Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La vendetta del deserto di Michael Crichton. Il romanzo è pubblicato in Italia da Garzanti con un prezzo di copertina di 17,60 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La vendetta del deserto: trama del libro
La grande piramide di Cheope domina l’orizzonte. Mentre il vento gli soffia accanto e la sabbia si alza leggera, Harold Barnaby, brillante egittologo, la osserva e ripensa a quel papiro e alla verità che custodisce. Non avrebbe mai immaginato di poter fare una scoperta così importante. Non avrebbe mai immaginato che esistessero ancora tesori nascosti di cui nessuno sapeva l’esistenza. Non avrebbe mai immaginato che nel decifrare un testo in geroglifici sarebbe apparsa una tomba regale finora sconosciuta. Solo lui ne è al corrente, e ora è determinato a trovarla. Perché quel ritrovamento sarà la sua fortuna. C’è un unico problema: compiere lo scavo all’insaputa delle autorità. Un’impresa quasi impossibile per un professore di archeologia. Harold Barnaby capisce che ha bisogno di aiuto. Ha bisogno di soci abbagliati come lui dalla sete di oro e ricchezza. E così coinvolge nella missione uno scrittore dalle molte conoscenze, un ricco finanziatore, un contrabbandiere e un noto ladro internazionale. La ricerca del tesoro ha inizio. Ma il deserto è un ambiente ostile, forse troppo per un gruppo di estranei legati solo dalla propria avidità. E quando si riporta alla luce qualcosa che è stato sepolto per secoli, a volte il prezzo da pagare è molto alto. Perché il deserto non perdona.
Approfondimenti sul libro
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«Voglio salire», stava dicendo.
L’altro lo guardò con scarso entusiasmo, poi si strinse nelle spalle. «Okay, capo», si arrese. «Ti accompagno.»
«Bene.»
Barnaby fece scorrere lo sguardo lungo la facciata dell’edificio fino alla sommità. Se da lontano la piramide sembrava digradare dolcemente, da vicino pareva quasi a picco. In quel momento stava scendendo un gruppo di turisti, puntini quasi indistinguibili dalla sua posizione.
«Sei solo?» chiese la guida. Era un tipo basso, molto scuro di pelle; indossava pantaloni larghi, sandali e un’assurda giacca formale nera sulla quale era appuntato il distintivo di ottone.
«Sì. Sono solo.»
«Okay, capo, andiamo. Fai quello che faccio io, d’accordo? Metti i piedi e le mani dove li metto io. Ti faccio vedere.»
Si avviò, e Barnaby lo seguì. Avrebbe preferito andarci da solo, ma la polizia esigeva che i visitatori fossero accompagnati da una guida. Non appena iniziò l’ascesa ne capì il motivo. I blocchi di pietra erano enormi, alti circa un metro e a volte lunghi quasi due. In molti punti fra un gradone e l’altro non c’erano più di trenta centimetri di spazio piano, che oltretutto era stato reso pericolosamente liscio dal passaggio di innumerevoli turisti.
La salita era dura. La guida procedeva a passo spedito, in apparenza abituata ad arrampicarsi su quelle grosse pietre, ma Barnaby si muoveva con prudenza. Si stavano allontanando sempre più da terra. Da lassù, i taxi e i cammelli apparivano minuscoli. Quando affrontarono il lato sud-est, si accorse di avere una visuale completa sul Cairo, a una ventina di chilometri di distanza. Anche in quella giornata torrida, lì il vento soffiava forte e gli strattonava i vestiti.
La guida si fermò ad aspettarlo.
Barnaby ora procedeva con maggiore circospezione, perché aveva le mani coperte di sabbia fine e non si fidava della presa. Si issò un blocco dopo l’altro finché non raggiunse la guida.
«Tutto a posto, capo?»
«Certo», rispose Barnaby ansimante. A circa metà della salita, il deserto, il Nilo e Il Cairo si estendevano davanti a loro. Le altre piramidi di Giza e la Sfinge, invece, erano nascoste dietro la Grande Piramide.
«Bello, no?»
Barnaby annuì. Stava bene attento a non guardare giù, acutamente consapevole di trovarsi su una specie di cornice non più larga di sessanta centimetri. «Proseguiamo.»
«Okay, capo.»
Ripresero a salire.
Da allora in poi le cose si complicarono: il vento gli fischiava forte nelle orecchie e gli gettava sabbia negli occhi. Barnaby notò i nomi dei turisti incisi sulle enormi pietre e si sforzò di concentrarsi su quelli per non pensare all’altezza. Il percorso divenne ancora più ripido e a un certo punto la guida dovette fermarsi per ritrovare la strada. Barnaby si rese conto di essere madido di sudore.
