Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’unico figlio di Anne Holt. Il volume è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 12,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
L’unico figlio: trama del libro
In un gelido e ostinatamente plumbeo febbraio norvegese, l’arrivo di un ragazzino in un orfanotrofio alle porte di Oslo è causa di grande scompiglio. Il dodicenne Olav infatti, sottratto alla patria potestà, pare infinitamente più adulto e cattivo degli altri compagni, e tutti i tentativi di pacificarlo sembrano fallire. Quando Agnes Vestavik, la direttrice dell’orfanotrofio, viene trovata nel suo ufficio, uccisa con un coltello da cucina, e Olav è scomparso, probabilmente dopo aver assistito al delitto, Hanne Wilhelmsen, appena nominata soprintendente di polizia, decide di occuparsi del caso. Cosa che la porterà a scendere per le strade di Oslo, tra il peggior degrado ma anche nell’umanità più dolorosamente viva.
In ebook L’unico figlio (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Con passo deciso raggiunse pesantemente il centro della stanza, dove si fermò di colpo. La neve rimasta attaccata sotto le enormi scarpe da ginnastica cominciò a sciogliersi formandogli delle piccole pozze d’acqua intorno ai piedi. A gambe divaricate, come per nascondere che erano valghe, allargò le braccia ripetendo:
– Sono il bambino nuovo!
Il capo era completamente rasato solo da una parte. Appena sopra l’orecchio destro i capelli corvini e ispidi erano pettinati in un arco che gli ricopriva la sommità della testa sferica prima di ricadere, obliqui, a pochi millimetri dalla spalla sinistra. Una ciocca gli pendeva davanti all’occhio, arruffata e spessa come un pezzo di cuoio. La bocca assumeva la forma di una U imbronciata ogni volta che soffiava nel tentativo di rimettersi a posto il ciuffo ribelle. La giacca a vento, una taglia XXL, gli stava giusta in vita, ma era lunga mezzo metro di troppo, come minimo; le maniche arrotolate scoprivano un paio di polsini enormi, alti una trentina di centimetri. I pantaloni, cadevano molli in mille pieghe sulle caviglie. Quando con un certo sforzo riuscí ad aprire la giacca a vento, si notò che dal ginocchio in su la gamba del calzone si stringeva prepotentemente intorno alle cosce.
La stanza era grande. Secondo lui non poteva trattarsi di un soggiorno: non c’erano divani né poltrone, né tantomeno un televisore. Lungo una parete si trovavano, oltre a un piano di lavoro, il lavello e il forno. Eppure non si sentiva odore di cibo. Alzando il naso, annusò un paio di volte constatando che nella casa ci doveva essere un’altra cucina. Una vera. Quel locale era quasi sicuramente una stanza comune. I muri erano ricoperti di disegni e dal soffitto, piú alto del normale, pendevano piccoli scacciapensieri e pupazzetti di lana fatti probabilmente dai bambini. Proprio sopra la sua testa un gabbiano bianco e grigio di cartoncino e filo agitava debolmente le ali. Il becco rosso fuoco, in parte scollato, penzolava come un dente appeso a una cordicella sottile. Si allungò per prenderlo, invano. Allora staccò con forza un pulcino pasquale fatto con il cartone delle uova e qualche piuma gialla, gli strappò tutte le penne poi gettò sul pavimento quel che ne rimaneva.
Sotto due grandi finestre piombate c’era un enorme tavolo da lavoro. Quattro bambini interruppero ciò che stavano facendo e si misero a fissare il nuovo arrivato. La piú grande, una ragazzina di undici anni, lo squadrò incredula da capo a piedi. Due che potevano essere gemelli, con gli stessi maglioni e la frangia biondissima, soffocarono a stento una risatina prima di sussurrarsi qualcosa all’orecchio mentre si davano di gomito. Una bimba di quattro o cinque anni rimase seduta per qualche secondo, paralizzata dal terrore. Poi scivolò giú dalla sedia e si precipitò verso l’unica persona adulta presente nella stanza: una donna robusta che la prese subito in braccio e iniziò ad accarezzarle i capelli ricci per tranquillizzarla.
