L’umiliazione: la trama del libro
Tutto è finito per Simon Axler, il protagonista del libro. Simon, uno dei più grandi attori teatrali della sua generazione, ha superato i sessant’anni e ha perso la sua magia, il suo talento e la sua sicurezza. Quando sale sul palcoscenico si sente un pazzo e si vede un idiota. La sua fiducia nelle proprie capacità è evaporata; s’immagina che la gente rida di lui; non riesce più a fingere di essere qualcun altro. “E scomparso qualcosa di fondamentale”. La moglie se n’è andata, il pubblico l’ha abbandonato, il suo agente non sa come convincerlo a tornare in scena. In questo atroce resoconto di un’inspiegabile e terrificante autodistruzione, emerge il contraltare di un insolito desiderio erotico, certo una consolazione in quella vita spogliata di tutto, ma tanto rischiosa e aberrante da frustrare ogni speranza di conforto e gratificazione per puntare dritto verso un finale ancora più cupo e rovinoso. In questo lungo viaggio verso la notte tutti i mezzi che usiamo per convincerci della nostra solidità, tutte le rappresentazioni che nella vita diamo di noi stessi – talento, amore, sesso, speranza, energia, reputazione vengono messi a nudo.
Naturalmente, se un tempo ce l’avevi, in te ci sarà sempre qualcosa di diverso dagli altri. Io sarò sempre diverso dagli altri, diceva Axler tra sé, perché sono quello che sono. Me lo porto dentro, e la gente se ne ricorderà sempre. Ma l’aura che lo aveva circondato, tutti i suoi vezzi e le sue eccentricità e le sue personali specificità, tutto ciò che aveva funzionato per Falstaff, Peer Gynt e zio Vanja – ciò che aveva procurato a Simon Axler la reputazione di ultimo dei grandi attori del teatro classico americano –, nulla di tutto questo funzionava piú per alcun ruolo. Proprio ciò che prima aveva fatto di lui quel che era, adesso faceva di lui un pazzo. Era consapevole di ogni momento trascorso in scena, nel senso peggiore. In passato, quando recitava, non pensava a niente. Ciò che faceva bene, lo faceva per istinto. Ora pensava a tutto, annientando ogni forma di spontaneità e vitalità: cercava di controllarle col pensiero e invece le distruggeva. D’accordo, si diceva Axler, stava attraversando un momentaccio. Anche se aveva piú di sessant’anni, forse gli sarebbe passata mentre era ancora riconoscibilmente se stesso. Non era il primo attore consumato al quale fosse toccata una cosa simile. Capitava a un sacco di gente. Ci sono già passato, pensò, e troverò una soluzione. Non so dove andrò a prenderla, questa volta, ma la troverò: passerà.
Non passò. Non era capace di recitare. Come riusciva a catturare l’attenzione del pubblico, una volta! E ora temeva ogni rappresentazione, e la temeva per l’intera giornata. Prima di una rappresentazione pensava tutto il giorno a cose che non gli erano mai venute in mente in vita sua: non ce la farò, non ne sarò capace, mi hanno dato una parte sbagliata, sto facendo il passo piú lungo della gamba, sono un impostore, non so nemmeno come recitare la prima battuta. E intanto cercava di occupare le ore facendo, per prepararsi, cento cose in apparenza necessarie: devo dare un’altra occhiata a questo monologo, devo riposarmi, devo fare esercizio fisico, devo dare un’altra occhiata a quel monologo, e quando arrivava in teatro era sfinito. E terrorizzato all’idea di andare in scena. Sentiva avvicinarsi sempre piú il momento in cui gli avrebbero dato la battuta e sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Aspettava la libertà di iniziare e il momento di diventare reale, aspettava di scordare chi era e diventare la persona che agiva, e invece stava là, completamente svuotato, recitando nel modo in cui si recita quando non sai quello che fai. Non era capace di dare né di trattenere; mancava di fluidità e mancava di riserbo. Recitare era diventata la fatica quotidiana di uno che cerca di passarla liscia.
