Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Un uomo quasi perfetto di Danielle Steel, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 9,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
Un uomo quasi perfetto: trama del libro
A quarant’anni, Stephanie viene improvvisamente piantata dal marito che, la lascia sola a occuparsi dei due figli. Benché sconvolta, si sforza di reagire e, dopo due anni di solitudine, incontra a Parigi l’affascinante Peter, un ingegnere americano che la corteggia con mille attenzioni. Ma la faccenda si complica quando lui lascia New York per la sua azienda in California – dove è impegnato in ricerche bioniche – promettendole una sorpresa al suo rientro. In effetti Stephanie non crede ai suoi occhi quando un giorno apre la porta e….
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Mi alzai e mi aggiustai educatamente la camicia da notte sotto lo sguardo di Roger. Aveva un atteggiamento formale, imbarazzato.
«Cosa hai detto?» chiesi con un sorriso, inconsapevole che un mirtillo della focaccina dolce che avevo mangiato un’ora prima mi era rimasto incastrato nel canino superiore. Ma questo lo avrei scoperto mezz’ora dopo, quando piangente e con il naso rosso mi guardai allo specchio. A quel punto della saga, invece, continuavo a sorridere, ignara di quello che stava per accadere.
«Ti ho chiesto di sederti», rispose, guardando con interesse la camicia da notte, i capelli arruffati e il mio sorriso. Ho sempre trovato difficile discutere di una cosa importante in camicia da notte e con un uomo vestito per andare a Wall Street. Avevo i capelli puliti ma spettinati, le unghie erano ben curate ma senza smalto. Non lo mettevo più dai tempi del college: mi faceva sentire più intelligente non avere le unghie smaltate. E poi ero una donna sposata. All’epoca covavo ancora l’illusione che le donne sposate non dovessero darsi tanto da fare con il proprio aspetto. Ovviamente mi sbagliavo, come avrei avuto modo di scoprire di lì a poco.
Ci sedemmo l’uno accanto all’altra sulle due sedie ricoperte di raso ai piedi del letto. Ancora una volta pensai quanto fosse stupido averle lì. Mi avevano sempre dato la sensazione che dovessimo negoziare qualcosa prima di andare a letto. Ma a Roger piacevano, apparentemente gli ricordavano sua madre. Non avevo mai cercato di dare un significato più profondo a tutto questo, il che, forse, era parte del problema. Roger parlava spesso della madre.
Mi guardava come se avesse qualcosa d’importante da dirmi, mentre io riabbottonavo la camicia da notte, rammaricata di non aver indossato una blusa e i jeans, il mio abbigliamento abituale. Il sex appeal non rientrava fra le mie priorità. Prima venivano i figli, il mio senso di responsabilità e l’essere la moglie di Roger. Il sesso era un gioco a cui ci abbandonavamo di tanto in tanto. Ultimamente sempre più di rado.
«Come stai?» domandò.
«Come sto? Bene, credo. Perché?» Forse non avevo un bell’aspetto e credeva stessi male.
Rimasi immobile aspettando di sentirgli dire che aveva avuto un aumento, perso il lavoro, o che mi avrebbe portato in Europa, cosa che succedeva quando aveva tempo. Qualche volta mi faceva la sorpresa di un viaggio: di solito era il suo modo di dirmi che aveva perso il lavoro. Ma non aveva l’aria imbarazzata. Questa volta non si trattava del lavoro o di una vacanza, doveva avere in mente un altro tipo di sorpresa.
Cominciavo a sentirmi un po’ goffa, con la camicia da notte tappezzata di piccoli strappi qua e là e la maglietta logora che portavo sotto per proteggermi dal freddo. Del resto, quel look non mi aveva mai creato problemi in tredici anni di matrimonio. Tredici anni felici, per lo meno fino a quel momento. Mentre lo guardavo, Roger mi sembrò familiare quanto la mia camicia da notte. Era come se fossimo sposati da sempre e non avevo dubbi che lo saremmo stati per il resto della nostra vita. Ero cresciuta con lui, lo conoscevo da quando eravamo bambini, era stato il mio migliore amico per anni, il solo essere umano al mondo di cui mi fidassi ciecamente. Sapevo che qualunque difetto avesse – e qualcuno ce l’aveva – non mi avrebbe mai fatto del male. Di tanto in tanto era irascibile, come la maggior parte degli uomini quando avevano problemi di lavoro, ma non era cattivo e non mi aveva mai fatta soffrire intenzionalmente.