– È il bambino nuovo, – disse. – Si chiama Olav.
– Appunto, – replicò Olav scontroso. – Sono il bambino nuovo. Sei sposata?
– Sí, – rispose la donna.
– Sono tutti qui i bambini che abitano in questa casa?
La sua delusione era evidente.
– No, lo sai, – gli disse la donna con un sorriso. – Sono sette. I tre laggiú…
Indicò con un cenno del capo i tre seduti al tavolo, lanciando loro un’occhiata severa che li lasciò completamente indifferenti.
– E quella lí? Non abita qua?
– No, è mia figlia. È qui solo per oggi.
Sorrise mentre la bambina le nascondeva il viso nell’incavo del collo, stringendosi ancora di piú a lei.
– Ah! Ne hai altri?
– Tre. Lei è la minore. Si chiama Amanda.
– Che nome da smorfiosa. Comunque l’avevo capito che era l’ultima. Sei troppo vecchia per avere dei figli piccoli.
La donna scoppiò a ridere.
– Hai perfettamente ragione. Ormai sono in là con gli anni. Gli altri due sono quasi adulti. Ma non vuoi salutare Jeanette? Ha piú o meno la tua età. E Roy-Morgan? Ha otto anni.
Roy-Morgan non aveva nessuna intenzione di salutare il nuovo arrivato e, dopo essersi avviticchiato sulla sedia, girò ostentatamente la testa verso il compagno che gli sedeva accanto.
Con le sopracciglia aggrottate, Jeanette si ritrasse sulla sedia quando Olav le si avvicinò tendendole una mano sporca e sgocciolante di neve. Prima di raggiungerla, e prima che lei avesse il tempo di reagire e di fargli capire che non voleva stringere le dita allargate che le venivano offerte, Olav eseguí un profondo inchino esclamando solennemente:
– Olav Håkonsen. Piacere!
Dopo essersi premuta contro lo schienale, Jeanette si afferrò con forza alla sedia e sollevò le ginocchia all’altezza del mento. Il nuovo arrivato cercò di abbassare le mani e di lasciarle cadere lungo i fianchi, ma tra corporatura e abiti le sue braccia rimasero allargate: sembrava l’omino della Michelin. Il suo atteggiamento aggressivo era scomparso, si era persino dimenticato di divaricare le gambe. Adesso le ginocchia si toccavano formando una X sotto le cosce troppo grosse, mentre dentro le enormi scarpe da ginnastica i pollicioni puntavano l’uno verso l’altro.
I maschi erano ammutoliti.
– Lo so perché non mi vuoi salutare, – disse Olav.
La donna aveva pilotato la figlia in un’altra stanza. Mentre rientrava, vide sulla soglia la mamma di Olav. Madre e figlio si assomigliavano tantissimo. Gli stessi capelli neri, la stessa bocca larga il cui labbro inferiore attirava subito l’attenzione: rosso scuro, appariva insolitamente morbido e umido, non secco e screpolato com’era prevedibile vista la stagione. Sul bambino quel labbro aveva un non so che d’infantile, sulla donna adulta risultava invece ripugnante, soprattutto perché lei continuava a inumidirselo con una lingua altrettanto rossa. A eccezione della bocca, si faceva notare soprattutto per le spalle: ne era priva. Dalla testa partiva una linea curva continua, come in un birillo da bowling o una pera, che culminava in un paio di fianchi incredibilmente larghi, proseguiva lungo le cosce grasse per poi terminare in due polpacci sottili che sostenevano l’intera struttura. Quella corporatura era piú evidente nella madre che nel figlio, probabilmente perché il cappotto era della taglia giusta. L’altra donna cercò di catturarne lo sguardo, ma inutilmente.
– Lo so perché non mi vuoi salutare, – ripeté Olav. – Sono brutto e grasso.