Si maledisse per essersi imbarcato in quell’impresa. Fece una pausa per asciugarsi le mani sui pantaloni, una alla volta, in modo da tenersi sempre aggrappato alla roccia. Sapeva di doverla scalare, la Grande Piramide. Venire in Egitto e non farlo era una cosa che non si sarebbe mai perdonato.
Poi, d’un tratto, si ritrovarono in cima. Barnaby, che si era ormai rassegnato a non vedere la fine della salita, fu colto di sorpresa nello scorgere una piattaforma di una decina di metri quadrati. La guida si chinò e lo aiutò a superare l’ultimo blocco di pietra.
Era in vetta alla piramide di Cheope, o Khufu. Le gambe gli tremavano per il sollievo e l’eccitazione. Si mise subito a sedere e fissò il panorama. Da quella posizione privilegiata poteva ammirare Il Cairo, che occupava la punta del verdeggiante delta del Nilo: la torre delle comunicazioni, le moschee e la cittadella. A sud, dal suo lato del fiume, c’erano le necropoli di Saqqara e Dahshur, con le loro piramidi. Girandosi, vide le due piccole piramidi di Giza, i luoghi di sepoltura di Chefren e Micerino.
Si rammentò di quando era stato in cima alla piramide del Sole di Teotihuacán, nelle vicinanze di Città del Messico, e aveva osservato la più piccola piramide della Luna che si ergeva poco più in là. La sensazione che provava ora era simile, ma qui si respirava un’atmosfera carica di mistero e di presagi. Pescò una sigaretta dalla tasca prima di rivolgere il pensiero al suo problema.
Per la prima volta nella sua vita Harold Barnaby, quarantun anni, professore associato di archeologia all’università di Chicago, contemplava la disonestà su vasta scala.
Era un egittologo con un particolare interesse per i geroglifici. Glottologo di talento – un’attitudine che aveva manifestato fin dall’infanzia –, la sua passione per le scritture oscure e le insidie grammaticali lo aveva spinto a studiare le lingue del Vicino Oriente: lingue vive e lingue morte. Per puro caso, in seguito alla provocazione di un compagno di corso, si era accostato ai geroglifici egizi, che ormai leggeva quasi con la stessa rapidità dell’inglese.
Da studente era rimasto affascinato da tutti gli aspetti della vita degli egizi riportati nei testi, ma a poco a poco aveva individuato molti errori di traduzione.
Era stata questa consapevolezza a spingerlo a recarsi al Cairo sei settimane prima. Grazie a una borsa di studio, avrebbe condotto una ricerca su papiri già tradotti in precedenza, convinto che una nuova analisi avrebbe radicalmente smentito le opinioni correnti sullo stile di vita all’epoca delle dinastie del Nuovo Regno, un’era della storia egizia caratterizzata dall’espansione dell’impero, da una favolosa ricchezza e da grandi eserciti.
Il giorno dopo il suo arrivo al Cairo, Barnaby si era recato al Museo egizio, dove aveva incontrato il curatore e il direttore del dipartimento delle Antichità della Repubblica Araba Unita. Lo avevano condotto in uno stanzino spoglio del tortuoso edificio, in cui c’erano solo un tavolo, una sedia e una guardia sonnecchiante. Lì gli venivano portati i preziosi papiri, e lui confrontava i manoscritti con i testi tradotti. Aveva letto delle imprese militari di Thutmose III, vittorioso per diciassette volte in Siria e in Palestina, delle macchinazioni di corte di Hatshepsut e delle glorie di Akhenaton. Con la pignoleria di un revisore contabile, aveva passato al vaglio i messaggi, i dispacci e la contabilità di faraoni morti da oltre tremila anni. Man mano che proseguiva, un nuovo mondo si schiudeva davanti ai suoi occhi: si era dimenticato della guardia e delle sue sigarette puzzolenti, del caldo e della polvere che penetravano nella stanza attraverso la finestra aperta, del frastuono del traffico nelle strade del Cairo.
Completamente assorto in quel lavoro, si era sentito del tutto soddisfatto fino a due giorni prima, quando aveva letto un documento recuperato dalle Tombe dei Nobili, i sepolcri scavati a Deir el-Medina, nelle alture rocciose di Tebe, sull’altra sponda del fiume rispetto all’odierna Luxor. Il papiro proveniva dalla tomba di un visir di nome Butehi, che era stato al servizio di uno dei tanti re saliti al trono in rapida successione dopo Tutankhamon; non si sapeva di che sovrano si trattasse, perché la storia del periodo era piuttosto confusa.
Stando alla traduzione originale, il documento sembrava riguardare l’approvvigionamento di legna da ardere per i bagni caldi della regina e la gestione degli schiavi che si occupavano di lei. Ma, riesaminandolo, Barnaby aveva avuto l’impressione che qualcosa non quadrasse. Era stato tradotto leggendo il testo da destra a sinistra; le frasi avevano poco senso, come se la grammatica fosse stata forzata per conferire ai periodi un significato che in realtà non avevano.