Dal punto di vista professionale Roger non era mai stato quel che si dice un uomo di successo. Agli inizi del matrimonio aveva lavorato in pubblicità, poi si era dedicato al marketing e aveva azzardato una serie d’investimenti con scarsi risultati. Ma a me non era mai importato. Era un brav’uomo, ed era buono con me. Volevo essere sposata con lui. Grazie al fondo fiduciario istituito da mio nonno, avevamo avuto sempre abbastanza soldi per vivere in modo più che confortevole; lo stesso fondo mi aveva inoltre permesso di essere comprensiva riguardo agli insuccessi finanziari di Roger. Da tempo ero disincantata sulla sua capacità di far soldi o di tenersi un lavoro per più di un paio d’anni. Ma aveva altre qualità. Era fantastico con i ragazzi, ci piacevano gli stessi programmi in TV, e passare le vacanze estive a Cape, entrambi adoravamo il nostro appartamento di New York, mi lasciava sempre scegliere il film che andavamo a vedere una volta alla settimana e aveva delle bellissime gambe. Sin dai tempi del college, quando facevamo all’amore, in confronto a lui ritenevo Casanova un pivello. Con Roger avevo perso la verginità. Ascoltavamo la stessa musica, mi canticchiava nell’orecchio ogni volta che ballavamo. Era un eccellente ballerino, un padre fantastico e il mio migliore amico. È vero che non riusciva a tenersi un lavoro, e con questo? Il fondo fiduciario dell’Umpa mi aveva tolto le castagne dal fuoco. Non mi aveva mai sfiorata il pensiero che potessi avere di più. Roger era abbastanza.
«Allora, cosa c’è?» chiesi allegramente, accavallando le gambe nude. Erano settimane che non mi depilavo, era novembre e sapevo che a Roger non importava. Non dovevo andare in spiaggia, ma solo sentire quale sorpresa mio marito aveva in serbo per me.
«C’è una cosa che devo dirti», iniziò, guardandomi con circospezione, come se fossi imbottita d’esplosivo e potessimo saltare in aria da un momento all’altro. Ma a parte le gambe irsute e il mirtillo fra i denti, ero relativamente innocua, come sempre.
Avevo un carattere tranquillo, allegro, e non avevo mai preteso molto da lui. Andavamo d’accordo più della maggior parte dei nostri amici, avevo sempre saputo che eravamo una coppia ben assortita, e passare cinquant’anni insieme non mi sembrava una brutta prospettiva. Certamente non per lui. Ma neanche per me.
«Di che cosa si tratta?» chiesi affettuosamente, domandandomi se non avesse perso di nuovo il lavoro. Non sarebbe stata una novità. C’eravamo già passati parecchie volte prima, anche se negli ultimi tempi era sempre più sulla difensiva e i lavori duravano di meno. Si sentiva perseguitato dal suo capo, il suo talento non veniva riconosciuto, e non aveva senso «subire tutto questo». Presagivo l’arrivo di un altro di quei momenti perché negli ultimi sei mesi non aveva fatto altro che lamentarsi. Si chiedeva perché dovesse andare a lavorare, parlava di portare tutta la famiglia per un anno in Europa, o si riproponeva di scrivere una sceneggiatura o un libro. Non aveva mai fatto discorsi del genere prima, e pensai che stesse attraversando la fatidica crisi di mezza età. Forse trovava consolatoria l’idea di rinunciare al tran tran quotidiano dei lavori d’ufficio per qualcosa «di creativo». Se era così, il fondo fiduciario ci avrebbe aiutato a superare anche questo. Comunque, per non farlo sentire in imbarazzo, non avevo mai affrontato con lui i suoi innumerevoli fallimenti, i lavori persi, il fatto che il lascito di mio nonno avesse sostenuto la nostra famiglia per anni. Volevo essere la moglie perfetta per lui, e anche se non era un mago di Wall Street, era comunque un brav’uomo.
«Cosa c’è, tesoro?» insistei, allungando una mano. Lui però non mi permise di toccarlo. Si comportava come se stesse per andare in prigione per aver molestato sessualmente qualcuno e fosse troppo imbarazzato per parlarmene. E poi, Roger fece il suo grande annuncio.
«Non credo di amarti.» Mi fissava come se non vedesse me ma un alieno.
«Cosa?» La parola rimbombò come un’esplosione.
«Ho detto che non ti amo.» Sempre più convinto.
«Non è vero.» Lo guardai stringendo gli occhi. Notai solo in quel momento che indossava la cravatta che gli avevo regalato il Natale precedente. Perché diavolo se l’era messa per farmi una dichiarazione del genere? «Hai detto che credi di non amarmi, non ‘che non mi ami’. C’è una differenza.»
Discutevamo sempre di stupidate del genere, piccole cose, come chi aveva finito il latte o aveva dimenticato di spegnere le luci. Non discutevamo mai di questioni importanti, come educare i figli o a quale scuola mandarli. Non c’era niente di cui discutere. Ero io a prendere le decisioni. Lui era sempre troppo impegnato a giocare a tennis, a golf, ad andare a pesca con gli amici o a curare il più terribile dei raffreddori della storia per parlare con me dei nostri figli. Riteneva che fossero di mia competenza. Poteva essere anche un grande ballerino, a volte un tipo divertente, ma non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire avere delle responsabilità. Roger teneva più a se stesso che a me, ma in tredici anni avevo fatto del mio meglio per non accorgermene. Tutto quello che volevo era sposarmi e avere dei bambini. Roger aveva realizzato i miei sogni. Ma ciò di cui non mi ero resa conto fino a quel momento era quanto poco avesse fatto per me.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice newyorchese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Danielle Steel.
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