Pronunciò quelle parole senza falso pudore, con un sorriso debole, soddisfatto, quasi come si trattasse di un fatto assodato che finalmente era riuscito a scoprire, un complicato problema che aveva richiesto dodici anni della sua vita per essere risolto. Si girò e, senza guardare la robusta educatrice della casa famiglia, le chiese dove avrebbe abitato.
– Potresti essere cosí gentile da mostrarmi la mia camera?
La donna gli tese la mano, ma invece di stringerla, il ragazzino compí un gesto ampio ed elegante con il braccio per poi inchinarsi leggermente.
– Prima le signore!
Quindi, camminando come un’anatra dietro di lei, salí al primo piano.
Era enorme e io sapevo che c’era qualcosa che non andava. Me lo misero in braccio e non provai nessuna gioia, nessun dolore, solo impotenza. Un’impotenza immensa, opprimente, come se mi avessero accollato qualcosa che, era chiaro, non sarei mai stata in grado di gestire. Mi consolarono. Tutto perfettamente normale: era solo un neonato un po’ grande.
Grande? Normale? Qualcuno di loro aveva mai cercato di espellere un grumo di cinquemilatrecentoquaranta grammi? Avevo superato il termine da tre settimane, ne ero certa, ma la dottoressa aveva insistito che mi sbagliavo. Come se lei potesse saperlo. Ero io a sapere benissimo quando era stato concepito. Un martedí. Una di quelle sere in cui cedevo per evitare urla e botte, in cui la paura di provocare uno dei suoi attacchi d’ira era cosí forte che non ce la facevo piú. Non in quel momento. Non quando c’era cosí tanto alcol in casa. Il giorno dopo si era ammazzato in macchina. Un mercoledí. Da allora in casa mia non erano piú entrati uomini, non prima che quel neonato corpulento venisse al mondo con un sorriso. È vero! Aveva sorriso! La dottoressa aveva detto che si trattava soltanto di una smorfia. Io so che era un sorriso. Ce l’ha ancora, l’ha sempre avuto. La sua arma migliore. L’ultima volta che pianse aveva un anno e mezzo.
Me lo appoggiarono sulla pancia. Un’inconcepibile massa di carne umana fresca che già in quell’attimo aprí gli occhi e a tentoni mosse la bocca lungo la mia pelle alla ricerca del seno. La dottoressa e le altre persone in camice bianco scoppiarono a ridere mentre gli affibbiavano un altro leggero scapaccione sul sedere. Che tipetto!
Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Mi dissero che era tutto normale.
Otto bambini e due adulti erano seduti a un tavolo da pranzo ovale. Sette di loro recitarono la preghiera insieme ai due adulti prima di cominciare a mangiare. Il nuovo arrivato aveva ragione: era una stanza comune, quella in cui era entrato alcune ore prima.
La cucina si trovava piú all’interno della grande villa ristrutturata. Probabilmente al tempo in cui la casa era nuova fungeva da stanza di servizio. Aveva un’atmosfera domestica e accogliente, con i mobili blu e i tappeti di stoffa intrecciata per terra. L’unico dettaglio che la distingueva da una casa privata, oltre al numero insolitamente grande di bambini, erano le liste dei turni di servizio. Erano appese a un grande pannello sulla porta di uno dei salotti: quello che chiamavano «da tutti i giorni», come aveva imparato il nuovo arrivato. I nomi erano corredati da piccole foto del personale. Gli avevano spiegato che era perché non tutti i bambini sapevano leggere.
– Figuriamoci, non sanno leggere, – aveva commentato con scherno. – Ma qui non c’è nessuno sotto i sette anni!
L’unica risposta che gli fosse stata concessa era consistita in un sorriso amichevole da parte della donna robusta, che adesso sapeva essere la direttrice.
– Non si dice direttrice, – aveva ribattuto lui. – Si chiama responsabile. Proprio come si dice insegnante, anche se è una donna.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice norvegese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Anne Holt.