Tutto era cominciato con la gente che gli si rivolgeva. Non poteva avere piú di tre o quattro anni, e già era ipnotizzato dalle parole che pronunciava e da quelle che gli venivano rivolte. Gli era sembrato fin dall’inizio di trovarsi in una recita. Sapeva servirsi dell’intensità dell’ascolto, della concentrazione, come gli attori meno grandi di lui si servivano di piú chiassosi virtuosismi. Aveva questo potere anche fuori dalla scena, soprattutto, quando era piú giovane, con le donne, che non si accorgevano di avere una storia fino al giorno in cui era lui a rivelare loro di avere una storia, una voce e uno stile che non apparteneva a nessun altro. Diventavano attrici con Axler, diventavano le eroine della propria vita. Pochi attori teatrali sapevano parlare e ascoltare come lui, ma ormai non era piú capace di fare né l’una né l’altra cosa. Era come se i suoni che un tempo gli entravano nell’orecchio ora ne uscissero, e ogni parola che pronunciava sembrava recitata anziché detta. La fonte originaria della sua recitazione era in ciò che udiva, il nocciolo era la sua reazione a ciò che udiva, e se non era piú capace di ascoltare, se non era piú capace di udire, non aveva piú niente su cui basarsi.
Gli chiesero di interpretare Prospero e Macbeth al Kennedy Center – difficile pensare a un doppio programma piú ambizioso – e lui fece miseramente fiasco in ambedue i ruoli, ma soprattutto in quello di Macbeth. Non era piú capace di fare uno Shakespeare a bassa intensità e non era piú capace di fare uno Shakespeare ad alta intensità, e pensare che aveva fatto Shakespeare per tutta la vita. Il suo Macbeth era ridicolo, e quelli che lo videro lo dissero senza eccezione, e altrettanto fecero molti che non lo avevano visto. «No, non hanno neanche bisogno di esserci stati – diceva lui – per insultarti». Molti attori, per aiutarsi, si sarebbero dati al bere; c’era una vecchia barzelletta su un attore che beveva sempre prima di andare in scena, e che quando lo esortarono a non bere replicò: «Come, dovrei andare là fuori da solo?» Ma Axler non beveva, e cosí invece crollò. Il suo crollo fu monumentale.
La cosa peggiore era che vedeva il proprio crollo con la stessa lucidità con cui si vedeva recitare. La sofferenza era atroce, e tuttavia lui dubitava che fosse genuina, il che la rendeva anche peggiore. Non sapeva come passare da un minuto all’altro, era come se la mente gli si stesse liquefacendo, aveva il terrore di stare da solo, non riusciva a dormire piú di due o tre ore per notte, mangiava appena, ogni giorno pensava di ammazzarsi con l’arma che aveva in solaio – un fucile a pompa Remington 870 che teneva nella casa isolata per autodifesa – e nondimeno gli sembrava tutta una commedia, una commedia recitata male. Quando reciti la parte di uno che sta crollando, la tua interpretazione ha un ordine e una coerenza; quando la persona che vedi crollare sei tu, e quella che stai recitando è la tua fine, è tutta un’altra cosa, una cosa spaventosa e terrorizzante.
Non riusciva a convincersi di essere impazzito, non piú di quanto fosse riuscito a convincere se stesso o chiunque altro di essere Prospero o Macbeth. …
Editore: Einaudi
Pagine: 113
Collana: Super ET
eBook: 6,99 euro
Philip Roth è uno dei maggiori scrittori contemporanei e uno dei più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese in assoluto. Il suo romanzo più famoso è Pastorale Americana, per il quale Roth ha ricevuto il Premio Pulitzer nel 1998.
Altri libri
Il complotto contro l’America
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La macchia umana
Lamento di Portnoy
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Quando lei era buona
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