Oppure persino, vieni a prendermi. Poco importava che cosa dicesse o non dicesse. Non gli interessavano i messaggi, posto che fossero tali. Era invece importante che quei resti fossero freddi come tutti quelli che li avevano preceduti. Sapeva di essere più vicino, ma non sapeva come mai lo sapesse. Un certo odore, forse. Anche quello era irrilevante. Sarebbe andato avanti finché qualcosa fosse cambiato e se non fosse cambiato niente sarebbe andato avanti lo stesso. Acqua ci sarà se Dio lo vuole, dicevano i vecchi. Acqua se Dio vuole anche nel deserto. Il pistolero si rialzò pulendosi le mani.
Nessun’altra traccia; il vento, affilato come la lama di un rasoio, aveva naturalmente molato anche i più tenui indizi che il crostone potesse aver precedentemente conservato. Niente escrementi d’uomo, niente rifiuti, mai un indizio di dove li avesse seppelliti. Niente. Solo quelle ceneri fredde di fuochi da bivacco lungo l’antica pista verso sud-est e l’inesorabile telemetro che aveva nella testa. Sebbene questo fosse ben altra cosa: l’attrazione in direzione sud-est era più che senso dell’orientamento, era più anche della forza magnetica.
Si sedette e si concesse un piccolo sorso d’acqua. Pensò alla vertigine passeggera di poco prima, quella sensazione di essere quasi scollegato dal mondo, e si chiese che cosa potesse significare. Perché quella vertigine gli aveva fatto ricordare il suo corno e l’ultimo dei suoi vecchi amici, persi entrambi tanto tempo prima a Jericho Hill? Aveva ancora le sue pistole – le pistole di suo padre – ed erano di sicuro più importanti dei corni o persino degli amici.
O no?
L’interrogativo gli dava un certo turbamento, ma poiché pareva non ci fosse altra risposta che la più ovvia lo mise da parte, magari per tornarci in un secondo tempo. Scrutò il deserto, quindi alzò gli occhi al sole che scivolava ormai in un lontano quadrante del cielo che non era – fatto inquietante – propriamente a ovest. Si alzò, si sfilò i guanti sdruciti dalla cintura e cominciò a raccogliere erba diavola per il proprio fuocherello, ammassandola sulle ceneri lasciate dall’uomo in nero. Trovò in quell’ironia, come per la sete, un fascino un po’ distorto.
Non estrasse pietra focaia e acciarino finché del giorno non restarono che il fuggevole calore nel terreno e una beffarda linea di arancione nella monocromia dell’orizzonte.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore del Maine rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stephen King.
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