Invertendo il senso di lettura – da sinistra a destra – non ottenne tuttavia un risultato molto migliore. Allora provò dall’alto in basso (gli egizi scrivevano in tutti e tre i modi), ma ancora senza successo. Era frustrante.
Quel breve brano innocuo lo intrigava. Stava comunque per arrendersi, convinto che il gioco non valesse la candela, quando aveva avuto un’intuizione, frutto dei molti anni passati a tradurre manoscritti di quel genere. L’istinto gli suggeriva che si trovava per le mani qualcosa d’importante, così aveva fatto un tentativo leggendo il testo dal basso verso l’alto. Ancora niente.
Era strano che nel passaggio non ci fossero cartigli. Inoltre la spaziatura fra i geroglifici era irregolare e la loro disposizione suggeriva un messaggio cifrato. Poteva essere un codice? In tal caso Barnaby non aveva scampo: per interpretarlo ci sarebbe voluto lo stesso tempo che Champollion aveva impiegato a individuare la chiave per decifrare i geroglifici.
Per un po’ si era divertito a riordinare i simboli, provando qualche semplice sostituzione, senza però arrivare da nessuna parte. Allora si era abbandonato contro lo schienale della sedia e, dopo essersi acceso una sigaretta, aveva cercato di immaginare il carattere dell’autore del documento. Cosa poteva esserci di tanto importante da richiedere un espediente del genere?
Quel visir sicuramente aveva avuto accesso a molti segreti del suo faraone. Con ogni probabilità era stato anche un uomo vanitoso, come Rekhmire, il visir di Thutmose III, il quale aveva fatto scrivere sulla propria tomba che non esisteva niente in cielo, in terra o nelle profondità del mondo sotterraneo che lui ignorasse. D’altronde i visir erano personaggi importanti: il loro potere era inferiore solo a quello dei signori che servivano.
Sì, l’autore del messaggio doveva essere vanitoso e senz’altro desiderava che sulla propria tomba fossero descritte le imprese che aveva compiuto, i provvedimenti amministrativi di successo.
Fissando il papiro, Barnaby aveva finito la sigaretta senza trovare la soluzione del rompicapo. Schiacciato il mozzicone e spinto da parte il portacenere, era tornato a guardare le file di simboli e d’un tratto aveva visto la risposta, chiara come il sole.
Il messaggio doveva essere letto in diagonale. Ecco qual era il senso delle spaziature. Aveva provato dall’alto a sinistra verso il basso a destra. Niente. Poi dall’alto a destra verso il basso a sinistra:
Sua maestà, signore dell’Est e dell’Ovest, sovrano che regna su tutte le cose, ha ordinato…
Il testo della seconda diagonale non si collegava direttamente alla prima frase. Parlava di una dimora eterna, ma la sintassi non funzionava. Forse era necessario saltare una diagonale e poi tornare indietro.
Dopo avere studiato il manoscritto per due ore, Barnaby era giunto alla conclusione che non c’era una disposizione regolare nell’ordine delle righe. Tuttavia il documento poteva essere ricomposto in modo da ottenere un messaggio sensato.
Sua maestà, signore dell’Est e dell’Ovest, sovrano che regna su tutte le cose, ha ordinato, e io ho realizzato per lui un luogo di cui possa essere soddisfatto, ora e per sempre. Ho costruito per [sua] maestà, mio padre, un luogo di riposo per il cielo, una dimora eterna, che nessuno conosce e che mai sarà scoperto. L’architetto, mio genero, resterà senza nome come questa dimora, che non è nota a nessun [uomo].
Barnaby lanciò un’occhiata alla guardia nell’angolo, assopita, la sedia spinta indietro contro il muro. Una mosca ronzava senza meta in giro per la stanza.
Scavato nelle profondità [della] roccia, grazie al lavoro di cinquanta uomini, si trova il luogo dell’ultimo riposo di [sua] maestà, signore dell’Est e dell’Ovest, sovrano di tutte le genti. Non là dove molti re sono stati disturbati, ma vicino; non così in basso, ma in alto; a nord, dove può essere ritrovato soltanto grazie a quanto scrivo. Partendo dal colonnato della donna-re, a metà strada, si va a 6 iter e 1 khet a nord, fino all’alta fenditura dove volano gli uccelli, perché essi si spingono vicino al [regno di Osiride] come sua maestà, nell’eterno riposo. I cinquanta schiavi giacciono accanto alla dimora eterna, e mio genero veglia su di loro. Sono stato io a fare tutto questo, e solo io conosco il luogo. Ho realizzato qualcosa di grande. La mia saggezza verrà lodata per secoli e secoli.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore e regista statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Michael Crichton.
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